Da qualche tempo l’Italia deve fare i conti con una situazione particolarmente grave. Il nostro paese, se da una parte ha il merito di essere riuscito a concretizzare uno sviluppo industriale che gli ha consentito di sedere fra le maggiori nazioni industrializzate, dall’altra si trascina dietro tutte le condizioni di sottosviluppo del Sud e tutte le contraddizioni di una spinta produttiva fondata su una industria di trasformazione che ha ignorato completamente la necessaria base agricola e che ha consentito passivamente la decadenza dell’artigianato.
L’Italia paga oggi a caro prezzo di non essere riuscita a identificare, mediante uno Stato completamente autonomo da ogni ingerenza economica, un giusto diritto alla vita non condizionato dal rapporto di forza fra imprenditori e sindacati. È mancata completamente la volontà di pervenire a un equilibrio giuridico, nel mondo del lavoro, in grado di impedire sia i danni di salari troppo bassi (che determinano una crisi di domanda e rallentano l’evoluzione tecnologica), sia i danni di salari troppo elevati, i quali hanno dato luogo, almeno in certe categorie privilegiate, a una eccessiva propensione allo spreco assolutamente inadeguato alla realtà del paese.
Data questa situazione, era fatale che il vuoto di idee si trasformasse in una partitocrazia clientelare presente in tutti i punti chiave ma sostanzialmente estranea al paese. In sostanza una dittatura occulta, anche se “pluralistica”, la quale, impadronitasi dell’economia grazie alla complicità dottrinaria moderna, ha provocato, con la sua inefficienza, un disavanzo pubblico spaventoso e, con l’eccessivo peso fiscale, ha paralizzato ogni attività sana. Siamo oggi di fronte al fallimento dell’impresa a partecipazione statale, che avrebbe dovuto raggiungere quelle mete precluse all’impresa privata (sia per il privilegio creditizio, sia perché il fine del profitto può essere differito), mentre si è rivelata assolutamente inadeguata a fronteggiare la prima seria crisi in cui è incappata.
Si è giunti cosí a una astratta radicalizzazione che si è estesa a tutta la società. Essa però, nella sua inconcludenza, ha aperto una frattura profonda fra paese politico e paese reale. Solo chi si adegua allo schema politico “costituzionale” può partecipare alla vita pubblica, traendone anche, se è furbo, ottimi vantaggi pratici. L’uomo è sempre piú isolato da una schematicità elettorale (riproposta ai settori piú impensati, come nella scuola) che concepisce solo elettori ed eletti, che devono comportarsi all’infinito secondo un modello preordinato dall’alto. Afferma giustamente Roberto Papini, che il cittadino rischia oggi di limitare la sua partecipazione pubblica, divenendo soltanto un “telespettatore della vita politica”.
Studiosi come Pier Luigi Zampetti e Luigi Bagolini auspicano nuove forme istituzionali. Il Club di Roma avverte che l’umanità può restare distrutta da un processo di sviluppo soltanto quantitativo e ha solo 50 anni per trovare nuove soluzioni. In larghi strati vive la esigenza di mutamenti profondi che si pongano al di fuori degli schemi politici attuali. È l’aspirazione di coloro i quali, malgrado gli sciopero, l’assenteismo, lo scatenamento della delinquenza comune e politica, riescono ancora con la loro attività, con la loro pulizia morale, a sostenere, invero sempre piú precariamente, il nostro paese.
A tutte queste persone, degne di rispetto, vorremmo dire però che la divisione fra paese legale e paese reale ha solo un valore indicativo. Ognuno di noi proietta la propria insufficienza morale e spirituale nelle diverse ideologie, nell’apparato statale, nella situazione giuridica, nell’atmosfera di tutta la società, negli esseri piú deboli che vengono cosí travolti mediante la spinta alla delinquenza o il raptus della follia. Se oggi la situazione è cosí grave, la responsabilità è prima di tutto dei migliori; essi malgrado le loro forze disinteressate che contribuiscono a evitare il precipizio, non riescono ancora a realizzare, nella loro interiorità, quella vis piú potente, richiesta dai tempi, in grado di far nascere impulsi morali e sociali nuovi.
Per questo riteniamo che nessuno di noi debba avversare e condannare gli altri per la grave crisi che rischia di travolgerci. Si possono criticare le idee, come è giusto rendersi conto della situazione, non si possono però odiare coloro i quali le professano, dal momento che la situazione attuale è il risultato di un limite che riguarda ogni uomo.
Argo Villella
Selezione da: A. Villella Una via sociale Società Editrice Il Falco, Milano 1978.