Delle tre facoltà, pensare, sentire, volere, che l’uomo moderno ha unicamente riflesse dal fisico, una sola può essere da lui ripercorsa a ritroso sino alla radice metafisica: il pensare. Il sentire e il volere, ripercorsi, lo riportano comunque a una radice fisica, non perché la loro essenza non sia metafisica, ma perché questa viene estromessa dal loro risonare nell’anima secondo il vincolamento della coscienza pensante alla corporeità fisica. Il vincolamento dell’anima alla cerebralità, epperò alla corporeità fisica, riguarda il pensiero, non il sentimento né la volontà, che semplicemente subiscono le conseguenze di tale necessità del pensiero: la “caduta” del pensiero nella cerebralità, necessaria alla formazione della coscienza individuale e al processo inferiore della libertà.
Il pensiero può ripercorrere il proprio processo: con ciò attua il proprio autentico movimento, il movimento puro, indipendente dalla cerebralità: restituisce al sentire e al volere le rispettive legittime connessioni metafisiche. Nella sfera sopramentale, pensare sentire volere costituiscono una unità, normalmente smarrita nella sfera mentale. Mediante la conversione del pensiero, tale unità viene restituita.
Il pensiero riacquisisce il potere dell’automovimento, in quanto venga concentrato su un tema semplice, facilmente dominabile. Non è il tema che importa, bensì il pensiero impegnato in esso: che è sempre l’identico pensiero, sia che pensi la sedia, sia che pensi l’Apocalisse. Inizialmente il tema deve essere un oggetto costruito dall’uomo, o un contenuto matematico, in quanto l’impersonale pensiero che ne è alla base, rivissuto, ha il potere di liberare il principio cosciente dalla psiche soggettiva, legata alla corporeità: dà la garanzia di non deviare nell’inconscio, o nel medianico, o nel mistico. Questo pensiero è il concetto, indipendente dall’oggetto medesimo. Il concetto, ricostituito, diviene, a conclusione dell’esercizio, oggetto di contemplazione.
Il discepolo si concentra su un oggetto, del quale considera la forma, la sostanza, il colore, l’uso ecc., la serie delle rappresentazioni che ne esauriscono la struttura fisica, sino a che al suo luogo rimanga il contenuto di pensiero. Questa operazione non deve impegnare l’attenzione cosciente del discepolo meno di cinque minuti, al termine di essa, l’oggetto deve essere dinanzi alla coscienza di lui come un simbolo, o un segno, o una sintesi, avente in sé indialetticamente tutto il contenuto di pensiero elaborato.
Questo è l’esercizio tipico della concentrazione, il cui processo, esigendo la cooperazione – sia pure momentanea – dei principi costitutivi dell’uomo, Io, anima, corpo sottile, corpo fisico, secondo gerarchia originaria, è fondamentale per lo sperimentatore moderno. Come esercizio tipico, esso è completo e può da solo, se rigorosamente praticato, condurre al reale equilibrio interiore e in séguito all’esperienza sopranormale.
L’importanza di questo esercizio consiste nella sua semplicità, che consente la massima intensità del pensiero cosciente. Il materiale chiamato alla costruzione di esso – rappresentazioni, ricordi, nozioni, forma discorsiva ecc. – non è la forza-pensiero, ma ciò di cui questa normalmente si veste per esprimersi, senza mai lasciar afferrare se stessa. L’esercizio tende a far affiorare nella coscienza questa inafferrabile forza-pensiero.
Ci si porta del tutto entro l’oggetto, considerandolo in sé, secondo le determinazioni che esso contiene, correlate all’unità che il pensiero già in sé possiede e perciò può ricostruire. Colui che crede di compiere un esercizio piú aristocratico, pensando un simbolo sacro, o un deva, o un mantram, o un “mistero”, non si avvede di non sfuggire alla propria personale natura, in quanto è già vincolato con il sentire subconscio al tema evocato: mentre può rendersi realmente indipendente dalla natura, ove muova con pensieri non imposti da questa, ma dalla impersonale obiettività del tema.
Considerando che non v’è oggetto costruito dall’uomo che all’origine non sia pensiero, il discepolo coltiva l’idea che, nella sfera dell’apparire terrestre, di continuo l’invisibile diviene visibile. Questa idea è il principio del superamento della parvenza. Qualunque oggetto costruito dall’uomo rimanda a un momento in cui non esisteva, ma era soltanto pensiero: tale pensiero è stato poi tradotto in concretezza sensibile. L’invisibile è divenuto visibile.
Non v’è produzione, o creazione, umana, che non rimandi a un momento di inesistenza, ossia a un suo vuoto originario, in cui è ritrovabile l’idea. Nessuno, guardando una macchina o un edificio, pensa che si siano fatti da sé. Ma è accaduto che dei primitivi, al primo contatto con oggetti o aggeggi della civiltà della macchina, credessero a meravigliose produzioni della natura: ma non come se quegli oggetti si fossero fatti da sé, bensì come se appartenessero al processo creativo dell’Universo. Verrebbe considerato un insufficiente mentale chi, guardando una bussola, pensasse che si sia fatta da sé. Non diversamente, però, il razionalista ingenuo, malgrado la sua logica analitica, oggi si comporta rispetto alla natura creata: non meglio del primitivo dinanzi allo sconosciuto mondo della macchina.
Se non v’è oggetto prodotto dall’uomo che non rimandi a un consapevole pensiero capace di concepirlo e realizzarlo, onde si può arguire come l’invisibile divenga visibile: ciò che non è stato prodotto dall’uomo e tuttavia esprime un potere creatore, rimanda a un Pensiero che l’uomo non è capace di pensare, almeno nel presente tempo. L’ascesi del pensiero ha appunto il còmpito di destare nell’anima la capacità di un simile Pensiero.
Massimo Scaligero
Tratto da: M. Scaligero, Tecniche della concentrazione interiore, Edizioni Mediterranee, Roma 1975.