Sogno N. 2 – Un’altra faccia per la Luna

Considerazioni

Sogno N.2

Sogno N: 2Il sogno numero due è completamente diverso dal primo; qui non ci sono dimensioni abnormi o prospettive falsate da analizzare, ci sono solamente concetti da capire e, cosa piú importante ancora, da saldare assieme onde trarre delle deduzioni. Capire è solo una prima fase, una base necessaria, sine qua non; serve per lavorarci e costruire qualche cosa. Se quel che verrà cosí eretto integrerà, magari anche sviluppando e abbellendo, i concetti che lo sor­reggono, allora il lavoro potrà dirsi proficuo.

Nel sogno mi ritrovai a venir interrogato. Penso fosse un esame di logica o qualcosa del genere. Ma di quale logica posso parlare? Non credo sia indispensabile metterci l’aggettivo qualificativo: era un esame, una discussione tra allievo e insegnante e basta. Come orientamento a grandi linee il tema centrale era “Fino a qual punto è lecito interpretare?”.

La cosa si svolse piú o meno cosí. Nella parte che segue dovrei riportare i periodi discorsivi distinti per far comprendere quel che mi veniva richiesto e quel che via via rispondevo, ma per essere un sogno, e quindi trattandosi in definitiva di me stesso implicato in entrambi ruoli, esporrò il dialogo senza badare troppo a questa prassi. In fondo, sognare è un parlare con se stessi, il che non implica, come a volte si crede, che non si scoprano cose nuove e che non sorgano divergenze.

Voglio inoltre precisare di aver ricevuto dal sogno delle impressioni vaghe e non dettagliate, ma sono state sufficienti a ricomporre il ricordo e dare sostanza a questo scritto.

– Prendi un concetto per il quale senti di avere una buona disposizione interiore.

– La libertà?

– Va bene, prendiamo la libertà e facciamo dei ragionamenti. La libertà è un punto d’arrivo? Un traguardo da raggiungere? Se lo è, avrà allora il suo polo opposto. Quale? La schiavitú, il totale asservimento a qualcosa di esterno? A una volontà che non ha niente a che vedere con la tua?

– Come qualsiasi altro uomo, non conosco la libertà, nel senso che non m’illudo di averla sperimentata appieno, ma so che la sua idea sta nel cuore di ogni essere vivente, ed è legata ad una specifica volontà umana di conseguimento.

– Quindi è una specie di percorso che tutti in qualche modo, cosciente o meno, stiamo attuando; detto cosí ricorda la vita in genere, nel suo significato piú ampio, e nel contempo anche l’evo­luzione, che è di certo un fattore della specie, ma soprattutto è un indizio di libertà, nella misura in cui il soggetto diventa consapevole di percorrere un cammino, nel quale vi sono molte regole prefisse ma molte altre tutte da inventare, lasciate completamente al criterio del grado di deci­sionalità individuale. In ogni punto del percorso, esiste l’evenienza che le seconde integrino le prime creando nuovi scenari. Se però scattiamo un’istantanea e fotografiamo un’unica minu­scola porzione di percorso esistenziale, da tutto questo non ne ricaveremo granché… Tutt’al piú possiamo, con la nostra sensibilità di uomini, lasciare ai posteri una testimonianza di ciò che siamo stati in un particolare momento del cammino, in quell’attimo, magari solare e traboccante di vitalità, ma sul quale i tormenti del dubbio incombono e si abbattono al punto da stravolgere i fasti allegorici, trasformando in dramma la particolare rappresentazione pur cosí faticosamen­te raccolta e illustrata. Leggendo la biografia di Paul Gauguin e tornando poi al suo dipinto “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”, i nostri pensieri non tarderanno a confermarci una verità fondamentale: il destino di ogni uomo che trascuri il concetto dell’IoSono, e volon­tariamente lo ignori, non può che reclinare su se stesso. La disperazione del singolo non troverà nemmeno nelle forze della natura piú semplici e pure un rimedio efficace all’incubo tetro di un cupio dissolvi che continuerà a rodergli dentro e finirà per portarlo via con sé. Le nostre storie, per quanto diverse, non offrono panorami di felicità a buon mercato nemmeno trasformando la nostra esistenza in una lunga vacanza ai Tropici. Cerchiamo comunque di ovviare con le di­strazioni, in questo siamo diventati validi mae­stri. I piú abili vengono chiamati “influencer”.

InfluencerEppure, se si osserva con attenzione, non c’è al mondo dissidio o contrasto che non nasconda un motivo di fondo molto diverso da quello scelto a pretesto della lite. Volutamente staccati dalla vita dell’Io, diventa allora giocoforza ricor­rere alla continua menzogna, con se stessi e con gli altri, per sostenere le improbabili tesi nelle quali cerchiamo di avvolgere situazioni e circostanze, asservendole alle motivazioni piú fantasiose, fin tanto che non ne veniamo avvi­luppati pure noi (influencer compresi), che allora ne restiamo confusi, smarriti, quasi inebetiti dalla contrarietà dei fatti, avendo da tempo rimosso dall’anima il ricordo di tutto quello che ci siamo concessi di non fare. Troppo spesso abbiamo confuso quel che sta al centro dello Spirito individuale con l’ambiente di vita e di relazioni che ognuno ha costruito per sé, magari sostenendo che non era proprio per sé ma anche per la famiglia, per i figli, o per gli amici, o per i congiunti di un’unica idea, politica o religiosa o sociale che sia. Abbiamo speso molto in energie psicofisiche e in risorse materiali per difendere il nostro costrutto e renderlo nel tempo sempre piú forte e potente. Sembrava cosa buona e giusta. Cosí facendo abbiamo dimenticato ciò che sarebbe stato veramente da difendere e da curare. Lo abbiamo dimenticato al punto di non poterlo piú afferrare chiaramente, se non – per qualche breve lasso di tempo, tra lacrime e gramaglie – quando qual­cosa che credevamo nostra ci viene sottratta per sempre. Ma un tale soffrire non controbilancia la voragine di inadempienze che nel frattempo si è accumulata e che, nel nome di una libertà, sciolta dalla scusa di predestinazioni rocambolesche e da esiti di lotterie dalle dee bendate, ci richiede ora – in questo preciso momento – il saldo a pareggio. Le cose buone e giuste non hanno mercato, ma costano parecchio. Abbiamo accennato alla logica; quante logiche credi di conoscere? Con quale aggettivo pensi di poter definire la logica piú bella, piú forte, piú valida di tutte?

– Vediamo: c’è la logica precisa, matematica, c’è quella astratta, quella dialettica, quella analitica, quella della mente e quella del cuore… A tutte corrisponde un aggettivo; ma da un po’ di tempo in qua, ho cominciato ad apprezzare l’aggettivo “pulito”; ecco, sí, credo che la migliore logica sia quella che, avvalendosi di un pensiero pulito, sia essa stessa pulita.

– Va bene, può andare, ma cosa intendi per “pulito”? Perché, detto cosí, si potrebbe sem­plicemente capire “non sporco”.

– Beh, non sarebbe un grave errore. Certo, qui la parola “sporco/pulito” deve avere una qualifica­zione morale, sennò diventa presto confondibile. Pulito è in sé molte cose: come il cielo, se è pulito è anche terso, senza nuvole, e perciò è chiaro, luminoso, profuma di buono, fa luce, aiuta a comprendere, a creare nuovi pensieri. E infine “pulito” è un aggettivo che mi è particolarmente caro perché non è altisonante, non è appariscente, non eccede né vuol presumere: è un aggettivo modesto, e in questo ha la sua dignità, tanto piú efficace quanto piú salda. E sulla logica del cuore? Che ne sai? I tuoi affetti, i tuoi sentimenti, positivi e negativi, ti hanno aiutato a capire meglio la vita e te stesso?

– Francamente parlando, non ne sono certo, ma per il livello in cui mi ritrovo, posso dire che mi hanno combinato parecchi pasticci in passato. Ora, muovendomi con maggior cautela (e data l’età non mi è difficile, anzi, sono obbligato a farlo) ci vado piano, con circospezione; non met­terei la mano sul fuoco per tutti quegli stati emozionali dei quali si parla molto in giro, come fossero l’unico modo di sentirsi vivi…

– Allora possiamo sintetizzare le tue opinioni sulla libertà, col dire che non c’è nessun traguardo da raggiungere, ma che piuttosto ci sono molti percorsi da compiere. È cosí?

– Mi sta bene, ma cosa c’entra questo con la logica del cuore?

– La cosiddetta logica del cuore è legata al cammino di liberazione come nei vecchi manuali dell’arte militare (un tempo la chiamavano cosí), la strategia era posta in stretto rapporto alla tattica. Quest’ultima aveva il compito di trovare il modo migliore per eseguire l’azione pro­grammata, la prima invece doveva tener conto delle circostanze (possibilmente tutte) nelle quali l’azione si sarebbe dovuta espletare.

– Sarebbe dire come volontà e sentimento?

– La cosa è un pochino piú complessa, ma direi che ci siamo: non ti devi dimenticare però che soltanto il pensiero può farti sapere se è corretta la direzione e l’obiettivo della tua volontà, e se la tua anima li saprà appoggiare con tutte le sue forze al momento opportuno, e per quanto tempo sarà in grado di farlo. Ti pare “pulito” questo pensiero?

pozzanghera– Sí, anche se non mi sono mai prefisso obiettivi militari o civili…

– Ma per chi va in giro di notte, anche le pozzanghere riflettono la luna. Sei libero di pensare che la luna stia tutta lí, in quel­la piccola immagine d’acqua tremolante e passeggera, oppure preferisci quella che Leonora cosí descriveva a donna Ines: «Ta­cea la notte placida e bella in ciel sereno, la luna il viso argenteo mostrava lieto e pieno»? (http://bit.do/e2Uh3).

– No, beh… ma adesso, che c’entra la luna e quelle signore?

– Se la strada della libertà è lastricata di parziali liberazioni che si susseguono una dopo l’altra e se la vita dei sentimenti umani si ritiene capace di percorrerla costi quel che costi, allora forse la luna cesserà di nascondere i suoi molteplici segreti, non credi? Altrimenti come farà Leonora a sapere chi sia il suo Trovatore?

– Quali segreti? Quale Trovatore? Non facciamo scherzi. Ci hanno raccontato che l’uomo è stato sulla Luna e ci dicono che sulla sua superficie ci siano ancora le impronte di Armstrong che vi ha perfino infisso la bandierina degli U.S.A. Altro che melodramma verdiano!…

– Bel colpo! Ma forse, all’epoca, non avevi ancora ascoltato la storia del reverendo Hanson… Ora però, scommetto che sei sul punto di rievocarla; quando l’hai udita per la prima volta ti aveva colpito. Puoi riassumerla se ti fa piacere.

– Ma sí, è bello raccontare storie che svelano qualche particolare moto dell’anima. Le ritengo istruttive. Dunque, la storia viene da un programma che molti anni fa la radio mandava in onda poco prima di mezzanotte; aveva infatti per titolo “Il racconto di mezzanotte”. Spesso, in attesa del notiziario delle 24, mi capitava di passare una decina di minuti (già sotto le coperte, a luci spente, con radiolina e auricolari) in compagnia di questa trasmissione che, devo ammettere, pur nel breve tempo impiegato, riusciva a condensare bene racconti di autori vari, quasi tutti improntati ai “guazzabugli” che fioriscono, o infestano, a seconda del punto di vista, le interiorità umane.

 

Reverendo HansonIl reverendo Hanson, da poco arrivato a Londra (siamo sul finire del XVIII secolo) era un uomo vigoroso, energico e, cosa che allora non guastava per un ministro del culto, era pure un gran predicatore, di quelli che ti affollano la chiesa, fanno abbassare lo sguardo ai fedeli maggiormente vivaci, e arrossire piú di qualche paio di orecchi indiscreti. Il Vescovo, che l’aveva richiesto da tempo, esultava per il meritevole acquisto, e nel dargli il benvenuto in diocesi, una volta fatte le debite consegne, l’aveva anche abbracciato come un figlio (beninteso adottivo).

In effetti, il reverendo non tradí le aspettative spirituali né quelle umane che spesso si accompagnano alle prime, creando cosí a volte luci, a volte ombre, e altre ancora un miscuglio poco omogeneo di entrambe. Non essendovi al momento un alloggio libero nella proprietà canonica, egli aveva preso sistema­zione al quarto piano di un edificio poco distante dalla chiesa comandata: due semplici stanze pulite e disadorne ma ricche di tonificante spartanità, che una vedova aveva volentieri messo a disposizione della diocesi ad un affitto quasi simbolico.

Cosí il reverendo Hanson cominciò il suo insediamento nella società londinese, e in quanto pastore di anime si prodigò con entusiasmo e grande zelo a tutte le richieste, generalmente d’indigenza, di sofferenza e di dolore, che il suo gregge gli trasmetteva, vuoi nel segreto del con­fessionale, vuoi per esplicita istanza, per altro ampiamente documentata da situazioni obiettiva­mente individuabili.

Egli si dedicava alla sua opera (che sosteneva essere opera di Dio e non sua) dall’alba al tra­monto, senza fermarsi mai, se non nelle dovute soste del rito, della preghiera e della medita­zione, in cui tuttavia le forze psicofisiche non vengono risparmiate, come sostengono alcuni moderni miscredenti, bensí coinvolte e impiegate a dismisura, forse anche oltre il fatidico cento per cento.

Nel tramontare del suo secolo in corso, il rev. Hanson si stagliava in controluce come profilo dominante, ieratico; donava il meglio di sé e circondava la sua parrocchia (comprese le anime ivi racchiuse) di un velo spirituale di paterno protezionismo, forse non del tutto programmato ma sicuramente accolto con favore da quanti se ne sentivano orfani da un pezzo.

Nelle poche ore della sera che gli restavano prima di coricarsi, dopo una cena piú che fru­gale, fatte le preghiere del giorno, modulate sulle esperienze trascorse nonché sui propositi del da farsi per l’indomani, aveva avuto modo di osservare, attraverso l’unica finestra della stanza, il panorama, o per lo meno lo scorcio di panorama della città, sostanzialmente composto dalla casa di fronte, dal tetto della medesima e da un po’ di cielo che, data l’ora, era sempre buio.

Aveva intravisto una finestra dirimpetto, al terzo piano, posta quindi a un livello piú basso del suo, restare illuminata per buona parte della notte. Incuriositosi, aveva appurato che si trattava della camera da letto di una signora, in cui si era imbattuto piú d’una volta per le strade nel piccolo rione, intenta a fare la spesa o a svolgere altre incombenze. Non trattandosi tuttavia di una frequentatrice della chiesa, non gli era mai sorto il motivo di salutarla né tanto meno di intrattenersi con lei.

Si trattava di una signora, o signorina, ancora giovane, né bella né brutta, se vogliamo essere precisi anche con il canone estetico, tenuto sempre in debito conto la disparità di gusti e opinioni; portava sul volto un’espressione apatica, quasi assente, che conferiva una nota d’indolenza alla sua figura snella ed elegante; sembrava che non sapesse mai bene da quale parte dirigersi, ma al contempo di non aver bisogno dell’aiuto di nessuno per farlo.

FumatriceAlla sera passava molte ore a letto, avvolta nella vestaglia da camera, a leggere prima dei giornali e poi qualche libro. Per quanto dotato di buona vista il reverendo Hanson non era riuscito a scoprire in quali letture ella amasse immergersi, al punto di sacrificare tutte quelle ore di sonno. Pazienza per lui, che aveva la fede e le incombenze del pastore attento e amorevole, e che quindi le ore piccole se le faceva tra rosario e breviario, ed era giusto cosí, ma lei… beh! Lei insomma, con quei giornali… quei libri… e poi, c’era anche dell’altro. Oh, Signore Benedetto! Nulla di grave, ma la signora (o signo­rina) dirimpettaia, fumava! Proprio cosí. A letto di sera, con quella vesta­glia che ora lasciava scoperto un brac­cio, ora una caviglia, lei fumava. Placi­damente. Candidamente. Niente di gra­ve, per l’amor del cielo! Durante il se­minario anche lui aveva dato qualche tiratina di fumo a una sigaretta offerta (occasionalmente, eh!) dai compagni di studio; ma lei, lei le sigarette andava proprio a comperarsele, e di sera, di­stesa sul letto, tutta comoda, a volte anche un pochino scomposta, se le fumava una dopo l’altra.

No, questo al reverendo Hanson non poteva andar bene; prima di tutto, per la di lei salute. Ma del resto, cosa può fare un povero pastore di anime di fronte ad una donna, non parroc­chiana, diciamocelo, forse laica, magari atea, che decide di rovinarsi i polmoni in quel modo! Se si abbandonava cosí mollemente a quel vizio, chissà quali altre forme di abuso, o di depravazione potevano nascondersi dietro quel faccino in apparenza (solo in apparenza) tranquillo e sco­stante. Chissà quali altri tormenti covava nell’anima; era forse una di quelle persone che pur avendo bisogno di aiuto spirituale, se lo vietavano per una forma repressa di orgoglioso pre­giudizio?

Questi pensieri faticosi, quasi brutali ma ispirati a compassione, a una pietas caritatis d’ordine superiore, eppure tormentosi oltre modo nel loro incessante brulichío, passavano veloci per la testa del rev. Hanson frastornandolo, rendendolo incapace di opporsi al loro incessante mar­tellamento; e quel che v’era di peggio, era che piú cercava di scansarli, piú gli si affollavano impertinenti e costrittivi come incubi irrisolti venuti da un oscuro passato.

Dicono che il tempo lenisca tutte le ferite, ma ogni regola ha le sue eccezioni. La cosa peggiorò di giorno in giorno, o meglio di notte in notte, e la vita del rev. Hanson non fu piú quella di prima. Anche i suoi numerosi fedeli, che non si perdevano nemmeno una delle sue prediche e si erano ormai abituati a suggere dai suoi sermoni il nettare vitale di un compiaciuto conforto animico, dovettero presto accorgersi che qualcosa di misterioso ed inquietante era accaduto al loro eroe in abito talare.

Infatti egli non perdeva occasione per inveire pesantemente contro i costumi e le dissolu­tezze dell’epoca (intendendo probabilmente di tutte le epoche, ma quella corrente – soste­neva – era diventata di gran lunga la peggiore) deprecava con durezza ogni forma di emanci­pazione femminile, e soprattutto la sfacciataggine di quanti (o quante) infischiandosene della loro stessa salute, avvelenavano l’atmosfera degli altri con odori, aromi, profumi e pestilenze tabagistiche.

Argomento quest’ultimo il cui senso sfuggiva alla comprensione di molti, ma veniva co­munque accolto in base alla regola puramente prammatica dell’ipse dixit. Avviliva in particolar modo i fumatori, i proprietari di tabaccherie e i venditori di cosmetici, che non riuscivano a far quadrare i loro bilanci coi princípi delle Sante Scritture, e, di contro, faceva invece rialzare la cresta a vinai, osti e bevitori assidui, cui non pareva vero l’esonero dal ruolo antisociale di untori del Male e di istigatori alla perdizione.

Finestra rotta con un pugnoTutto si concluse in una notte del periodo d’Avvento. Dal pomeriggio imperversava sulla città un maltempo con pioggia, neve e raffiche di vento tali che, se non si poteva dire bufera, ci andava però vicino. Alle due di notte qualcuno scampanellò con impeto e (dobbiamo dirlo) con scostumata insistenza al portone del Vescovado. Preoccupatissimo, avvoltolatosi alla meglio in un impermeabile di fortuna e reggendo una lampada di servizio giacché nel rione era pure saltata l’erogazione elettrica, sua Eccellenza andò ad aprire. Sconcertato, sbigottito, sia per l’ora che per il sonno interrotto di soprassalto, si trovò a fissare il volto pressoché irricono­scibile del suo sacerdote prediletto.

Bagnato fradicio, scarmigliato, senza toga né ombrello, con una mano fasciata che grondava sangue misto a pioggia, gli occhi stralunati da uno sguardo acceso di demenza febbrile, il reve­rendo Hanson rese al suo superiore l’ultimo rap­porto parrocchiale: «Lei se ne stava lí, a letto e a fumare come sempre, ma il Signore mi ha dato la forza, e io ho spaccato la finestra col pugno».

 

– Orbene, chiudiamo qui la storia (che avresti anche potuto raccontare in breve, ma hai voluto curarla minuziosamente, te ne do atto): tuttavia, a me, adesso, preme una sola cosa: prendere in considerazione l’espressione del volto in quella particolare circostanza.

– Ah, sí, certo, la faccia del reverendo…

– No, no, mio caro, sei fuori pista. A me interessa il volto, anzi è opportuno dire l’espressione stampata sul volto del vescovo.

– Beh, ma nel racconto non se ne parla. Finisce cosí, e dell’espressione che avrebbe potuto avere il vescovo non si fa parola. Anche perché – immagino – ciascuno potrà facilmente figu­rarsela per conto suo…

– Ed è proprio qui che ti voglio. Consideralo pure una specie di test aggiuntivo. Saresti in grado di riprodurre con il tuo viso (immagina di avere uno specchio davanti) quella parti­colare espressione che dovrebbe poi essere una sintesi delle varie emozioni concomitanti a comporla?

– Non so, non saprei, non mi trovo in quella circostanza…

– Ma l’hai pur raccontata a lungo, e hai saputo far capire con precisione le componenti dello stato emotivo del pover’uomo, colto di sorpresa in quella notte di tregenda. Ripàssale in ras­segna.

– Beh, mi pare che ci fosse imbarazzo, diffidenza…

– Come sarebbe a dire imbarazzo e diffidenza! C’era molto di piú, no?

– Allora diciamo che c’era… del tormento?

– Ecco sí, meglio. Il tormento c’era di sicuro; ma poi?…

– Poi c’era la rabbia, no, la rabbia magari no; c’era invece la paura ecco, sí c’era molta paura.

– Ed infatti possiamo immaginare che lo spavento sia stato notevole; allora, va bene, tormento, paura, e poi?

– Sorpresa, amarezza, imbarazzo, disgusto?

– Bene, vai avanti…

– Forse anche un po’ di compassione?

– Beh, sai, essendo un vescovo, forse un briciolo di compassione ci stava.

– Sí, sí, magari poca, solo un’ombra…

– Diciamo una sfumatura. Riassumiamo dunque l’essenziale: sorpresa, amarezza, disgusto, sgomento. Quattro turbative drammatiche, poi un minimo di compassione tanto per edulco­rare la mistura. E che ci manca ancora per l’en plein?

– Ci manca… Ci manca… Mah, sinceramente non saprei.

– Ci manca la sofferenza! Non una sofferenza qualunque però, ma una particolare, speciale sofferenza: quella che nasce soltanto dalla consapevolezza (in questo caso acquisita fulminea­mente) di non aver fatto quello che si sarebbe dovuto e potuto fare per evitare il disastro. Questo anche un vescovo lo capisce, se non come sacerdote, almeno come essere umano.

– Caspita, è vero… Non ci avevo pensato, ma mi pare… mi pare valido, completa il quadro. La sofferenza era, ed è, quindi, necessaria.

– Diciamo inevitabile. Poi, dura quel che dura; ma finché c’è, opera nell’anima, e sono molte le cose che, dopo, possono mutare aspetto e presentarsi in modo completamente diverso.

– Per esempio?

Sbarco sulla luna– Tieni ferma l’immagine del volto del ve­scovo cosí come l’abbiamo ricostruita or ora e trasportiamola a cinquant’anni fa. Precisamente nel momento in cui ci mostrarono il modulo lunare di Apollo 11 che appoggiava le sue “zampe” sulla pol­vere e le rocce della Luna. In Italia erano le 22.17 di domenica 20 luglio 1969, tanto per la cronaca.

– Non capisco…

– Forse capirai. Succede spesso di non capire tutto subito. Però qualche volta succede anche il contrario. Dipende dalle cognizioni elaborate, e ancor prima dalla qualità del pensiero impiegato per coglierle. Di fronte a quella notizia entusiasticamente diffusa dalle fonti d’informazione del pianeta, davanti al tripudio delle popolazioni fondato sulla certezza che all’uomo si erano spalancate le porte dell’universo e che si era guadagnato il diritto di accedere alle esplorazioni spaziali, con la potenza del suo genio e l’impeto eroico delle sue doti, c’è stato qualcuno che ha rivolto verso questa umanità festaiola un’espressione simile a quella che abbiamo dedotto dal volto del vescovo: qualcosa, nel suo insieme, lontano mille miglia dall’ebbrezza e dall’isterismo di massa che, per la circostanza, ravvolse un numero sorprendente di persone. Purtroppo anche la creduloneria è fase del processo cognitivo, al­meno come punto di partenza. L’errore, in questo caso grave, può trasformarsi in catastrofe se si trova comodo restarci dentro.

– In sostanza tu vorresti dirmi che l’uomo non è mai arrivato sulla Luna?

– La cosa è sottilmente ma fondamentalmente diversa. Quella cosa, o quel luogo, dove l’uomo è arrivato, non è la Luna. Tutto qui.

Tito Stagno– Vorresti farmi credere che è tutta una montatura, una messa in scena con effetti speciali?

– Diciamo che il credere di aver raggiunto la Luna si fonda su una serie di supposizioni, meccanicamente concatenate secondo le percezioni dei sensi. Soltanto che quella non era la Luna, né avrebbe potuto esserlo. Domandati se tutti gli addetti e gli operatori alla missione astronautica siano stati in perfetta buona fede. Doman­dati se nel resto del mondo c’era Qualcuno cui era noto il tragico errore di commistione al quale stava partecipando l’equipe dell’Apollo 11. Quale immagini possa esser stata l’espressione del volto di quel Qualcuno di fronte agli eventi che si compivano, e che venivano divulgati in contempo­ranea per tutto il mondo, nei quali, tra l’altro, il telecronista nazionale, Tito Stagno, tentò di scalare l’apice della fama giornalistica?

–ILucifero e Ahrimanenvece io mi voglio chiedere chi sia il vero autore di questa diabolica sceneg­giatura che a que­sto punto minaccia di rimanere fissata e irrisolta per i secoli a venire. Chi è? Qual è la sua natura? Perché l’ha fatto?           

– Data la situazione in corso, non ha senso porsi domande di questa portata, non oggi almeno, non qui, non in questi termini. Ma se insisti, potrei sve­larti che gli Autori erano almeno in due. Agivano in coppia. Loro sí che provenivano dalla Luna. Da quella vera.

Fine del Sogno numero 2.

Risveglio.

 

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Angelo Lombroni