È intenzionale la teutonica ‘k’ al posto della latina ‘c’, a indicare il deterioramento della condizione qualitativa di Roma da urbe imperiale, un modello ecumenico di grandezza e civiltà, a contenitore immensurabile di lassismo e degrado, con occulti rameggi di malaffare e corruzione. Un tale repertorio di iniquità, da invocare la sentenza capitale, senza attenuanti: il taglio della testa. Ma se è vero, come dice il proverbio, che il pesce puzza dalla testa, la sottostante e circostante massa corporea, con gli annessi e connessi psicofisiologici, non è indenne da responsabilità osmotiche. Il soma, gli umori corporei, le funzioni organiche per la parte fisica, l’aura e il carisma per l’animica, danno il segno della partecipazione integrale, onnipervasiva, dell’intera costituzione carnale all’entità agente umana, all’essere responsabile del fare. Roma diverrebbe quindi replica del Paese, del mondo. Sul ceppo della decapitazione pertanto l’intera civiltà umana, di cui l’Urbe è simbolo.
Le sue devianze, a detta di John Galbraith, in L’età dell’incertezza, sono comuni peraltro a tutte le capitali del mondo, passate dalle magnificenze dei poteri assoluti, monarchie e imperi – come Persepoli, Angkor, Costantinopoli, Vienna, Parigi e Pietroburgo – quindi da città politiche rappresentative di un dispotismo individuale, a volte illuminato, a metropoli sovrappopolate, sèntina terminale di tutte le problematiche sociali derivate dalle rivoluzioni industriali, ideologiche e finanziarie, essendo l’uso della ricchezza passato dalle mani del sovrano a quelle dei trust bancari. Non piú quindi il despota, truce o illuminato che fosse, a godere degli utili dell’oro, rimettendoci la testa se le cose degeneravano, ma l’autorità preposta al governo della grande città: sindaco e giunta. Cui però non vanno i profitti del tesoro, drenati a monte da banche e speculatori, con intricati e occulti maneggi, ma ai quali si addebitano tutte le responsabilità del malessere sociale e del dissesto civico: «Poiché è nelle città che la gente vive – cosí scrive Galbraith – i problemi della civiltà industriale sono considerati problemi urbani. Tutto quanto andrebbe messo in conto all’aumento di reddito e produzione, alla mutevole composizione del prodotto, al piú elevato e differenziato consumo, al moderno ruolo dei sindacati, alla riluttanza della gente a morire tranquillamente di fame, è invece addebitato il modo in cui la città viene governata. Il moderno sindaco della grande città è tra le piú convenienti figure del nostro tempo. È lui che riceve – e nella sua innocenza ampiamente accetta – la responsabilità delle tensioni, dei disagi, dei disadattamenti e delle manchevolezze del sistema industriale». Secondo lo stesso autore, in una prospettiva storica, le città vanno divise in tipi diversi, in base alla forma e all’amalgama. Deriva dall’insieme la grande metropoli, composta da quattro tipi di realtà urbane: la città politica, quella mercantile, l’industriale e il cosiddetto “campo”, il suburbio, la periferia. Ma Roma è un’altra storia.
Da laico positivista, seppure umanista di spicco, Galbraith legge l’epopea romana in chiave razionale, un pregiudizio che ha destinato Roma a capitale dell’Italia unita per il suo carisma guerriero, fatale per volontà divina ad essere popolo vincente, dominatore, garante di giustizia e pace, per urbi et orbi. Ma già al tempo di Numa, Roma era città aperta al metafisico, al misterico, alla magia rituale, ai culti di religioni straniere allocate al pantheon romano per vicinanza culturale, Latini ed Etruschi, per evocatio dai popoli conquistati, Greci e Persiani, per tolleranza religiosa verso gli immigrati dai vari paesi dell’Impero, che a Roma ebbero santuari a Cibele, la Grande Madre, a Iside e Serapide, a Mitra.
Poi, nella corrente delle filosofie stoiche, ecco inserirsi il Cristianesimo, la religione che liberava gli schiavi dal servaggio, rendendo gli uomini liberi di servire una fede che propugnava l’uomo-Spirito. Città votata dunque al sacro, dai variegati Numina del panteismo pagano all’Io-sono del Cristo risorto, garante, con il proprio sacrificio, dell’acquisizione, da parte dell’uomo, della natura immortale.
Come avrebbe potuto una simile realtà volta al trascendente colmare il modello di città destinata a essere la capitale del vagheggiato Stato unitario che il disegno risorgimentale intendeva realizzare? Un progetto laico, liberale, costituzionale, seppure elitario, finalmente sottratto al potere secolare della Chiesa cattolica, non poteva darsi una capitale che era al contempo la roccaforte di quel potere. Angela Pellicciari, nel suo Risorgimento da riscrivere, sostiene che: «L’unità d’Italia è stata cucita a spese della Chiesa. Il processo storico di unificazione dal 1848 al 1861 si è svolto contestualmente a una vera e propria guerra di religione condotta nel Parlamento di Torino – dove tra i liberali siedono i massoni – contro la Chiesa cattolica».
Lo stesso concetto, espresso da Galli della Loggia, viene riportato dall’autrice nella prefazione del libro: «L’Italia è l’unico Paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero siano avvenuti in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale. L’incompatibilità fra patria e religione, fra Stato e Cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale». Ricercando poi i motivi ispiratori della lotta risorgimentale, la Pellicciari riporta quanto ebbe a dichiarare Gramsci, il 16 maggio 1925, nella Camera dei Deputati, riunita per votare la proposta di legge sulla soppressione della massoneria: «La massoneria in Italia ha rappresentato l’ideologia e l’organizzazione reale della classe borghese capitalistica». E rincarando: «La massoneria è stato l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo». La battaglia risorgimentale quindi una semplice contesa tra poteri costituiti e ideologie avanzanti, oppure qualcosa di piú e di altro che aveva ispirato e animato pensatori a tavolino e agenti sul campo? La risposta, una delle tante, e forse la meno inverosimile, è che lo Stato Sabaudo, pur dichiarandosi costituzionale e liberale, abolendo gli ordini religiosi, chiudendo i conventi, sopprimendo le opere pie, privando di ogni avere gli istituti religiosi, colpendo il potere temporale della Chiesa,
intendeva annientarne il potere spirituale. Un tentativo questo che aveva avuto origine nelle temperie dell’Illuminismo e aveva poi connotato le rivolte e rivoluzioni del secolo successivo, e del primo Novecento, tutte all’apparenza fatte contro l’assolutismo statale ma nella realtà per sradicare dai popoli il senso religioso, la fede nel sovrannaturale e nel trascendente. Lo Spirito come opzione ideale rischiava di sparire in quei popoli e Paesi dove, come in Russia, per ragioni ideologiche, negli Stati Uniti per scelte opportunistiche, aveva ceduto alla piú cieca materialità. Questa deriva materialistica dei due popoli coinvolti nella cosiddetta Guerra Fredda aveva colpito e interessato – e non soltanto per dovere d’ufficio, essendo all’epoca segretario di stato con Eisenhower – John Foster Dulles, sin dall’inizio della sua carriera un politico scomodo e imprevedibile.
Nell’affare di Suez – 1955-56 – si allineò con i Russi contro i britannici, i francesi e gli israeliani, e fu promotore del trattato di pace con il Giappone. Ma non era solo questo, Foster Dulles, assai conosciuto anche in Italia negli anni Cinquanta-Sessanta. Oltre che politico di buona levatura, era attivista nel Consiglio nazionale delle Chiese. In tale carica, pronunciò l’11 ottobre del 1953, nella chiesa di Watertown, di cui era pastore suo padre, una dichiarazione sulle conseguenze della Guerra Fredda e di tutti gli episodi di ostilità che mantenevano il mondo in un continuo stato di disagio e di insicurezza. Ma, cosa strana, imputò le condizioni mondiali di perenne emergenza a cause di natura non politica: «Le cose tremende che stanno accadendo in certe parti del mondo sono dovute al fatto che le pratiche politiche e sociali sono state separate dal contenuto spirituale. Tale separazione è quasi totale nel mondo comunista sovietico. I governanti vi sostengono un credo materialistico che nega l’esistenza della legge morale, nega che gli uomini siano creature spirituali, nega che esistano cose come le verità eterne. Ne deriva che le istituzioni sovietiche trattano gli esseri umani considerandoli importanti soprattutto dal punto di vista di ciò che si può costringerli a produrre a glorificazione dello Stato. Il lavoro è essenzialmente lavoro da schiavi, inteso a costruire la potenza militare e politica dello Stato, di modo che coloro che governano possano affermare un potere sempre piú grande e piú spaventoso. Simili condizioni ci ripugnano. Ma è importante comprendere che cosa sia a causarle. È l’irreligione».
Strana parola, irreligione, ma è puntuale nel descrivere quello che allora gli americani e molti altri in Europa credevano fosse una condizione limitata ai Russi. Tolti i termini come sovietici e comunista, il passo può riguardare tutto il mondo occidentale e, per molti versi, tutta la cosiddetta civiltà globale. L’irreligione non è semplicemente l’ateismo, che nega il divino tout court. L’irreligione svuota di ogni dilemma non tanto morale quanto sostanziale il credere necessaria l’esistenza di un demiurgo. Ora ci sono Ikea e Amazon, Bezos e Zuckerberg. Il mondo prillava nell’etere, ora è una pizza quattro stagioni. Le uniche rimaste affidabilmente uguali negli ingredienti. Quanto alla cottura, stando a certe profezie menagramo, il 9 settembre p.v., un asteroide potrebbe carbonizzarci tutti.
Ma non sarà cosí. Dulles ci rassicura del fatto che l’irreligione è guaribile, non è una malattia irreversibile. Affatto: «Ma sarebbe un grossolano errore supporre che le forze materiali detengano il monopolio del dinamismo. Anche le forze morali sono potenti. I cristiani, certo, non credono nel potere bruto per arrivare ai propri fini. Ma ciò non significa che non abbiano dei fini, o che non abbiano dei mezzi per arrivarci. I cristiani non sono un popolo negativo, passivo e inerte. Gesú disse ai suoi discepoli di andare nel mondo a predicare il Vangelo a tutte le nazioni. Ogni nazione che fondi le sue istituzioni sui princípi cristiani non può che essere una nazione dinamica».
Ma fino a che punto gli Italiani sono nazione, a che titolo possono dichiararsi cristiani e in questo gioco di ruoli che posizione occupa Roma, essendo capitale della nazione Italia e sede del Cristianesimo? A Calatafimi, quando in un rigurgito di orgoglio i soldati di Franceschiello ingaggiarono la prima dura battaglia contro i Mille, Bixio propose una tattica di sganciamento momentaneo dallo scontro. Ma la voce di Garibaldi, sovrastando il furore e le grida dei combattenti, tuonò: «Nino, qui si fa l’Italia o si muore!».
Sí, forse, anzi è piú che certo: la nazione Italia è nata proprio da quel giorno e da quel grido imperioso e furente allo stesso tempo. Eroi che misero in gioco per intero e senza risparmio il tanto e il poco che avevano. Il popolo che genera questo tipo di anime può definirsi nazione. Ciò non toglie che l’impresa dei Mille, cosí come le varie insorgenze, rivolte, destituzioni ed esautorazioni dei governi assoluti, che connotarono la fine del Settecento, l’Ottocento, primo Novecento, compreso il nostro Risorgimento, furono consumate nel segno non tanto dell’anticlericalismo, riferito per lo piú, ed esclusivamente, al cattolicesimo, come normalmente si crede, quanto di quel sentimento di “irreligione” di cui parlava Foster Dulles. Ossia, l’asportazione chirurgica del divino da ogni attività umana, dalla filosofia alla medicina, dalla scienza alla letteratura, in ambito universale. Ciò non solo riguardo a una particolare dottrina religiosa, ma toccando ogni fede praticata nel mondo.
Roma fu il principale obiettivo di questa sdivinizzazione, avendo testimonianze del sacro in ogni rudere, a partire dai resti dei popoli italici e fino ai cenobi benedettini e francescani, alle clausure. Ma i piú evidenti e meglio conservati erano i templi e sacelli della Roma quirite al suo apogeo imperiale. Il governo sabaudo, installato a unità conclusa, provvide a occultare l’Arce sacra del Campidoglio, il tempio di Giunone, l’Ara Coeli, erigendovi davanti l’Altare della Patria, ovvero la tomba del Milite Ignoto, un massiccio torreggiare di marmo sovrastante le spoglie di un anonimo fante della Grande Guerra. Anche lui, sacrificando la sua giovane vita, avrà gridato qualcosa. Ma chi riporta le urla dei massacri?
Troppe voci, troppe anime allo sbando, troppi corpi nel tritacarne impietoso che è diventata Roma, ormai una metropoli come Londra, come Tokyo, come New York. E in tutto questo bailamme incontrollabile, promiscuo, vittima della tirannia delle circostanze create ad arte dal turbocapitalismo, dal cilindro di un mago della Tv social, il coniglio, anzi il cobra di una proposta nel filone di quella mania giacobina di far pagare ai preti i guasti del Direttorio: si requisiscano gli immobili della Chiesa a Roma (e qui un elenco dettagliato con valori catastali, metrature e ubicazione) con lo scopo di allocarvi i migranti che sbarcano sui nostri lidi, ormai senza freno e controllo. Il tutto per aggiungere altri disagi a quelli già causati Dietro all’dalle problematiche di una realtà urbana e sociale. Ecco allora Roma scontare il fatto di essere passata da capitale di un impero che tutti i popoli comandava a capitale di una nazione che a tutti obbedisce: tedeschi, francesi, agenzie di trading, banche, borsa, ONG ecc.
Ma il peggio non è questo: entra nel gioco dei disagi metropolitani la destinazione della città a terreno di scontro di gruppi finanziari per la gestione dei servizi. L’inanità dell’amministrazione viene poi usata dai partiti politici per squalificare personaggi e fazioni, imprese e progetti. Roma non è una città alla portata di chi non è capace di brividi visitando il tempio della Magna Mater al Palatino, o ammirando la Venere Callipigia al Museo delle Terme, o la Pietà di Michelangelo a San Pietro, o nel sentire il gladio sulla pelle in attesa che il pubblico decida, pollice recto o verso, la vita o la morte. Roma attende che il suo Genius Loci si risvegli, che il Logos ispiri chi la governa, chi la abita.
Perché diventi la città universale delle fedi, confluite da molte vie nella comune Scienza dello Spirito. Solo cosí potrà assumere il ruolo di civiltà che ammaestra le genti, protegge i deboli, doma i superbi.
Ovidio Tufelli