Quando desidero prendere una boccata d’aria scelgo di fare quattro passi in una parte della città che sia tranquilla e poco trafficata. L’ideale sarebbe l’altipiano carsico ma per brevità di tempo è piú semplice trovare una zona di semiperiferia, o una passeggiata lungomare, oppure ripiegare sul Giardino Pubblico che, pur nella modestia della manutenzione, offre alberi ombrosi, praticelli verdeggianti, macchie di cespugli, e nella stagione giusta si riempie di profumi e colori.
Ma non è sempre cosí; spesso gli alberi sono rinsecchiti, i colori e i profumi scomparsi, e mi ritrovo a camminare per viottoli ingombri d’immondizia, con panchine sudice, sgangherate, lapidi ed erme deturpate da clan di gabbiani che, negli ultimi tempi, hanno trasformato il giardino in un’enclave ornitologica, dopo aver eliminato il precedente governo di passeri e piccioni, costretti a risicata minoranza.
Anche i gatti, che di solito popolano i giardinetti, devono starsene alla larga da quei voraci becchi gialli e accontentarsi dell’attività venatoria contro la tribú dei ratti che infesta la zona del laghetto. Una volta in quelle acque verde scuro c’erano molti pesciolini, rossi e argentati, e lo ricordo bene, vi nuotava pure, con eleganza, una coppia maestosa di cigni bianchi. Tutto sparito. Quel che resta è grigiore, squallore, uniformità.
Esco di casa per cercare un mondo pieno di colori e di rigogliose forme di vita, ma come faccio a trovarlo splendente se dentro di me non ho nulla con cui illuminarlo?
Bene, allora vuol dire che sarà questo il tema dell’articolo. Che ci sta a fare l’uomo nel mondo? Dobbiamo attendere la luce del giorno per muoverci? Oppure abbiamo – indistintamente tutti – la possibilità di far luce sull’esistere quotidiano e, volendo, anche notturno? La funzione di torcia ce l’ha pure il mio telefonino, costato Euro 19,90 al supermarket; è ragionevole pensare che io, come struttura umana, sia sprovvisto di un personale generatore di luce?
Il solo dubitarlo è inverecondo; ma i dubbi sono astuti e riescono a far passare la vergogna (che in questo caso sarebbe redentrice) per un indice d’elevata sensibilità e raffinatezza congetturale. Nulla di piú farlocco; rientra piuttosto nella categoria del «non ci riesco, non ne sono capace, non si può, non esiste, è oltre i miei limiti» ecc.
In realtà le scusanti che la nostra fantasia trova a motivazione dell’atavica ritrosia ad esporsi in prima persona, sono invenzioni di un ego ormai incancrenito nella poltroneria, che ha eletto il proprio regime di cialtrone a stato civil-democratico, conservatore d’inclinazioni progressiste.
Coniata la bella titolazione, sbandierata come vessillo ideologico di riferimento, ci si stupisce, ci s’indigna, si soffre per ogni situazione che osi portare a galla la turpitudine del costrutto menzognero sul quale ci siamo adagiati per noia, pigrizia e codardia.
Vogliamo parlare di luce, di colori, di forme di vita rigogliose? Quelle lí le fa la natura, ogni tanto, nella stagione prevista. L’uomo non può mica sostituirsi alla natura! Il Sole splende di luce propria, non siamo certo noi a dargli la carica!
Chi ragiona in questo modo, come ad esempio il sottoscritto in alcuni momenti di particolare criticità, (per esempio, quando mi faccio un selfie, ritenendolo cosa originale) deve fare molta attenzione alla situazione psicologica in cui si trova; le incertezze, le riflessioni che caratterizzano questi processi di vita, denunciano un disagio interiore che nasce sempre dall’aver perduto l’armonia con se stessi e con il mondo, una qualche alterazione è attualmente in corso e sta lavorando contro la nostra buona evoluzione. Lo so, non ne esiste una “cattiva”, ma dicendo buona sono sicuro di farmi capire meglio.
Il discorso ora si fa vago, perché le cause, provenendo da tutti i reparti con i quali ci relazioniamo, diventano strettamente soggettive. Ma per intenderci in modo chiaro, mi avvalgo qui dell’arguzia di un noto aforisma, premesso da Luciano De Crescenzo alla sua simpatica Storia della Filosofia Greca. Dice un primo pensatore: «Soltanto gli imbecilli non hanno dubbi». Lo rimbecca il secondo: «Ne sei certo?». «Non ho alcun dubbio», replica il primo. Fosse stato un cane, si sarebbe accorto di mangiarsi la coda?
Allora il dubbio è utile o è dannoso? Chi ne ha è persona colta e intelligente, o è un scimunito sempre ondivago e traballante? Cerchiamo di dare un punto fermo a questa antica discussione.
Non posso conoscere la situazione personale dei minerali, delle piante e degli animali in genere, circa l’esistenza e la gestione dei loro dubbi, ma so per certo che i dubbi sono una continua presenza nella formulazione dei pensieri in cui si muove l’anima umana. Sono un ostacolo o sono uno stimolo? Io dico che possono essere l’uno o l’altro, a seconda della direzione cui vogliamo convogliare quell’assieme di noi stessi, che col “pensare-sentire-volere” amministriamo tutti i giorni incessantemente, in ogni attimo di vita.
Se c’è una differenza da rilevare è questa: l’uomo può risolvere i suoi dubbi, le altre forme di vita – ammesso e non concesso che ne abbiano – probabilmente no; sono provviste di funzioni diverse per compiti diversi. La loro sopravvivenza non tocca la questione conoscitiva; mai visto una pietra che faccia i calcoli, una violetta che si cimenti nel canto, né una balena che progetti dove andare in vacanza. La conoscenza è un elemento di spicco dell’umano, e se ci chiedessimo il perché dell’essere gli unici nell’universo conosciuto a presentare una simile specialità, forse potremmo arrivare al punto da intuire che la pulsione umana al conoscere non è soltanto una peculiarità delle specie, ma è soprattutto il segno di una potenzialità evolutiva. Sicuramente non del tutto espressa, sicuramente appena abbozzata, ancora in fieri, ma – senz’ombra di dubbio (eh, eh!) – universalmente distribuita in equa misura.
Poco fa ho nominato il sole, la luce, i colori e quei beni naturali di cui usufruiamo nella placida noncuranza di chi pensa alle cose come dovute. Non tutti gli uomini però si comportano con la medesima indifferenza, per non dire ingratitudine. Alcuni si dedicano con perseveranza e tenacia a comprendere l’universo in cui viviamo, si sforzano di farlo giorno dopo giorno, e alle volte raccolgono anche il plauso della fama e del successo. Ciò che importa per costoro è dare una risposta a quanto resta ancora nell’ombra fitta dell’ignoto. Pare infatti che, in questo senso, il conoscendo superi sempre di gran lunga ogni conosciuto.
Cos’è il Sole se non un’emittente di energia? Cos’è la luce se non un’emanazione elettromagnetica?
Ma chiediamo allo scienziato di darci – in camera caritatis – la definizione di “energia” e la definizione di “campo elettromagnetico”. Trattandosi di persona decisa a non barare, allargherà le braccia e, con un sospiro, ammetterà di non saperlo. Non per ora, almeno. Conosciamo molti effetti, ma pochissime cause.
Una delle deduzioni piú interessanti, e anche rivoluzionarie, che io abbia mai incontrato, l’ho trovata nella Scienza dello Spirito, fin dal tempo in cui mi ci sono accostato per la prima volta, attraverso le opere di Rudolf Steiner e di Massimo Scaligero. È la seguente: la nostra funzione pensante è una sorgente di energia, anzi, è la sorgente di energia per eccellenza, la piú pura ed assoluta che mai sia stata offerta all’esperienza degli uomini. Nulla vieta non solo di paragonare questa forma a quelle altrettanto note (e altrettanto misconosciute) del sole e dei campi elettromagnetici, ma addirittura (per chi se la sente) si potrebbe affermare che trattasi di forze provenienti da una unica fonte ultraterrena, chiamate poi in modi diversi a seconda delle implicazioni con le quali esse vengono al confronto percepibile, e si presentano a noi differenziate nello spazio e nel tempo: ovvero, nella nostra realtà fisico-sensibile.
Se questa ipotesi ha un suo valore e trova nell’anima una zona sufficientemente disponibile per attecchire e svilupparsi in ulteriori pensieri, allora il ricercatore che ne abbia conseguito la sintesi potrà dire a se stesso: “Ecco il punto di svolta! Qui l’elemento metafisico diventa fisicità”.
Con questo non pretendo che il suddetto ricercatore si autoglorifichi nella scoperta che tale passo comporti, quale prima e immediata conseguenza, il fatto di aver consapevolizzato la possibilità di un contatto con il Divino (cfr.: lo Spirito si è fatto carne). Questo semmai appartiene alla sfera piú intima di ognuno. In quanto accada come evento della coscienza, è affidabile alla riservatezza, in quanto non accaduto né sperimentato, non avrebbe senso parlarne.
Che in ogni essere umano vi sia un generatore d’energia di altissima qualità (il pensare non sporca, non inquina, non puzza e non lascia scorie, ma sposta le montagne, colma gli abissi, non si esaurisce mai e non costa nulla) per lo piú disatteso e ignorato dalla moltitudine, che si scanna ogni giorno nell’affannosa ricerca di risorse (economiche, salutari, affettive, energetiche e via dicendo) frugando sempre e soltanto all’esterno di sé, dentro la materia, è un’idea cosí immensa nella sua portata, da spazzar via qualsiasi altra invenzione realizzata dalla preistoria all’epoca odierna, dalla ruota alla stampante in 3D. Tutte le nostre trovate, le innovazioni geniali, fin qui orgoglio e patrimonio dell’umanità, di fronte ad essa si riducono al livello di scoperta dell’acqua calda.
Cosa si oppone a che ciò avvenga? Tre sono gli ordini di forze impegnate da sempre ad impedire all’uomo di procedere speditamente verso quella verità che si porta dentro da quando è comparso sul palcoscenico del mondo. Queste forze, perdurando senza trovare alcuna resistenza da parte nostra, nell’arco di millenni di storia, si sono stratificate nell’anima prima ancora che in questa si producesse, per naturale partenogenesi, la coscienza, e in seguito ad un ulteriore sviluppo, l’autocoscienza. Sono barriere ostacolative divenute convincimenti, estremamente radicati, pressoché impossibili da rimuovere se non chiamando a raccolta e concentrando ogni volere decisionale. S’impongono come stati di coscienza, o piú semplicemente, modi di concepire la realtà in cui viviamo.
Lo sbaglio iniziale, che sul momento di attuarsi avrebbe potuto essere riconosciuto, ha creato quel tanto di allentamento nella capacità introspettiva e nell’autoanalisi obiettiva del proprio sé, sufficiente a farlo passare come “non dannoso” per l’umanità e codificato di conseguenza. Il malum è diventato bonum. La mela di Eva è un prodotto del comparto agroalimentare, nulla di piú. Se non è bacata, la puoi mangiare tranquillamente. Da quel momento in poi, il processo di obnubilamento delle coscienze è proseguito a cascata nei tempi a venire, fino al giorno d’oggi, in cui o parli di materia e di cause prettamente fisico-sensibili, oppure la tua opinione non riscuote interesse alcuno.
A grandi linee risultano individuabili tre dominazioni ostacolative, divenute forme parossistiche di credenze collettive, tanto insufflate quanto raggiranti:
1. il credere che il pensare sia una delle tante espressioni corporee, una secrezione glandolare, come la saliva, il sudore e quant’altro, con sede istituzionale nel cervello fisico;
2. il credere che l’anima non esista nel senso dottrinale della parola, ma si tratti di una “cassa di risonanza interiore” in cui sensazioni, impulsi ed emozioni si frammischiano a sentimenti, affetti, passioni ecc., creando cosí il famoso ‘guazzabuglio’ di manzoniana memoria;
3. il credere che il volere sia una dotazione destinata a modificare la veste della realtà; da adoperare per l’esaltazione estetica delle forme, lasciando inalterata la loro sostanza, nella illusione che quest’ultima regga in eterno senza un ragionevole apporto di periodiche revisioni e supporti strutturali.
Il reale avrebbe dovuto essere stimolo e provocazione ad un pensare vieppiú acuto e articolato, ma invece l’ostinata ricerca del grandioso, del faraonico, del ridondante-tutto-da-ostentare, svela la piccolezza di un’anima umana, costretta a circondarsi di fastoso gigantismo di cartapesta, onde non trapeli la meschinità del proprio decadimento.
Non è facile collegare il disastro del Viadotto sul Polcevera al proliferare di beauty farm, di fitness club o di wellbeing center, la cui diffusione incontrollata caratterizza gli ultimi secoli; ma se fissiamo certe realtà con un’adeguata lente d’ingrandimento e tiriamo alcune deduzioni con l’implacabile lucidità di Sherlock Holmes, allora salta fuori che la finalizzazione di mire estetiche, diretta all’esclusiva esaltazione dell’apparire, è una carnevalata con cui nascondere l’immaturità di una concezione del mondo ove l’immediato percepito è assunto senza mediazione del percipiente.
È la rinuncia dalla quale nascono le credenze, le supposizioni, il “sentito dire”; l’occorrente (dicesi kit) per arrivare ad una conclusione, senza un’analisi preventiva, senza una determinazione del pensiero, senza lavorío introspettivo, ma piuttosto sotto l’influsso coinvolgente di emozioni, psichismi e disturbi patologici, che l’attuale scienza medica non prende nemmeno in considerazione in quanto altre emergenze, ritenute primarie, ne assorbono indirizzi e attenzioni.
Voler essere felici, voler stare bene sono richieste umane perfettamente logiche e crismaticamente legittime; ma voler fare a qualunque costo le cose in grande, volersi circondare di imprese epiche, esibirsi nell’onnipotenza del potere, di qualunque settore si tratti, quando in parecchie parti del paese mancano ancora l’acqua e le condizioni igieniche piú elementari, significa aver capito poco o nulla delle esperienze trascorse dai nostri predecessori, fedelmente documentate nei testi critici di storia e filosofia.
Perché dunque, se tutto fosse cosí chiaro e semplice come certe indagini appassionate e pungenti, ma anche saccenti e moralistiche, vorrebbero farci credere, i dubbi, e non solo quelli di fondo, permangono e ci fanno traballare di fronte ad ogni situazione in cui siamo chiamati a decidere?
Il dubbio me l’ha schiarito un uomo di legge, membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura. In un’intervista televisiva, ai giornalisti che lo attaccavano sull’annoso e irrisolto problema della separazione delle carriere (tra magistratura inquirente e magistratura giudicante) ha ribadito con secca fermezza: «Ditemi voi il vantaggio di mantenere separate due funzioni della stessa legge che da una parte punisce quando la prima mente e dall’altra punisce quando la seconda dice il vero».
Sembra un busillis ma è invece un risvolto della procedura in vigore nel nostro ordinamento giudiziario; un Pubblico Ministero, nell’esecuzione dell’incarico di perseguire e condannare un imputato, può “caricare” indizi e prove, può evidenziare alcune parti a sfavore di altre e può avvalersi di testimonianze derivanti da fonti anche non appurate o incerte; in tal caso, egli potrà incorrere nel delitto di calunnia e di falso ideologico. Per contro, un avvocato difensore, il quale, convinto, mettiamo per crisi di coscienza, della colpevolezza del proprio cliente, e stante l’obiettiva reità di quello, chiedesse al giudice di non assolverlo, commetterà i delitti d’infedele patrocinio e rivelazione di segreto professionale.
La separazione delle cariche risulterebbe allora piú utile alla società civile che non l’alternanza delle medesime? Ogni magistrato può passare da un ruolo all’altro, oppure chi accusa non dovrà giudicare mai, né, ovviamente, alcun giudice potrà ricoprire il ruolo di P.M.?
Una simile “stravaganza”, a rigor di logica definibile in questo caso come magistrale, ci aiuta a rimanere con i piedi per terra, e ci fa capire che per amministrare bene la giustizia ci vorrebbero solo uomini giusti. Il problema però non si risolve con facili moralismi. Ampliando la metafora, le premesse del quesito non ci ricordano forse da vicino la situazione interiore dell’uomo, di ogni uomo vissuto e vivente su questo pianeta? In ciascuno di noi coabitano due centri di potere e di giudizio, che si amministrano però con registri molto diversi tra loro, per non dire opposti.
Una parte di noi vive e persegue la verità, un’altra è totalmente immersa nella realtà. Una è tutto Spirito, l’altra è solo mondo. Ci è data ordinariamente la possibilità di esercitare la nostra umanità ora esibendoci in un ruolo, ora cimentandoci nell’altro. Ma i tempi e i modi non ce li prendiamo da noi. Ci vengono sottratti dall’impreparazione.
Forse che l’io inferiore e l’Io superiore andrebbero tenuti separati tra loro?
Certo, sarebbe comodo, sapremmo fin dall’inizio da dove derivano le nostre scelte, le decisioni e le azioni che ne conseguono; potremmo riguardare retrospettivamente ai nostri andamenti passati con miglior visualità, ma purtroppo le cose sono molto piú complesse e sovente cosí intricate tra loro che siamo indotti a vivere una condizione, quella dell’ego, convinti di stare nella luce del vero, com’è di fatto il livello dell’Io superiore; viceversa, le istanze orientative di quest’ultimo spesso vengono recepite dal basso come impopolari e troppo faticose per trovare accoglienza; preferiamo quindi depositarle a metà strada, nel limbo astratto delle buone intenzioni, dove finiscono per morire d’inedia.
Come si vede, anche qui funziona la regola del canone inverso: ci sentiamo protetti e giustificati quando agiamo secondo impulso egoico; restiamo scoperti e inermi quando vogliamo donarci al romanticismo dei nobili ideali.
Nasce una dicotomia che non può venir sintetizzata solo perché non ci è comodo supporla. Un livello, o ruolo, se vogliamo, è quello della realtà: essa è sempre ineccepibile, perché le prove della sua massiccia consistenza sono pressoché infinite; l’altro livello, rarefatto e quasi inumano, è quello della verità, che non ha prezzo, ma che comunque costa cara, perché richiede come prima cosa che l’uomo dismetta la sua veste terrena e cominci a vedere se stesso come una potenzialità proiettata verso un infinito che, a questo punto, non dovrebbe far piú paura, in quanto intessuto esclusivamente di conoscenza e di amore.
Infatti, una cosa è sentire se stessi immersi nella realtà contingente, o sommersi in essa quale longa manus del nostro coinvolgimento esistenziale, un’altra è seguire in proiezione il possibile percorso del nostro sé lungo la strada dell’evoluzione. È evidente che la prima condizione, anche se appare emergere nella sua immediatezza, non dà altre possibilità se non quella di vivere, nei suoi vari aspetti, un destino imperscrutabile, lontano soprattutto da ogni riscontro di comprensione; l’altra, quella evolutiva, è una concezione che si matura in noi, ma proveniente da fuori dello spazio e del tempo: reca in sé enormi valenze intuitive e significative capaci di inquadrare e sostenere i misteri della vita umana, ma contemporaneamente ci fa patire il rischio dell’astrazione; se non corroborata di continuo con strenua perseveranza, ci sconnette, ci rende avulsi dal vero, scade a funzione paranoica rispetto al corso degli eventi.
Io superiore e io inferiore, Spirito e materia, conoscenza e moralità, pensiero e percezione sono soltanto alcuni dei tanti aspetti separatistici di cui sono formati i nostri due punti di osservazione interiore; il binomio anima-coscienza naviga incessantemente tra i due: quando ascende (verso l’Io superiore) ogni visione diventa panoramica, luminosa, limpida e oggettiva; quanto scende e permane a basso livello, la prospettiva che comporta non può che essere quella materialisticamente disperata della vita odierna caotica e pressante. Se ci sono soluzioni, esse stanno in alto (nel senso che in quell’ “alto” non esistono neppure i problemi che richiedevano le soluzioni); e se continuiamo a non volerci arrampicare perché costa fatica, sudore, perché c’è sempre qualcosa d’altro da fare, allora non lamentiamoci, manteniamo i numerosi dubbi che sempre di piú popoleranno i nostri sonni ad occhi aperti.
Il problema della TAV inquadra magnificamente la zona infima della nostra realtà: crediamo di avere impellenze urgentissime alle quali dover rispondere adeguatamente in tempi stretti. Non ci passa nemmeno per la testa che qualunque decisione (sí, no, ni, quasi) potrà andar bene solo se le menti e i cuori degli uomini funzionassero all’unisono, senza i siparietti e i retroscena irrisolti, prima ancora che la questione prendesse la forma di un tunnel ferroviario transalpino.
Invece, ho assistito a una penosa disputa tra due comprimari opinionisti, che se ne son dette di tutti i colori, partendo (e questo dimostra ampiamente il baratro d’insana follia in cui siamo caduti senza averne il minimo sentore) dal fatto che la sigla TAV sia maschile o femminile; la discussione se sia corretto dire “il TAV” anziché “la TAV” ha acceso gli animi dei pazzoidi convenuti al talk show raggiungendo toni e accenti irriferibili. Il sesso ci ammorba pure quando si presenta come “genere”.
Anche questo ci sta a significare che siamo liberi; liberi, di dire tutto, di far tutto, anche di disperdere la dignità umana per una miope caparbia ostinatezza da novelli don Ferrante; lí però, (Milano prima metà del XVII secolo) si trattava di un’epidemia perniciosa, elemento ben piú sostanzioso di un buco montano con rotaie.
Ma siamo liberi anche di rifiutare la verità, l’evoluzione, e con essa il miglioramento e i segreti dell’universo. Ci sono numerosi culti, molti atti di fede, tante credenze e diverse confessioni; abbiamo di che riempire le nostre realtà. Se non bastassero, ci sono pure le scelte dell’ateismo, del possibilismo, del nichilismo e del “calcolismo opportunistico”. Avvaliamoci di una di queste: possiamo viverci aderendovi, oppure saltare dall’una all’altra. Ma non ci dobbiamo illudere troppo; “credere” nella materia, “credere” in una religione, o “credere” nell’Antroposofia di Rudolf Steiner, non sono poi cose molto diverse tra loro; le credenze hanno tutte un punto in comune: la rinuncia di andare a verificare di persona come stiano le cose, dapprima nella realtà del mondo in cui mi trovo, e poi nella verità del mio essere interiore in cui, forse, potrei trovarmi ancora meglio.
Incontrerò senz’altro divergenze, contrasti, incoerenze; ma se io non mi prefiguro il compito di riavvicinarle, di appianarle e capire in quale parte del mosaico va incastonata la tesserina che mi è caduta in mano, ogni fede, ogni credenza, ogni corrente a garanzia che qualcuno potrà farlo in mia vece, servirà soltanto a spingermi ancor piú nel trappolone di questo “realismo sconoscitivo”, che pur non costituendo corrente, né movimento, né partito, acquisisce, giorno dopo giorno, per vie sotterranee, un numero di adesioni maggiore di Facebook (il quale, nell’evitare l’esplicito svelamento del business, ce le rigira col termine esotico di endorsement).
A questo punto del discorso arriva la dichiarazione di qualcuno: «Eh, ma io non sono dotato di una visione spirituale; non mi è possibile vedere né tanto meno capire al di là del comune ordinario».
Ed è giusto che ciò accada; tutto questo arzigogolo ha bisogno di una esemplificazione perché altrimenti è solamente un mucchio di parole scritte sull’acqua; dobbiamo pertanto trovare una prova del nove e ce n’è una alla portata di chiunque desideri cogliere l’aspetto saliente del ragionamento.
Sappiamo bene, da pedoni e/o da automobilisti, che al semaforo rosso ci si ferma e che quello verde ci dà invece il via libera. È un fatto acquisito, consolidato da pluriennale esperienza. Ma ci fu un giorno, nel nostro passato, in cui una tale conoscenza non si era ancora formata; oggi siamo convinti che si tratti semplicemente dell’immediata reazione di fronte ad un colore, ma se riandiamo lealmente all’atto iniziale dell’apprendimento, dobbiamo ammettere che la cosa era, al tempo, molto meno pacifica e scontata di quel che si possa credere oggi.
Per ottemperare alle regole del traffico, abbiamo dovuto prendere la percezione del rosso (o del verde) e collegarla con altri pensieri, che a loro volta ci hanno ricondotto a dei principi teorici che abbiamo dovuto in qualche modo imparare, sperimentando o studiando.
Non è quindi l’apparire del rosso o del verde che ci fa assumere i comportamenti relativi, ma è la trafila di pensiero che, a velocità fulminea, ha collegato quel rosso al concetto di ALT e quel verde al concetto di AVANTI. Dietro al collegamento c’è stata un’attività che, muovendosi a velocità supersonica, oggi come allora tira il rapporto e stabilisce la relazione. Tale relazione non è mai colta né osservabile nel suo prodursi, perché è piú semplice ed immediato accontentarsi del prodotto finale: a quale scopo lambiccarsi il cervello per quell’attimo in cui dentro di me la percezione di colore acquista un significato? Perché dovrei farlo? Allora dovrei anche sapere come avvengono e come si formano tutte le cose che quotidianamente adopero, dal cellulare al frigorifero, dalla lavatrice al computer, dall’aspirapolvere alla macchina. La risposta è no, non occorre affatto: frigo, auto, computer ecc. sono già stati inventati e costruiti in modo tale che per usarli basta quel poco che sappiamo. Se poi uno volesse approfondire, buon pro gli faccia!
Qui invece si tratta di capire il meccanismo, anche se la parola meccanismo è un autentico schiaffo per il tema del pensiero. Meglio dire: “Come si crea il nesso tra una percezione e l’altra, ogni volta che il pensiero le individua e le riconosce?”. Nel metterle in un dato rapporto, fa sorgere nelle nostre coscienze quella parte di concetto che le semplici percezioni, prese come tali, non potevano dare. E cos’è quel rapporto, quella relazione, quel nesso, quell’attività impercepita, sempre nascosta ma sempre presente, con la quale – a posteriori – gli studiosi del pensare descrivono l’avvenuto processo che giustamente ritengono di natura metafisica? Massimo Scaligero ha saputo darcene la definizione piú limpida e irrinunciabile: il pensiero «si sperimenta come Luce Predialettica; tale Luce reca in sé il Potere del Principio».
Allora forse ora ci siamo. Dopo un lungo viaggio, partendo da un desiderio di luce e di colore, abbiamo rilevato come il mondo e la vita, di solito, non si presentino in modo da dare un ristoro alle nostre anime assetate di conforto. Poi abbiamo pensato alla luce del sole, alla corrente elettrica, ai campi elettromagnetici, e ci siamo detti: “Sí, tutto bello e buono, ma io non sono un generatore di corrente, né di energia”. Allora abbiamo dovuto tornare al pensiero, a questa misteriosa facoltà, universalmente donata, priva di esclusioni e distingui (cosí cari a chi si diletta nel vivisezionare il molteplice, pensando di arrivare chissà dove a furia di divisioni e sottrazioni). Abbiamo colto, almeno in via teorica, la prodigiosa disponibilità dell’energia pensante, la sua efficace propensione a rendersi duttile e malleabile a nostra richiesta, per avvicinare, unire, saldare tra loro isolotti percettivi apparentemente spaiati e non comunicanti, a configurarli in modo tale che in noi si accendesse la scintilla della comprensione del vero e che pervenissimo ai risultati da esso proposti.
Torno a dirlo; anche dopo tale percorso, chi vuole può restare nella sua iniziale posizione di incredulità rispetto alla luce del pensiero che, a sua insaputa, lo accende in ogni formulazione determinativa, pure in quella di non volerla riconoscere per quel che essa può rappresentare. Ognuno ha i suoi tempi e la lunghezza di questi è calibrata per tutte le “frequenze d’onda” che nell’irraggiamento evolutivo riusciamo a propagare tra l’alternarsi delle vite terrene e di quelle post-mortem.
Posso però garantire una cosa, e lo faccio per esperienza personale: se sto passando per una strada buia o triste, se mi aggiro per giardini sfioriti, abbandonati, se non trovo quelle luci e quei colori che avrei voluto trovare, se l’intero mondo mi appare avvolto in una realtà desolata priva di forze e di energia vitale, beh, eccoci qua! C’è l’uomo, ci sono gli uomini; ci sono io! Chi ha detto che non riesca a far luce? Chi ha mai pensato di non possedere dentro di sé (magari nascosta in recessi sperduti) una sorgente di luce e di amore?
Disturba forse che Qualcuno abbia voluto definirla “Luce Predialettica”?
Se vai ad abitare un appartamento nuovo, per avere elettricità, energia, acqua, luce, gas e riscaldamento, devi andare prima dal gestore e stabilire i relativi contratti. Noi, tutti noi, l’abbiamo fatto sin da quando siamo venuti al mondo; altrimenti non nascevamo.
Adesso si tratta di trovare e aprire gli interruttori. Quelli giusti, però.
Angelo Lombroni