«Io sono la luce del mondo», ha detto il fondatore della religione cristiana. Che frase stupenda! E quanto è splendida oggi che siamo consapevoli dell’oscurità che grava sul mondo! «Lasciate che la vostra luce brilli davanti agli uomini», Egli ci esortò.
Quanto mi piacerebbe poter parlare con la millesima parte della sicurezza e della luminosità di San Paolo a Tessalonica, quando lui e i suoi compagni stavano buttando all’aria il mondo, nel senso letterale del termine, affermando contro i decreti di Cesare che vi era un altro Re, un certo Gesú. Parole d’oro, davvero una luce splendente. Ma qualcosa era accaduto a San Paolo, cosí come ai discepoli di Cristo, che da uomini quasi incapaci di esprimersi e codardi al punto che erano fuggiti per nascondersi quando il loro Maestro era stato arrestato, furono trasformati in evangelizzatori dal cuore di leone, eloquenti, di ingegno acuto e persino gioiosi. Irresistibili nella loro oratoria, coraggiosi nella loro sfida, persuasivi nel loro fascino, travolgenti per l’amore che brillava nei loro volti, nelle loro parole e nei loro atti. Ebbene, che cosa era loro accaduto?
Possiamo chiamarlo come vogliamo: “la Discesa dello Spirito Santo”, “la Conversione sulla Via di Damasco”, “Parlare piú lingue”, quel che volete insomma, non mi interessa. La realtà è che “erano rinati”, come essi stessi dicevano. Erano uomini nuovi, con un nuovo spirito di obbedienza, non verso qualsiasi forma di autorità terrena, ma verso questo altro re, questo Gesú. Sempre, sin dai loro tempi, con tutti gli alti e bassi, le confusioni e le deviazioni della cristianità istituzionale, si è mantenuto vivo questo insegnamento, secondo il quale è necessario rinascere, è necessario morire per poter vivere. Oggi desidero verificare se una simile concezione abbia qualche significato e validità per gli uomini contemporanei.
Nella noia e nella disperazione della declinante civiltà romana, con una morale permissiva che si aggiungeva alla violenza servile, alle fantasie erotiche e narcotiche, il cristianesimo offrí una nuova luce di speranza, una nuova gioia di vivere per il singolo e per tutti, compresi gli schiavi, anzi soprattutto per loro. Nelle circostanze attuali, pericolosamente simili, ha ancora qualcosa da offrire? Questo è il mio problema. Naturalmente, non posso rispondere come fecero San Paolo e i discepoli. Essi erano il principio, noi siamo la fine. L’uomo del secolo ventesimo ha una mente scettica e una sensualità cerebrale, ed è uno strano miscuglio di folle credulità (ad esempio nei confronti della scienza e della pubblicità) e di folle scetticismo: è logico perciò che inesperti scolaretti e immaturi studenti universitari rifiutino con sprezzante incredulità quelle proposizioni che le menti piú nobili della nostra civiltà – Pascal, ad esempio, o Tolstoi – accettavano come evidenti in sé. Questa è la situazione del secolo ventesimo. Lasciate quindi che io, nel vero stile del mio secolo, cominci con una proposizione negativa, spiegando cioè per quale motivo ritengo che il nostro attuale modo di vivere sia assurdo e insopportabile.
Chi mai potrebbe illudersi, tranne qualche prete progressista o qualche economista ungherese, che noi uomini possiamo raggiungere uno stadio di felicità permanente, producendo e consumando sempre di piú, un anno dopo l’altro, sotto la spinta crescente di una frenetica persuasione operata sulla massa dagli strumenti di informazione; divenendo sempre piú forti con i mezzi a nostra disposizione, per spingere noi stessi e la nostra Terra a sbriciolarsi senza fine, e al tempo stesso divenendo anche sempre piú nevrotici per l’incombere di una guerra nucleare totale; viaggiando con sempre maggior velocità e sempre piú lontano, esplorando lo stesso universo e inseguendo la felicità con lo stile americano; «masticando i nostri appetiti», secondo l’elegante espressione di Shakespeare, sempre piú disperatamente, con l’impunità fisica e persino morale e la desolazione dello Spirito? È uno stato di cose al tempo stesso cosí bizzarro e tragico, che non posso pensare se non con divertita ilarità e con avida impazienza alla mia uscita dalla scena, ormai vicina del resto, al massimo entro un decennio o poco piú.
Recentemente, come forse voi avete saputo, sono stato incaricato di realizzare alcuni telefilm sul nuovo Testamento per la B.B.C., e ciò mi ha permesso, fra l’altro, di sostare su quel che, probabilmente, stando ai documenti che possediamo, è il Monte delle Beatitudini, dove circa duemila anni fa fu pronunciato il piú importante di tutti i sermoni. Era davvero meraviglioso stare lassú e guardare il Mare di Galilea in basso, tentando di ricostruire la scena: l’oscuro Maestro e la piccola, indescrivibile folla, per lo piú analfabeta, raccolta intorno a lui. La religione cristiana, non dimentichiamolo mai, non nacque tra raffinate menti accademiche, non tra i ricchi, i potenti, le persone brillanti, attraenti o appariscenti, non in mezzo a personalità televisive o a giornalisti di successo; essa cominciò tra semplicissima gente ignorante, e uno solo fra coloro che si erano radunati in. quel luogo era profondamente consapevole di ciò che stava succedendo; là furono pronunciate quelle parole, quelle incomparabili parole, che sarebbero echeggiate e riecheggiate attraverso il mondo per secoli e secoli, e si pronunciano ancora nel nostro. Che cosa dicono? Che è il mansueto, non l’arrogante, a ereditare la Terra. Che noi dovremmo amare i nostri nemici e fare del bene a chi ci odia. Che è il povero, e non il ricco, a essere benedetto, e cosí via. Parole che ci hanno inseguiti e raggiunti lungo i secoli, anche se noi le ignoriamo; le piú sublimi parole mai pronunciate. Una delle beatitudini, che non mi aveva mai colpito particolarmente prima di quel momento, si impresse nella mia mente, e da allora ha assunto una grande importanza per me. Si tratta di: «Beati i puri di cuore perché essi vedranno Dio ». Posso raccomandarvi la meditazione di questa beatitudine, perché potrebbe orientare le vostre attuali discussioni e preoccupazioni. Vedere Dio è la piú alta aspirazione dell’uomo, come testimoniano gli spiriti elevati di ogni tempo. Vedere Dio significa capire, vedere dentro il mistero delle cose.
Cosí ritorno da dove ho cominciato, a quell’altro Re, un tale di nome Gesú; alla nozione cristiana secondo la quale gli sforzi dell’uomo per rendere se stesso personalmente e collettivamente felice in termini terreni sono destinati al fallimento. Egli deve, in realtà, come Cristo ha detto, nascere di nuovo, essere un uomo nuovo; altrimenti sarà meno che nulla. Cosí almeno io ho concluso, dal momento che non ho trovato alcuna alternativa nell’esperienza passata, nei dilemmi presenti e nelle aspettative future. Per quanto mi riguarda, vi è il Cristo o il nulla.
Immagino gli uomini, nell’attuale condizione, come se fossero ammanettati in una cella buia. Le catene sono le nostre speranze e i nostri desideri mortali: la cella buia è il nostro Io, nel cui spazio angusto e oscuro siamo confinati. Cristo ci insegna come fuggire, spezzando le catene del desiderio e aprendo una finestra della cella scura, attraverso la quale possiamo gioiosamente contemplare i cieli dell’eternità e la luce dell’amore universale di Dio. Questo insegnamento è diametralmente opposto al modo di vita presentato dai nostri mezzi di informazione di massa, impegnati nell’affermare il contrario, cioè che possiamo vivere di solo pane, anzi di molto pane. Eppure io sono profondamente convinto che la visione della vita, che Cristo è venuto a predicare al mondo e che ha santificato con la morte, rimane vera e valida come non mai, e che tutti coloro che l’accettano, giovani o vecchi, sani o malati, saggi o stolti, a qualsiasi livello si trovino, possono ritrovare nel nostro mondo turbato e confuso, in ogni circostanza e in qualsiasi momento, una luce e una serenità non altrimenti raggiungibili.
Terminai le mie riprese in Terra Santa prendendo con un amico la strada per Emmaus. Chi fra voi legge ancora il Vangelo ricorderà questo episodio: poco tempo dopo la crocifissione, Cleofa, un giudeo che era quasi parente della famiglia di Cristo, e un suo amico stavano camminando da Gerusalemme verso Emmaus e inevitabilmente parlavano della crocifissione, un avvenimento recente. Essi vennero raggiunti da un terzo uomo, che si affiancò a loro e prese parte alla conversazione. Quando arrivarono a Emmaus, lo invitarono a cenare con loro perché era tardi. Entrarono per consumare la cena e, quando lo straniero spezzò il pane, capirono che non era uno straniero, ma il loro Salvatore. Anche il mio amico ed io, camminando, come Cleofa e il suo amico, ricordavamo gli episodi della crocifissione e quel che avvenne dopo, nel nostro mondo completamente diverso e al tempo stesso cosí simile. Né fu mera fantasia che noi pure fossimo raggiunti da una terza persona. Vi dico che ovunque sia il cammino e quali che siano i viandanti, vi è sempre questa terza presenza, pronta a emergere dall’ombra e a dividere con voi la via polverosa e aspra.
Malcolm Muggeridge
Selezione da: Malcolm Muggeridge, Cristo riscoperto, Rusconi Editore, Milano 1971.