Nell’Amleto, Marcello pronuncia la celebre frase: «C’è del marcio in Danimarca», riferita al malcostume di questo peraltro incantevole regno (tuttora governato da una monarchia) proteso dal continente europeo nel Mare del Nord. In quel mare tempestoso navigavano gli intrepidi e bellicosi vichinghi sui loro drakkar affusolati e veloci. Non costruivano perciò torri e castelli, templi e prigioni: il mare vasto e terribile era il loro dominio. Quell’aggettivo ‘marcio’ messo da Shakespeare in bocca all’amico del tenebroso eroe dell’omonima tragedia, gli veniva forse dal fatto che il territorio costiero danese poggia su una massiccia base di torba, resto fossile di una marcita paludosa che nel tempo ha inglobato foreste e viventi, assorbendole e trasformandole in carbone spugnoso e leggero, ricavandone infine le preziose ambre dorate del Mar Baltico. Ma quella concrezione fossile ha salvato anche le armi, le barche e gli utensili che quel popolo di nomadi guerrieri del mare adoperava nelle scorrerie che si spingevano fino alla Scozia e alla Groenlandia, l’estrema Thule.
Gli oggetti d’uso segnano certo la storia, il modus vivendi di un popolo, ma non ne rivelano i pensieri, il carattere animico, le pulsioni emotive, gli umori dei sensi nascosti. Poi, qualcuno ha posto l’attenzione sui kjökkenmöddinger che in danese indica “ gli avanzi del cibo”. Imitando i cinesi che usano dire “ Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”, gli archeologi hanno tracciato un profilo caratteriale, psichico di quel popolo ramingo e fiero che sul mare viveva il suo destino. Esaminando gli avanzi dei pasti consumati per lo piú nei bivacchi sulle spiagge, gli esperti hanno dedotto che i vichinghi si nutrivano di pesci e conchiglie. Hanno trovato infatti lische e valve calcificate, insieme ai rudi attrezzi e utensili per cuocere e consumare il pescato. Se il cibo fosse accompagnato con impasti di farina tostati alla brace non è dato sapere, ma sembra improbabile, essendo la farina un derivato del frumento, non certo disponibile a una comunità non stanziale di nomadi. Allo stesso modo ignoriamo se a preparare quei pasti abborracciati provvedesse un Cannavacciuolo sussurrante al capo della ciurma: «Non senti come cattura il mare questa bella conchiglia?». Ai vichinghi erano risparmiati i masterchef. Naturalmente siamo nell’ambito quanto mai sfuggente dell’archeologia induttiva, mancando riprove scritte della storia di un popolo elusivo. Pertanto, ogni teoria a riguardo naviga nel mare delle ipotesi.
Quello del kjökkenmöddinger non è il primo caso in cui l’archeologia è costretta a navigare a stima non essendo in grado di provare con affidabili documenti scritti la formulazione di un giudizio sicuro. Un inciampo, questo, cui si tenta di rimediare con il DNA, panacea di valenza piú che oracolare, avendo dalla sua il supporto della scienza chimico-molecolare che confina sibille, veggenti, sciamani e profeti nella malcerta sfera dell’empirismo e del mito. Metodo tuttavia manipolabile per condannare a morte degli innocenti o per occultare l’impotenza della giustizia a trovare i veri colpevoli dei reati. Ma il piú delle volte la prova del DNA serve a confezionare schede personali psicofisiologiche da estendere, in mancanza di altri dati storici, all’intera comunità, all’etnia cui il soggetto apparteneva. Uno dei casi piú eclatanti di ‘forzatura’ della scheda genetica ha riguardato l’Uomo del Similaun. Ötzi, questo il vezzeggiativo attribuito subito dagli esperti al reperto antropologico, fu scoperto da due escursionisti tedeschi, emergente dalla sbavatura morenica del ghiacciaio del Similaun, al confine tra Italia e Austria. Fatto questo che, oltre alla dibattuta questione scientifica posta dal reperto, ne innescò una piú seria riguardo al diritto di possesso territoriale vantato dai due Paesi sul territorio posto a cavallo della linea confinaria.
Causa di un conflitto mondiale di cui non si erano spenti del tutto i rancori, l’area contesa da sempre rischiava di riaccenderne uno locale, per via di una mummia.
Eh sí, perché quello che Erika e Helmut Simon trovarono, quel 19 settembre del 1991, sul ghiacciaio del Similaun, mentre facevano trekking, era lo scheletro di un corpo umano mummificato, risalente, secondo gli esperti, che lo esaminarono poi al carbonio-14, a un periodo tra il 3300 e il 3200 a.C. Un bel po’ di anni avevano i poveri resti di un uomo, ché tale era il sesso della mummia, vissuto tra il Neolitico e l’Età del Bronzo, come stabilirono gli esperti del Museo di Innsbruck, dove Ötzi era stato intanto trasferito. Chi era quell’uomo, e che ci faceva a 3.210 metri di quota? Dagli scarsi elementi di vestiario superstiti, strisce di cuoio, brandelli di stoffa grezza, resti di un’arma, forse un’ascia, un coltello, si ipotizzò che fosse un cacciatore, rimasto fulminato, inseguendo una preda, dallo sforzo e dal freddo. O forse si trattava di un fuggiasco, colpito dall’ostracismo per un delitto commesso ai danni di un membro del clan, che tentava di sottrarsi alla condanna capitale. Insomma, i paleopatologi annaspavano nel mare infido delle ipotesi, che furono tante e variegate. Al punto che Ötzi divenne di volta in volta, a seconda delle varie scuole di ricerca antropologica impegnate nell’esame dei resti, un fulgido eroe, un bieco assassino, comunque inviso agli animalisti, per il suo abbigliamento da cacciatore inesorabile che, inseguendo la preda, si era fatto lui stesso vittima.
Con uno speciale spettrometro di massa vennero analizzati i capi di abbigliamento di Ötzi, soprattutto la casacca e le calzature: una specie di cioce con stringhe. Esaminando infine il corredo genetico, gli esperti conclusero che Ötzi non aveva lasciato eredi: il ceppo umano al quale appartenevano lui e la sua gente si era del tutto estinto. Ci furono obiezioni dentro e fuori l’ambiente scientifico. In particolare quella di una signora di Zurigo, che affermava essere quella di suo padre la mummia rilasciata dal ghiacciaio. L’uomo, anziano etologo e botanico, si era recato nell’area alla ricerca di fauna e flora da studiare, senza fare piú ritorno. La sua scomparsa era stata debitamente denunciata alle autorità. Ovviamente la donna era stata tacitata e passata come isterica alla ricerca di protagonismo.
Il busillis, di esperti e non, era la mancanza di documenti dell’“uomo venuto dal freddo”, come Ötzi venne anche battezzato. E se era vera la storia delle gita etobotanica, anche di un moleskine per gli appunti. Come per i Vichinghi danesi, la mancanza di segni didascalici avvolgeva la storia di Ötzi nelle nebbie, spesse e vaghe, delle ipotesi. Ma poi ci si accorse che anche Ötzi aveva i suoi kjökkenmöddinger.
Grazie al DNA, un antropologo molecolare, analizzando i residui batterici della flora intestinale, riuscí a stabilire il menu dell’ultimo pasto di Ötzi: passata di farro, arrosto di cervo o stambecco, arricchito da un contorno di erbe e verdure selvatiche. Non male per l’ultima cena di un primitivo. Anche in questo caso, però, malgrado il DNA, il cromosoma Y e tutti gli altri metodi e strumenti di analisi disponibili, Ötzi non ha finora compiutamente rivelato la sua identità e appartenenza etnica.
Lo hanno fatto in tempi e modi diversi antropologi della domenica, persino maghi e veggenti dell’occulto, millantatori di discendenza biologica, collegati alla mummia per mezzo di complessi, tortuosi intrecci parentali e sociali. Qualcuno inventò persino la scoperta del gatto di Ötzi.
La mancanza assoluta di ogni testimonianza scritta lascia all’arbitrio di chiunque voglia dilettarsi la confezione di teorie piú o meno plausibili, attendibili e condivisibili. La storia dei primordi della civiltà umana poggia sulle colonne di fatti e dati ipotetici, del sentito-dire, del tramandarsi a voce di madre/padre in figlio/figlia. A volte, in rarissime occasioni, un faccia a faccia con la stessa divinità passava rivelazioni supreme, mandamenti inderogabili, istruzioni per l’uso di assecondare Dio e la natura delle cose.
L’Io-sono trasmise a Mosè la Legge per il popolo ebraico parlando sí con voce di tuono e luce di folgore, ma con la prudenza di incidere a lettere ardenti il suo dettato sulla pietra. Non si sa mai… Il fallibile uomo, per quanto eletto tra le creature, inciampa con facilità nell’orgoglio e nella dimenticanza del patto stipulato con la Gerarchie per esserne, alla fine, parte.
Un patto che l’umanità infrange con troppa leggerezza o costretta dalla piega degli eventi, come quando viene a mancare il pane. È successo in Tunisia tempo fa e la penuria ha innescato le cosiddette “primavere arabe”. Capita ora a Khartoum, in Sudan, e la carestia, anche questa causata dal perverso gioco delle commodity gestite da cartelli del cibo e delle risorse, porterà a movimenti di masse umane rese violente dalla fame e piú ancora dalla consapevolezza di subire un ricatto. E non cade dal cielo nessuna manna, come avvenne nel deserto per salvare il popolo ebraico in fuga dalla schiavitú dell’Egitto. Un esperto di economia ipotizza che la manna sarebbe l’unica soluzione per salvare la civiltà umana finita nel deserto dell’incomunicabilità dei sentimenti e dell’ancora piú stringente penuria dei beni di consumo usati dai poteri forti per dominare il mondo. Un potere acefalo, non riconoscibile in alcuna categoria umana, una tabe che si è insinuata nell’anima degli uomini aprendo il varco a potenze di piú alto, anzi piú basso calibro intenzionale.
Un maestro dello Spirito, Massimo Scaligero, lo dice, nel libro Il Logos e i Nuovi Misteri, con parole che andrebbero incise nella pietra: «Dal mentale privo del moto sintetico originario sorge l’ingenua idea che la giustizia sociale sia conseguibile grazie ad una matematica distribuzione giuridica, se non costrittiva, dei beni, piuttosto che ad un libero processo interiore: libero e perciò morale. Non si riesce a concepire che la matematica distributiva dei beni non approderà mai a nulla – anzi peggiorerà la situazione già esistente – se non ha al centro valori interiori come l’autonomia della iniziativa individuale, il riconoscimento delle specifiche vocazioni spirituali in ogni campo, la coscienza del valore assolutamente estrapolitico del principio spirituale. Là dove il pensiero muore alla propria corrente di vita, diviene dialettico e cosciente: ma là dove questo pensiero presume dirigere, per esempio, un processo economico, è inevitabile che elimini in esso l’elemento coesivo di vita, ossia la dynamis della circolazione armonica dei beni umani secondo la sua intrinseca necessità: la logica in movimento nella loro produzione e conseguente distribuzione viene paralizzata, in quanto meccanizzata.
Questo pensiero, in quanto morto, non può afferrare il moto vitale che, come un istinto cognitivo superiore, dà impulso immediato alla connessione economica: impulso che per estrinsecarsi sino alla sfera degli istinti, deve muovere direttamente dallo Spirito. Gli occorre un pensiero vivente; quello che nel passato operò come pensiero intuitivo-istintivo di geniali organizzatori della produzione, ai quali i popoli piú evoluti debbono il benessere che ora stanno perdendo. E sarà sempre piú perduto: perché il pensiero astratto, non economico, bensí politico, non può che paralizzare l’elemento di vita del processo economico, ossia il suo moto causale che, nella essenzialità, non è afferrabile dalla misurazione numerica e logica, avente solo un còmpito di registrazione interpretativa e di indicazione. Allo stesso modo il pensiero razionale paralizzerebbe la circolazione del sangue, se, per sventura dell’uomo, riuscisse a dirigerne il moto vitale. In realtà, al livello piú basso, quello della produzione dei beni economici, può agire solo il pensiero piú alto: al quale occorre essere libero, perché non si estrinseca teoreticamente ma direttamente nei dati sensibili, secondo la connessione intuitiva necessaria dei concetti rispondenti a tali dati: concetti percepibili rispettivamente nell’immediatezza dei dati in movimento, grazie a una pratica capacità di penetrazione, che non patisce costrizione ideologica. Coloro che nel passato hanno cominciato a edificare l’organismo economico in alcune zone della Terra, dalle quali questo tendeva a irradiarsi nel mondo, non erano teorici dell’economia, o politici, bensí pratici portatori dell’intuito economico: l’aurea razza degli organizzatori del lavoro umano, che l’ideologia livellatrice va perseguitando ed eliminando su tutta la Terra, nell’illusione di colpire in essi l’egoismo proprio alla prassi economica, in realtà insito nell’anima umana e solo in essa trasformabile».
E un poeta, Shelley, sulla scia dell’idealismo platonico, nel suo Difesa della Poesia, fornisce una chiave cordiale al problema: «Il grande segreto della morale è l’amore; o la capacità di venir fuori dalla propria natura e di identificarsi con il bello che esiste in altri pensieri, azioni, persone; un uomo deve avere un’immaginazione intensa e comprensiva per essere realmente buono; si deve mettere al posto di un altro e di molti altri; le pene e i piaceri della sua specie devono diventare suoi».
Ma queste idee e parole sono state dette e scritte mille e una volta da altri maestri dell’Io e da poeti del cuore. L’avvento della soluzione di riscatto e salvezza per l’uomo è descritto nelle “Beatitudini” evangeliche confermate dal Cristo. Ma tarda il tempo di realizzarle nel vivo della vicenda umana, per le troppe pietre d’inciampo dell’inganno originale poste sul cammino della civiltà dei “mangiatori di pane”: l’umanità carnale coi suoi bisogni materiali da soddisfare ad ogni costo. È la ricerca della felicità, canonizzata nelle costituzioni dei popoli, imperativo categorico e diritto supremo inalienabile. Felicità che va però gestita con la misura e la prudenza rapportate al contesto sociale in cui la si esibisce. L’aristocrazia francese, esibendo con sfarzo e arroganza la propria, accese la rivolta nel popolo affamato e miserabile, che coglieva in quella felicità troppo esibita, oltre la provocazione del vincente nel gioco materiale, l’umiliazione dello scacco morale del vinto. Che allora si rifece con la ghigliottina, oggi con la lama di un coltello affondata da un vagabondo nella gola di un passante sconosciuto. Richiesto dagli inquirenti del perché di quel gesto inconsulto, il reo ha risposto: «Appariva troppo felice». È accaduto a Torino, città compassata e tollerante.
Proprio in questa città è conservato un documento storico che testimonia quanto la penuria di cibo e la fame possano deprimere l’essere umano e condurlo fuori dall’equilibrio dei sensi, verso azioni folli e deleterie. Nel Museo egizio, un dei piú importanti dopo quello del Cairo, viene esposto un papiro che riporta le rimostranze dei lavoratori impegnati nella costruzione della futura tomba del faraone regnante, Ramesse III, nella Valle dei Re, a ovest di Tebe. È il decimo giorno del mese di peret, gennaio, e le razioni di cibo non sono state ancora fornite ai lavoranti, che vanno perciò in sciopero e fanno un vero e proprio sit-in accanto alle costruzioni del sacello reale. Allo scriba incaricato di riportare le lagnanze al faraone, vengono specificate le razioni di cibo richieste: 28 razioni di focaccia dolce e 27 di focaccia salata. Inoltre chiedono pesci e verdure, insieme a vestiti decenti, unguenti per le ferite e per il sole. Che Ramesse III, successore di quello dell’Esodo e delle Piaghe, abbia autorizzato la fornitura delle provviste, dei panni e dei medicinali, non è dato sapere. Resta la prova scritta di un ricorso storico: uno sciopero per sollecitare migliorie nel trattamento dei lavoratori, in questo caso dell’edilizia pubblica.
Negare all’uomo il sostentamento basilare della vita può scatenare istinti primordiali, incontrollabili. Si legge in cronaca di riti antropofagi eseguiti dai postulanti per essere ammessi nei clan della malavita. Sono questi i residui che la civiltà dei consumi manderà alla storia, i kjökkenmöddinger dell’uomo bulimico e feroce? Questi i relitti atroci che il mare tumultuoso della storia spiaggerà sotto lividi cieli, insieme agli indistruttibili rimasugli delle plastiche che ingombrano i litorali e gli oceani del pianeta?
L’assillo di Amleto “Essere o non essere” troverà soluzione nella promessa che il Cristo fece ai suoi: «Io sono il pane di vita. Chi ne mangerà non avrà piú fame».
Un cibo eterico, che non lascia residui.
Leonida I. Elliot