Un rigurgito di paganesimo, dovuto non all’abiura della fede tradizionale, ma come reazione all’anomia che travaglia il nostro Paese, ci farebbe scegliere questa Dea come protettrice dei nostri diritti, sogni e desideri, e dispensatrice di ogni specie di grazie. Con l’epiteto di Averrunca allontanava la sventura, con quello di Barbata favoriva il passaggio dalla fanciullezza alla virilità, era poi Blanda, Benigna, Bona, Feconda, portatrice di abbondanza e di felicità coniugale, infine Brevis, di breve durata, monito per chi troppo si fosse fidato dei suoi doni, specie se elargiti a chi non praticasse la Virtus, nell’ambito sociale, la Pietas verso gli dèi e la Humanitas nei rapporti con i propri simili, a cominciare dal pater familias per finire all’ultimo dei servi. Era in qualche modo la dea piú vicina all’ideale stoico, non tanto per i suoi effetti nella pratica religiosa quanto nei doveri verso lo Stato e il prossimo. Uno stoico di ferro, l’imperatore Antonino, detto a ragione ‘Pio’, teneva una statua della Dea Fortuna nella sua stanza da letto. Sentendosi prossimo alla fine la fece trasportare nella camera di Marc’Aurelio, suo nipote e successore.
«Ora, figliolo – disse – tocca te: che la Fortuna ti sia propizia!» Poi, trasmise alla guardia pretoriana la parola d’ordine per la giornata: “Equanimità”. Era il 161 d.C.
E allora, per fuggire la canicola, il traffico, le buche, gli estemporanei assalti del Male, che non va mai in ferie, anzi cresce nei vuoti distopici del potere della politica sempre piú ostaggio della tirannia delle circostanze, e andiamo per balze e prati a cogliere l’erba moly delle dimenticanze, con equanimità, non solo di certe offese ma di tutte, senza distinzioni e preferenze. Il dolore è universale
A Palestrina, l’antica Preneste dei Latini, le sorgenti dei Simbruini lavano la memoria, estinguono la sete di rivalse e conti da saldare. Lambiscono il Santuario della Fortuna. Chissà, forse la Dea, di un Paese da uno, nessuno e centomila, possa imbastirne uno di multiforme aspetto ma di un unico cuore.
Da lassú, dall’acrocoro che ospita il Santuario e i palazzi della nobiltà romana che qui celebrava i suoi fasti e festini, Roma appare tranquilla, bonaria, una macchia rosata, giallo tenue o pervinca, a seconda dell’ora e della stagione. Nel Museo annesso a una delle residenze, l’Esondazione del Nilo, un mosaico mozzafiato per realismo e poesia naturalistica, ché i Romani superarono i Greci nell’arte musiva, ma non riuscirono a rubare ai conquistati il segreto delle forze eteriche equilibranti la forma.
In “Conoscenza della natura vivente”, conferenza tenuta a Dornach il 19 gennaio 1923, Rudolf Steiner cosí dice: «I Greci sono riusciti, grazie alle modalità secondo cui hanno creato le loro opere d’arte, a far scendere presso di loro gli Dei antichi. …Tutto è di una perfezione tale da far pensare e sentire la presenza di un elemento divino nella fisicità (materialità). I templi di Paestum, ad esempio, si tengono in piedi dopo millenni forse proprio in virtú di quella presenza eterica che, insinuando la pietra fin nelle piú gelose molecole, le ha permesso di superare gli oltraggi del tempo e le ingiurie degli uomini». E ancora: «Tempi piú antichi dell’umanità diedero molto significato alla bellezza, appunto rappresentandola come tale…L’uomo non è tale nel vero senso della parola, se non ha un senso per la bellezza. Averlo significa infatti riconoscere il corpo eterico. …Di fronte alla bellezza, il Greco si sentiva interiormente compenetrato, riscaldato, illuminato, vorrei dire toccato dagli Dei. E altro non era se non il sentire nel corpo eterico».
E di fronte all’ossequio della bellezza, il genio, facoltà elargita dagli Dei, non compete, ma coopera.
Elideo Tolliani