Perché Dante Alighieri volle concludere l’opera che gli procurò il primato letterario, con le parole: «L’Amor che move il Sole e le altre Stelle»? Forse lo sforzo intellettuale, la portata dei pensieri incanalati, la potenza dei vissuti e lo straordinario impegno di un giudizio etico che non fa sconti a nessuno, rispondono all’interrogativo meglio di qualsiasi studio filologico. Ciò che vive in un poeta fa da ponte tra i Mondi dello Spirito e l’esistere sulla Terra; ogni uomo, nato o nascituro, è un poeta, e la sua poetica comincia nel momento in cui se ne rende conto.
Chi non ha contemplato il cielo stellato durante una notte d’estate, magari da un posto discreto, lontano dai rumori e dagli artifici al neon della città? Un posto tranquillo, nel quale una calma serenità meditativa può sgorgare dall’anima e affacciarsi alla mente per la prima volta, o come se fosse la prima volta. Perché in fondo, siamo sinceri, un’esperienza di questo tipo non può essere ripetitiva; ogni volta è sempre la prima.
Quali pensieri si levano allora da quel senso di pace, di forza infinita con il quale l’immensità dell’universo sembra volerci dire qualcosa? Normalmente i sentimenti parlano di noi stessi; ci indicano quello che ci piace e quello che non ci piace. Ma non oltrepassano i confini del mondo interiore cui tutto viene rapportato e commisurato. Le stelle invece raccontano di altri mondi, molto piú vasti di quello che ci sostiene, forse incredibilmente misteriosi e affascinanti, che alimentano la fantasia, stimolano l’immaginazione, a volte spingendola oltre l’ordinario confine. Il che non capita quando immedesimati in noi stessi ci sperimentiamo nella vicenda quotidiana; c’è sempre un ego a fare da riferimento, a darci le direttive, a condizionare le decisioni. Di tanto in tanto tale presenza diventa ingombrante, appare un sopruso, e allora ci rivolgiamo ribelli a soluzioni svincolanti per sentirci liberi dall’imposizione. Possiamo anche reagire con violenza. Ma è una strada che vale per i forti, per i determinati, per i perseveranti, per coloro che scalpitano.
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È difficile rimanere a lungo nel convincimento che da lassú le stelle ci indichino una via di liberazione. Tuttavia la contemplazione del firmamento, date certe premesse oggettive e soggettive come possibilità, forse fantasiosa, forse pindarica, non confortata da sforzi intellettivi di conoscenza, ma resa prodigiosa e sublime dal fatto che si presenta nella soave maestà di un richiamo avente le prerogative dell’essenza; esso echeggia da un remoto anfratto della persona che siamo diventati, da un punto segreto cui neppure l’ego, nostro antico padrone, ha mai avuto diritto di accesso.
Si tratta di un attacco di misticismo? Di un sogno ad occhi aperti? O della commozione che nasce dal ricordo di un rimpianto che abbiamo deciso di non rimpiangere? Può essere. Ma quello che conta è il rapporto instaurato tra il minimum nel quale ci troviamo reclusi e ciò che di immensamente saggio e amorevole ci sovrasta nel momento in cui rivolgiamo gli occhi verso l’alto, verso l’infinito, dove da miriadi di stelle è partito un messaggio che chiede a cuori e menti terreni di venir accolto per poterci accogliere.
Viene il momento in cui si vuole pensare, pensare bene, pensare un pensiero veramente voluto. Dirlo pare semplice, ci sembra di farlo già ogni giorno in tutte le circostanze, ma le cose sono piú complicate; forse non difficili, ma piuttosto complicate. Bisogna trovare la forza di procedere passo dopo passo portando molta attenzione a dove si mettono i piedi (quelli della coscienza ovviamente) e addentrarsi in un allenamento di volontà mediante il quale si concede al proprio pensiero di sentirsi libero nel pensare; di poter vagare cioè – senza divagare – in quella che è la dimensione originaria del suo essere; tenue come un sospiro di sollievo atteso da tempo, tanto per lo Spirito del Cosmo quanto per l’uomo consapevole dello Spirito Individuale che da quello cosmico trae vita e alimento.
Anche la piú piccola intuizione è sempre una luce, un barlume di comprensione; ma pochi costruiscono un nesso tra il lumicino interiore che si è acceso nel personale mondo del pensare e la luce del Sole che scalda e illumina le giornate di noi tutti. La cultura scientifica con la quale siamo stati allevati, ci dice inesorabile che sono cose del tutto distinte, due ordini di grandezze diversi, incomparabili tra loro. Eppure, nelle epoche delle civiltà passate, che hanno dato origine al genere contemporaneo, il convincimento di essere figli del Sole veniva assunto senza dubbi o imbarazzo, non c’erano enfasi religiose o ritualismi esaltativi che producessero nelle anime dei popoli di allora una simile idea. Era invece il riconoscere preciso, radicato, di una verità connaturata, una consapevolezza fondante l’umano: il suo diritto/dovere di sentirsi appartenere per discendenza e poter quindi rappresentare il regno dei cieli.
Ci sono voluti millenni di oscuramento materialistico, di annientamento delle forze vitali dell’anima per giungere al risultato di non capire piú né il Sole né il cielo, e ritenere al contempo la propria facoltà pensante, qualunque sia a questo livello di smarrimento, una speciale secrezione glando-neuronale: un optional tra le varie forme di vita, offerto per gentile concessione di Madre Natura & Co. dopo un processo imperscrutabile di combinazioni chimiche perseguito su vasta scala da biocavie in grado di riprodursi.
Ci sono i pensieri (quello citato or ora, ad esempio, è uno dei piú poveri), ma c’è anche il pensare. I pensieri sembrano in un primo tempo frutto di un’operazione mentale, atto quindi personale e determinato per ciascun singolo. Il pensare invece, dal canto suo, rappresenta l’attività generale di riferimento, non definibile, in quanto potenzialità ancora inespressa, ma proprio per questo la piú potente; al suo interno sorgono i pensieri, come sorgono i concetti e le idee, ma per ora ci accontentiamo dei pensieri, restiamo fermi su questi, dato che concorrono a dar vita sia ai concetti che alle idee e ne costituiscono quindi la premessa non fondamentale ma indispensabile.
Se desideriamo ripercorrere la storia del pensare, che poi potrebbe essere la filosofia, ed infatti fino ad un certo punto lo è stata, troviamo un’analogia non trascurabile con la storia, parimenti percorsa attraverso le epoche, del sapere riguardante il cielo, la dimensione extraterrestre, il metafisico, ovvero quel qualcosa che al solito facciamo coincidere con l’universo medesimo, ma che s’intuisce senza sforzo essere molto e ancora di piú.
Per Aristotele lo spazio, “il Luogo”, fu un contenitore; nessun rapporto con i contenuti. Con Galilei, Copernico ed infine Newton, lo spazio divenne un mezzo attraverso il quale potevano passare le forze reali generate dai corpi presenti. Cominciava a sorgere un rapporto, un nesso particolare tra “il Luogo” e i suoi siderei abitatori. Nei due secoli e mezzo appena trascorsi, lo spazio si prese un ruolo ancora maggiore. Per il gioco delle forze gravitazionali viene adesso concepito come un immenso oceano capace di deformarsi in relazione al moto di ammassi stellari, galassie, sistemi planetari, meteoriti, bolidi o comete che vi circolano secondo canoni che l’astrofisica e la cosmologia hanno in parte scoperto e in parte dovranno scoprire.
Nel susseguirsi delle ipotesi cosmo-astronomiche appaiono di evidente importanza i passaggi da 1°: contenitore inerte, a 2°: mezzo di comunicazione, fino a 3°: partecipante indiretto agli effetti consequenziali. Verrebbe il desiderio di proseguire la trafila logica e affermare che al quarto passaggio scopriremo che il Luogo non solo è l’Autore Assoluto di tutto quello che contiene, ma che ha il potere di alimentare, regolare, modificare gli enti a lui subordinati secondo un volere decisionale talmente vasto da rendere vano ogni nostro sforzo di comprensione.
Ci sono volute migliaia di anni per risalire gli effetti fino a intravedere la Causa. In poche parole, le teorie scientifiche, non di oggi ma di domani o di dopodomani, ci ripropongono l’Infinito, l’Eterno, l’Onnipotente, l’Onnisciente e quanto abbiamo potuto apprendere, nel migliore dei casi, in chiesa e in famiglia, o nel peggiore, attraverso il veneficio negativo del possibilismo indifferenziato che non richiede studi né applicazioni didattiche, non costa nulla e soprattutto garantisce ai cultori la massima irresponsabilità vita natural durante.
Il “possibilismo indifferenziato” potrebbe essere sostituito con la terminologia maggiormente sonora di “menefreghismo agnostico”; non cambierebbe nulla, ma è una scadenza tonica da evitare se si vuol osservare il fenomeno senza confondersi con quello.
Nell’interiorità umana abbiamo imparato (credo che qualcuno abbia imparato) a distinguere tra loro corpo, anima e Spirito; poi, approfondendo, sono stati messi a fuoco i tre corpi: fisico, eterico e animico, e ancora le tre parti costitutive dell’anima: senziente, affettiva-razionale e cosciente. Come si vede, le classificazioni tripartite non finiscono mai; potremmo applicarle anche alla sfera del sociale in buona sintonia con l’insegnamento di Rudolf Steiner, che ha dedicato tutto se stesso a che la conoscenza dell’uomo intraprenda il suo lungo viaggio verso i Mondi dello Spirito, partendo da una serie basilare di concetti chiari, rigorosamente definiti. In particolare, se parliamo della sfera del sociale, sarà meglio usare il nome datole dal suo Autore e chiamarla “Tripartizione dell’Organismo Sociale”, onde far intendere fin dall’inizio che se l’umanità non viene intesa come un tutt’uno, un corpo unico che vive, soffre, gioisce, muore e rinasce all’unisono, sia pure in situazioni varie e spesso contrastanti disseminate nel tempo e nei luoghi, non sarà possibile creare un percorso conoscitivo proficuo e risolutivo per i problemi che in quel settore si manifestano.
Anche l’atto conoscitivo nelle sue modalità porta in sé una triplice partizione; la conoscenza che si attiva con l’esperienza materiale del mondo, diviene in un primo tempo immaginativa, poi ispirativa e infine intuitiva. Sono sempre tre posizioni o livelli d’osservazione che riguardano la crescita della coscienza; questo deve avvenire con l’evolversi contemporaneo di tutte le altre parti costituenti l’umano. Come si fa la ginnastica per raggiungere un’ottimale forma fisica coinvolgente il corpo nel suo complesso, cosí è corretto controllare il proprio sviluppo spirituale senza eccezioni di sorta. Altrimenti si provocano sbilanciamenti.
Prendiamone uno clamoroso: il pensatore piú noto del XVIII secolo, Immanuel Kant, ha lasciato il proprio epitaffio, in cui riassume la sua esistenza dedita alla filosofia prevalentemente metafisica (ricerca dell’Io), nella celebre frase: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me». Quando per la prima volta incontrai questo pensiero, ne rimasi affascinato. Allora studiavo da liceale, e mi pareva che non ci fosse al mondo nulla di piú saggio e incisivo di quella sentenza. Ma poi, entrato molto tempo dopo nei percorsi piuttosto tortuosi del mondo antroposofico (lo dico per me) rimasi colpito di come Rudolf Steiner fosse riuscito a cogliere nel motto kantiano, la rivelazione di un avvenuto danno gnoseologico, e quindi anche formativo, di enorme portata: spiritualmente parlando un autentico disastro.
Mi ci volle parecchio per digerire la questione; eppure non occorreva nulla di speciale. Bastava dilatare il quadro storico del pensiero epocale, osservare le linee degli andamenti, studiare le proiezioni e trarre le logiche conseguenze. Per Kant, tra il cielo stellato (chissà, forse quello d’una notte d’estate) e la legge morale che ardeva nella sua coscienza, c’era un vuoto incolmabile: il noumeno. Se tale elemento avesse avuto una sua esistenza oggettiva, non ci sarebbe stato alcun male, anzi, sarebbe stata una notevole scoperta. Ma il guaio nasce dal fatto che detto noumeno, ovvero il volto non conoscibile della Verità logico-spirituale, era stato creato da Kant stesso, il quale nel mettere al mondo tale sua concezione noumenica, implicitamente staccò la sfera dello Spirito da quella in cui si svolgeva l’indagine umana: ratificò, e quindi in un certo senso rese accettabile sul piano del pensiero, un ignorabimus definitivo; nel provocare la défaillance permise che l’umanità intera s’incamminasse verso tutto ciò che dopo di lui puntualmente giunse, materialismo compreso.
Egli aveva eletto una sua astrazione a valore di concetto e come tale la coltivò.
In questo scritto, dedicato al momento – intendo un particolare momento di equilibrio conoscitivo e al tempo stesso ri-conoscitivo – desidero precisare come solo mediante l’indagine spirituale condotta da Rudolf Steiner sia stato possibile ribaltare l’incredibile errore della filosofia kantiana. Errore tanto meno accertabile quanto piú accattivante e autorevole nella sua aulica provenienza (come si fa a contestare uno che ti parla di Imperativo Categorico e di Eccelso Dovere?). Mi metto per un attimo nei panni di quei pensatori del ’700, che volevano l’Io, lo cercavano con tutto il loro intelletto, ne avvertivano la presenza quale possibilità storica e l’assillante urgenza del manifestarsi di una reale conoscenza dell’Io nella vita quotidiana dell’epoca. Era un’impresa epica, nella quale la filosofia si giocava le sue ultime carte: qualcuno forse ne era consapevole.
Quanto di dannoso e possiamo dire di esiziale ne è derivato per via diretta e indiretta da Kant e dal kantismo, è ancora lontano dal poter venire decifrato in modo preciso e spassionato.
Nei nostri tempi in cui vige (senza darlo a vedere, ma c’è, e impone ogni giorno le sue ferree regole come un determinismo di natura senza la natura) il moralismo al posto della morale, è facile e comodo che l’attitudine originaria dell’anima verso lo Spirito venga abbandonata e si presenti invece nella fase deteriore di uno pseudo-spiritualismo, dove credenze popolari, misticismo onirico, superstizione e fobie ossessive si saldano assieme e si cementificano in un’ignoranza talmente cieca e altezzosa, da esser capace di riconoscersi solo per riflesso in quella altrui.
L’attuale instabilità di scelta politica e la cronica incapacità di auto-amministrazione di cui soffrono molte popolazioni, è una delle nefaste appendici del danno inflitto al pensare.
Perché questo? Poteva venir evitato? Anche se vogliamo con tutte le nostre forze vedere nell’essere umano uno spirito individuale (potenziale) diretto verso un futuro di luminosa libertà ed autocoscienza, il che significa che la strada verso l’Io si sta compiendo, non ci sentiamo oggi di affermare che in questa epoca manchino del tutto le occasioni di ripresa dallo stordimento animico dovuto all’esperienza meccanico-sensuale del mondo e quindi della vita.
Che vi sia un atteggiamento di ateismo diffuso, di generica tendenza all’incredulità dilagante, allo spregio, all’offesa e a tutte le forme denigratorie che riguardino non solo i culti in genere ma anche i semplice gesti di amore, di bontà e di fratellanza, i quali comunque, a dispetto di tutto, sopravvivono e continuano a riprodursi anche se non avranno mai e poi mai l’attenzione dei media (coloro che si
nutrono di veleno sono portati a evitare gli antidoti), significa in modo esplicito che l’origine di questo rigetto del metafisico e dei suoi valori è nato dall’essere stato presentato all’epoca contemporanea nel modo piú sbagliato che un movimento di pensiero innovativo possa presentarsi.
Chi o quanti si sono sin qui, semicoscienti o incoscienti, prestati e prodigati per creare e diffondere quelle che in pratica si riscontrano come attuali regole di comportamento sociale, non hanno agito di loro libera iniziativa, ma vi sono stati condotti da forze extraumane, da sempre avverse ad una possibile realizzazione dello Spirito sulla Terra, che sarebbe la vera e unica pienezza dell’umano. Questo tuttavia non attenua né giustifica la loro posizione e il ruolo da essi praticato. In tale prospettiva è doveroso ricordare che Rudolf Steiner ebbe il coraggio di fare quel che doveva venir fatto, nonostante l’oscuramento delle coscienze e proprio per quelle che fino all’ultimo si erano ritenute all’altezza del compito.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ci fu un grande processo che cercò di individuare quei personaggi di spicco, secondo il drammatico giudizio della pubblica opinione di quel tempo, ancora sconvolta dagli orrori recenti, responsabili di quanto avvenuto nel tragico quinquennio appena trascorso. In particolare, dopo un primo “repulisti” dei maggiori indiziati in campo politico e militare, il vento del giustizialismo transnazionale toccò la sfera dei magistrati. Ce ne fu uno che, condannato all’ergastolo per evidente abuso di potere nel periodo prebellico, ribatté agli inquirenti: «Signori, è vero, io sono colpevole di quanto mi addebitate, ma come giurista, docente universitario e giudice costituzionale, dovete anche avere riguardo per le opere e gli studi che ho compiuto. Mi riferisco al mio Trattato di Giurisprudenza che viene studiato in tutte le università del mondo ed è fonte moderna d’ispirazione per giureconsulti e interpretatori della legge. Io credo che il mio pensiero e il lavoro connesso meritino una valutazione da parte vostra. Non potete condannare me alla stessa stregua degli altri magistrati implicati; la Storia ve ne chiederà la ragione. Nulla esigo per me, voglio solo che la vostra sia una giustizia secondo logica». Al che, il Presidente del Tribunale, che aveva conosciuto bene e apprezzato il vasto e profondo lavoro compiuto dall’insigne giurista, dette risposta: «Ho letto i vostri scritti; li ho stimati e li ritengo indispensabili per chiunque oggi operi nella Giustizia. Ma proprio per questo, e voi per primo, avreste dovuto capire che non sempre ciò che è giusto è anche logico. E se non lo è, non c’è alcuna forza al mondo che potrà farlo diventare. Comprendo che la pena conferitavi da questo tribunale non vi pare né giusta né logica; posso solo dirvi che dovevate pensarci il giorno in cui siete entrato in aula con la sentenza di condanna già scritta in tasca».
Di questa fattispecie si possono ricordare mille altri casi, ma non servirebbe a nulla: l’istintività e l’instabilità emotiva che persiste con tenacia nel nostro modo di comprendere e di decidere non sono state ancora debellate da sputnik, satelliti, onde gravitazionali, tetrapak, socialnet e raccolta differenziata delle immondizie. Anzi, c’è una latente influenza da parte dei suddetti marchingegni al ripristino di situazioni e circostanze che nulla avranno a che fare con il buon senso propositivo sempre piú oppresso e asfittico nel cuore di molti uomini.
Credo di averlo precisato in un mio scritto precedente, ma in questo caso mi fa piacere riaffermarlo: per gli antichi la via di mezzo tra due estremismi, veniva definita “aurea” (aurea mediocritas) nel senso che chi riusciva ad applicarla doveva aver vinto il fascino dei poli opposti. Fascino malefico e infido, perché nel suo sviluppo interiore ed esteriore l’uomo deve ragionevolmente cimentarsi in quel che la vita gli mette davanti. In una autostrada trafficata (occorre l’aggettivo?) rischi molto sia se corri come un razzo sia se vai da lumaca; necessita adattare ritmo e velocità a ciò che realmente si è, compreso quel margine di prudenza che, se non viene rispettato, diventa materia di spot pubblicitario (per esempio, quello melenso e posticcio voluto dal Ministero dei Trasporti, che in evidente mala fede lo ritiene efficace per una campagna preventiva contro gli incidenti stradali).
Penso che se si togliesse per un bel po’ di tempo la patente a quanti guidano fumando, o usando il telefono cellulare, le cose potrebbero migliorare rapidamente. Ma di sicuro provvedimenti del genere verrebbero considerati restrittivi della libertà personale e salterebbe fuori prima o dopo una sentenza che, decretando il divieto del divieto, restituirebbe una ulteriore reverenza alle industrie del tabacco e delle telecomunicazioni.
Dunque “In medio stat virtus” non macina piú, e l’uso del medio viene riservato per un altro ordine di consigli. Ciò che ai nostri giorni è classificato medium vale solo per povero, scadente e dozzinale. Quale orrore! Abbiamo raggiunto livelli di raffinatezza cosí etichettosi e sofisticati, che la mediocrità ci fa ribrezzo, non è possibile conviverci: è come tenere un topo morto in casa, inondandola di deodoranti per confondere le acque (mi correggo: le arie).
Eppure il momento di cui parlo costituisce un principio che racchiude in sé le migliori istanze degli opposti, dopo averli ripuliti in lungo e largo di tutto quello che avevano d’indesiderabile: prima d’ogni altra cosa, la pretesa di rimanere opposti e star lí solo per contrasto. Se all’interno di un singolo l’ego eccedesse in prepotenza e prendesse come unica sua funzione quella di contrapporsi all’Io, diverrebbe un pericolo per sé e per gli altri.
Grazie al Cielo e alla Natura di cui essa è lo specchio terreno, le cose relative all’umano non giungono mai ad un punto di tensione tale da far saltare ogni equilibrio. Vita, crescita e sviluppo sono sempre correlati al mantenimento di una giusta tensione tra gli opposti dai quali riceviamo le necessarie influenze. Se dopo interpretiamo tali influenze per pressioni, o peggio per forze costrittive che ci sembrano soffocare la nostra libertà, potremmo anche dirci che non si tratta di vera libertà, ma da uno stato di apatia e d’indolenza nel quale siamo caduti e dal quale non ci vogliamo risollevare.
Le spinte contrapposte non arrivano per sbandarci ora di qua e ora di là come ciclisti ubriachi, il loro compito è quello di abituarci a colpi e contraccolpi, a spinte e contro-spinte, o per dirlo apertamente, a forze e controforze, affinché cominciamo ad apprendere la difficile arte di procedere dritti e stabili, verso l’obiettivo che prima o poi saremo in grado di intuire a perfezionamento della nostra missione spaziotemporale.
È interessante studiare questo gioco d’equilibri; corrisponde alla tensione di cui si diceva prima. Inizialmente la ricerca dell’equilibrio richiede di perderlo, di non sapere nemmeno che c’è; quindi disarmonia, tristezza, senso di sconfitta e subito dopo, rassegnazione, apatia. La storia del Brutto Anatroccolo si ripete di continuo. Nell’antichità, eravamo Figli di Dio, del Sole, del Cielo; c’era quindi un certo tipo di spinta, di propulsione interiore; poi in tempi moderni, niente piú riferimenti verso l’Alto, tutto cancellato. Siamo uomini, razza unica, nata per caso da una concatenazione positiva (?) di combinazioni varie prive di senso; non ci sono mete, traguardi, obiettivi. A questo gradino la propulsione che si richiede sta soltanto nel ricercare il carburante piú adatto ai presunti fini di una umanità pragmatica: far girare eliche, motori e quant’altro.
Con questa spinta deleteria, nella quale pure il Brutto Anatroccolo ha perduto ogni interesse per il volo dei Cigni, si rischia davvero non soltanto la caduta (che in effetti c’è stata ), ma anche di non rialzarsi piú; non tanto per un fattore fisiopatologico, ma per il fatto che la parola rialzarsi non esercita piú alcun fascino: non fa presa. Se sono caduto, senza speranze, senza un futuro, è meglio restare a terra; almeno è piú comodo. Alzarsi e assumere la posizione eretta richiede infatti d’esser diventati padroni del dinamismo necessario per stare in piedi e camminare.
C’è una bella differenza tra subire i colpi degli opposti (Io-ego, amore-odio, vita-morte, bene-male ecc.) e impadronirsi delle forze insite in questi colpi; trasformarle in slanci, impulsi, armonie creative di cui – volendo con tenacia e cercando con assiduità – ognuno è capace per la parte che gli compete. Forse chi piú chi meno, forse chi prima chi dopo, nessuno è tuttavia escluso dall’enorme potenzialità che l’umano può mettere in campo quando si accorge d’averla, dapprima scoprendola quale dote costitutiva, in seguito accorgendosi di avere a che fare con un retaggio.
Compito dell’essere venuti al mondo è imparare a gestire questi slanci e farli diventare artefici del proprio equilibrio e della propria armonia. Qui, finalmente, abbiamo una buona notizia, perché questo lavoro, che potrebbe sembrarci ingrato, iniquo e tutto sommato una grossa seccatura da evitare, lo compiamo da sempre e quotidianamente. Tra una pizza mezza cruda e una bruciata, come siamo riusciti a trovare il momento in cui essa si presenta giustamente cotta e mangiabile? Tra la brama di possedere e il desiderio di soccorrere chi ne ha bisogno, come ci regoliamo? Qual è il momento giusto che ci fa capire “fino a qui è poco, oltre diventerebbe troppo”? Ce l’ha insegnato qualcuno? Ci sono delle imposizioni che ci obbligano ad un certo comportamento?
Tra il mantenimento della pace in famiglia e gli stressanti litigi sul come condurre questa o quest’altra faccenda, abbiamo mai accettato di starcene un pochino zitti e vedere se in seguito il problema si ripresenta con la stessa virulenza di prima? Abbiamo scoperto che il momento del tacere è il momento magico dell’armonia bilanciata?
Tra la dedizione incondizionata di aiutare il prossimo e la tentazione di sbarrare la porta a chiunque venga a bussarla, è concepibile una via di mezzo capace di soddisfare (non del tutto ma almeno in parte) le contrastanti esigenze? Il bisogno, lo stato di necessità e di urgenza dell’altro, stanno sullo stesso piano del nascondermi, del non farmi trovare, nel fingere di non vedere?
Eppure una parte di noi persevera a pretendere leggi e regole che salvaguardino le fobie degli egoismi in fibrillazione.
Visto da fuori, tutto è opinabile, anche criticabile; c’è qualcuno che ha definito Madre Teresa di Calcutta una “esibizionista della carità”. Dall’altra parte della barricata, abbiamo un illustre psichiatra portato a giustificare Jack Lo Squartatore, sulle note elegiache di un’infanzia triste e di un rapporto conflittuale con la figura materna.
Sono elementi di scontro tra potenze avverse ma non sono opposte all’uomo; sono opposte all’evoluzione dell’uomo. Opponendosi, concorrono al fatto che veniamo indotti ogni volta a pensare, e pensare seriamente, per poi decidere. Tra il porgere la mano e il tenerla in tasca, magari serrata a pugno, passano infinite altre soluzioni: impariamo a vederle. Tra queste c’è di sicuro una adatta a noi, quella che fa fare un passo in avanti, magari un salto, al nostro pensare-sentire-volere.
Se dunque la strada dell’evoluzione verso lo Spirito Universale è la strada del pensare, la modalità con cui percorrerla non può essere che la nostra stessa interiorità una volta depurata, resa tersa, piena di gratitudine per assolvere adeguatamente il compito affidato.
Saper recuperare l’armonia perduta è il senso del momento. Ci stiamo perdendo (parlo per quanti possono ancora avere nei confronti della vicenda umana un’attenzione disinteressata e obiettiva) in analisi specialistiche sul perché questa armonia non c’è piú. Ipotizziamo mille motivi sulla sua scomparsa che preoccupa non poco, in quanto ogni volta che si perde la traccia della via maestra, resta solo la soluzione delle vie collaterali. Queste ultime, intasandosi, com’è ovvio, non danno sbocco: intrappolano i viaggiatori, per i quali spesso non c’è la possibilità di tornare indietro.
Affinché tutto ciò non avvenga, concentriamoci sul momento, quando mondo esteriore e mondo interiore si toccano in una sintesi di conoscenza e intuizione. La paternità dell’esplorazione scientifica del mondo fu attribuita a Galileo Galilei, per il quale l’Universo ci parla se però prima si è avuta la pazienza di imparare la sua grammatica. In altre parole occorre creare in noi quell’attitudine a meditare sull’osservato, chiedendogli cosa possiamo fare per lui, dal momento che si è manifestato in quel determinato modo. Ogni percezione è in questo senso un messaggio da decifrare.
Nei suoi pensieri sulla natura del mondo, Galilei constatò che ogni oggetto, dal piú piccolo al piú grande, portava in sé una caratteristica: lui la chiamò “inerzia”. Per cui ogni corpo è assoggettato allo stato naturale di quiete, oppure di moto rettilineo uniforme. È questa la dimensione in cui vige la legge degli accadimenti fenomenici, i quali creano e disfano situazioni di stallo e di turbativa, provocando cosí ondate ripercussive nelle quali, con diverse attitudini, esercitiamo la nostra disponibilità a nuotare.
Se l’uomo fosse una “cosa”, la regola dell’inerzia gli calzerebbe alla perfezione, oggetto animato tra tanti animati e no: ma l’uomo non si esaurisce nel dato fisico corporeo, possiede un’anima, uno Spirito individuale, un Io, che non soggiacciono all’inerzia di Galileo, né alla meccanica razionale di Newton e neppure alla teoria della relatività (ristretta o allargata) di Einstein.
Prendendo in considerazione l’elemento esclusivamente fisico della realtà apparente, andremo certamente lontano, scopriremo leggi universali che nessuno avrà mai pensato fino ad allora, ma sarà un continuo avvicinare un punto sfuggente, un momento che non si realizzerà mai, che si allontanerà sempre piú e non darà conforto alcuno se non a cori di mondana fama e celebrità. Ossia a quanto, nell’ottica di una vera crescita dell’umano, non dà giovamento.
In questa ultima parte d’estate ho avuto modo d’incontrare e discutere con un esperto matematico. Ho cercato di proporgli quanto stavo valutando attorno al momento, presentandoglielo come un punto d’unione, di saldamento tra il mondo della verità eterna (Spirito) e quello della realtà dimensionata (vita terrena). Data la sua cultura nel campo delle scienze esatte, e la sua nota disposizione alla catechistica, gli ho chiesto se ciò che all’uomo si svela lungo il cammino conoscitivo sia da considerarsi scoperta o invenzione.
Mi ha dato una strana risposta: «Vede, non è questione di scoperta o invenzione. Quando due cose appartengono a mondi ben distinti, non si tirano uguaglianze. Si scopre solo quello che c’è già, che è coperto. Gli si toglie la coperta, ed è fatta! L’invenzione, invece, non sta a priori nel mondo, non riguarda l’esistente, che, magari nascosto, viene in qualche modo recuperato, no. L’invenzione parte dal mentale, dalla cerebralità. Fintanto che non si concretizza in un qualcosa di preciso, di tangibile, di oggettivamente valevole, è pura e semplice astrazione».
«Ma professore – ho obiettato – se lei mi dice che si tratta di due cose distinte, di cui una sta a priori nel mondo e l’altra ci può stare tutt’al piú a posteriori, allora io credo che possa, anzi, debba verificarsi un momento in cui la prima s’invera per diventare la seconda. O mi sbaglio?».
«Si sbaglia, mio caro – ha risposto l’anziano luminare – quello che è creato da Dio esiste come oggetto; quello che è creato dall’uomo, come idea o parto mentale, è labile, potrà esistere ma potrà anche non esistere. Il mondo delle astrazioni ha delle regole sue; nessuno è in grado di dire se e quando una di esse avrà seguito e consistenza. Perciò anche quel momento di cui lei dice, è in fondo un’astrazione».
Il dialogo ovviamente non è proseguito a lungo. Succede, quando ognuno offre all’altro ciò di cui l’altro non ha bisogno.
Tuttavia anche nell’apparente futilità, riconosco che mi è stato utile per confermare tre cose che piú o meno avevo già intuito, e anche per svelarmene una nuova; forse senza quel breve incontro, sarebbe rimasta nel limbo dell’incompiuto.
- Esistono diverse vie per conquistare la possibilità di ricezione dei Mondi Spirituali; tutte esigono conoscenza e moralità. L’esercizio della creatività artistica è però indispensabile ad entrambe.
- Vivendo s’impara a percepire il fisico e il metafisico; prima uno, e, in base al ricavato di questa esperienza svolta con precise modalità, forse in seguito anche il secondo.
- Universo e Terra si specchiano nell’eternità, ma noi ce ne accorgiamo solo quando la nostra anima decide di fare da tramite. Quel punto di ricongiunzione è il momento.
Pensiero nuovo. Senza lo studio dell’Antroposofia, non avrei potuto riceverlo, quanto meno non cosí chiaro e preciso:
La funzione del ricongiungimento tra Cielo e Terra, tra Spirito e Materia, tra Impercepibile e Sensibile, è mediato dall’anima umana portata al livello della spersonalizzazione (Anima Cosciente).
Dipende in tutto e per tutto dalla posizione che l’Anima decide di assumere nei confronti del Pensare. Dalla sua fiducia nel Pensare.
Ogni Concetto cui l’Anima rifiuti di aprirsi, di offrire se stessa per esserne fecondata, è un’Astrazione.
Ogni Astrazione che unisca le forze dell’Anima a quella del Pensare favorendo il connubio, è un Concetto.
Conclusione: può essere una mia (ennesima) imprudenza sul piano dell’interpretazione etimo-glottologica, ma sottolineo che “Concetto” è il participio passato di “Concepire”, e la parola “Astrazione”, composta da due sostantivi, si presenta come “Azione degli Astri”.
Angelo Lombroni