Psicologia teosofica III – L’anima e lo Spirito
Permettetemi di cominciare questa terza conferenza con una immagine con la quale Platone esprime quello che aveva da dire sulla natura eterna dello Spirito umano.
Socrate sta di fronte alla morte davanti ai suoi discepoli. La fine del grande Maestro deve avvenire nelle prossime ore. Di fronte a quella morte, che è la sua, Socrate s’intrattiene sull’eternità del nucleo spirituale nell’uomo. Quello che egli esprime sull’indistruttibilità di quello che vive nell’uomo fa una profonda, potente impressione. Fra poche ore non ci sarà piú vita nel corpo che si trova davanti ai suoi discepoli. Fra breve il Socrate che si può vedere con i propri occhi non ci sarà piú. In questa situazione, Socrate spiega chiaramente ai suoi discepoli che colui che non starà piú davanti a loro fra poche ore, che non avranno piú, non è colui che è per loro cosí prezioso; che quel Socrate che adesso sta ancora davanti a loro non può essere colui che ha trasmesso loro il grande insegnamento sull’anima e sullo Spirito umano.
Spiega chiaramente ai suoi discepoli che il vero saggio si è reso indipendente da tutto il mondo dei sensi con la contemplazione del mondo al quale si è dedicato. Tutto quello che le impressioni dei sensi possono procurargli, i desideri e le aspirazioni legati ai sensi spariscono proprio con una contemplazione veramente saggia del mondo. Per il saggio, ha valore solo quello che i sensi non potranno mai dare. Ma quando quello che si trova davanti ai sensi se ne va, resta allora inalterato quello che nessun senso può raggiungere. Delle prove, anche se sottili e delle piú pertinenti non possono avere un’azione piú forte, piú potente della convinzione che s’esprime nell’immediato sentimento che emana dal cuore del saggio nell’istante in cui la situazione esteriore nel dominio del sensibile sembra contraddire totalmente quello che dice la bocca di Socrate. È la convinzione che si esprime con il carattere sacro della morte, una convinzione che, molto semplicemente per il fatto che è espressa in questa situazione, testimonia della forza potente alla quale questa visione, malgrado gli ostacoli, è pervenuta nel saggio cosicché egli ottiene la vittoria sull’avvenimento che farà irruzione in lui fra poche ore.
E quale effetto ha esercitato sui discepoli questo colloquio? Platone, il discepolo, dice che in quell’istante egli fu in una situazione nella quale abitualmente non sono coloro che fanno l’esperienza di un tale avvenimento. Nessun dolore, nessuna gioia attraversava il suo cuore. Egli era al di sopra di ogni sofferenza e di ogni piacere. Platone accolse con una calma e una tranquillità permeati di felicità gli insegnamenti che gli erano trasmessi in presenza della morte.
Quando mettiamo questa immagine davanti alla nostra anima, ci vengono due idee. Platone, il grande saggio della Grecia, cerca di avvalorare la sua convinzione dell’eternità dello Spirito umano non solo con prove logiche, spiegazioni filosofiche, ma dando la parola a un uomo molto evoluto in presenza della morte. Questa convinzione si esprime come un’esperienza, come qualcosa che vive in quell’istante nell’anima umana. Con ciò Platone voleva indicare che la questione dell’immortalità dell’anima umana è tale che non siamo in grado di avere una risposta in ogni situazione, che non possiamo darvi una risposta che quando ci siamo elevati nella nostra evoluzione fino all’altezza dello Spirito, dove si trova una personalità come Socrate, che ha consacrato la sua vita intera alla meditazione interiore dell’anima, un saggio che conosceva quello che si rivela quando l’uomo volge il suo sguardo al suo essere interiore. Un tale uomo ci presenta la forza di questa convinzione intima che vive in lui, qualche cosa di cui sa che è indistruttibile, perché l’ha riconosciuta. È questo che importa. Ogni persona avente una visione penetrante in questo campo non dirà mai che una prova dell’immortalità dell’anima umana può essere data in ogni circostanza, al contrario la convinzione dell’eternità dello Spirito umano deve essere conquistata; l’uomo deve aver appreso a conoscere la vita dell’anima. E quando conosce questa vita, quando si è immerso nelle qualità proprie di quest’ultima, allora, esattamente come quando si è consapevoli di un altro oggetto, quando se ne conoscono le qualità, egli sa che cos’è lo Spirito umano e la forza di convinzione parla nella sua anima. E non soltanto questo, è in un momento importante, in un momento essenziale che Platone fa esprimere a Socrate questa convinzione: in un momento in cui tutte le impressioni dei sensi sembrano contraddire la verità espressa.
E i discepoli, grazie a cosa capiscono questo grande insegnamento, grazie a cosa esso diventa loro evidente? È loro evidente per il fatto che sono elevati dalla potenza delle parole di Socrate al di sopra del piacere e della sofferenza, sono elevati al di sopra di quello che lega l’uomo a quanto è direttamente effimero, al sensibile, al quotidiano. Con questo deve essere espresso che l’uomo non è consapevole in ogni situazione delle qualità dello Spirito, lo è soltanto quando si eleva al di sopra di quanto lo lega al quotidiano, quando si è spogliato del piacere e della sofferenza che provengono dal quotidiano, quando in un istante solenne può innalzare lo sguardo fin dove il quotidiano tace, dove gli avvenimenti che causano tristezza non ne causano piú, dove quelli che causano gioia, non ne causano piú. In tali istanti, l’uomo diventa del tutto piú ricettivo alle piú elevate verità.
Questo ci permette di comprendere quanto la Scienza dello Spirito pensa sull’eternità dell’anima. Essa non parla di eternità in modo da cercare di provarla come una qualsiasi altra cosa. No, essa dà un metodo, delle istruzioni sulla maniera in cui l’uomo può mettersi progressivamente in quella situazione e disposizione dello Spirito in cui vivere veramente nella sua interiorità l’esperienza dello Spirito, imparare a conoscerlo secondo le sue qualità intrinseche per il fatto che cerca di trasportarsi nella vita dello Spirito. Allora ha chiaramente coscienza che solo dalla visione dello Spirito scaturisce la convinzione della sua eternità. Cosí come non abbiamo bisogno di una prova dell’oggetto che appare al nostro occhio sensibile, dato che esso mostra le sue qualità al nostro occhio sensibile semplicemente con la percezione, cosí lo studioso della Scienza dello Spirito pone la questione dell’immortalità dell’anima umana in una forma del tutto differente da come essa viene posta abitualmente. Egli fa questa domanda: come possiamo percepire una vita spirituale interiore? Come ci immergiamo nel nostro essere interiore in modo tale da sentir parlare lo Spirito nel nostro essere interiore?
In tutti i tempi e in tutti i luoghi in cui si è cercato di portare i discepoli a comprendere queste domande, si esigeva dapprima che quei discepoli compissero un periodo di preparazione. Come probabilmente sapete, Platone ha preteso dai suoi allievi che penetrassero nello spirito matematico prima di cercare di assimilare i suoi insegnamenti sulla vita dello Spirito. Che senso aveva questa preparazione richiesta da Platone? L’allievo doveva aver afferrato lo spirito della matematica. Abbiamo sentito nella prima conferenza cosa offre questo spirito della matematica. Ci offre sotto forma molto elementare delle verità che sono al di sopra di ogni verità sensibile; delle verità che non possiamo vedere con i nostri occhi, né afferrare con le nostre mani. Anche se ci rappresentiamo in forma sensibile, concreta, la teoria del cerchio, la teoria del rapporto fra i numeri, sappiamo tutti che non facciamo altro che una rappresentazione concreta. Sappiamo che la teoria del cerchio, del triangolo, sono indipendenti dalla visione legata ai sensi.
Disegniamo un triangolo alla lavagna o su un foglio e attraverso questo triangolo accessibile ai sensi, cerchiamo di arrivare al teorema che la somma dei suoi tre angoli è di 180°. Sappiamo che questo teorema è vero per ogni triangolo, qualsiasi sia la forma che vogliamo dargli. Sappiamo che questo teorema è per noi evidente quando ci siamo abituati ad afferrare simili teoremi indipendentemente da ogni impressione sensibile. Sono le verità le piú semplici, le piú comuni che facciamo nostre in questo modo. La matematica non dà che le verità sovrasensibili piú banali, che sono comunque delle verità sovrasensibili. E poiché dà le verità soprasensibili piú semplici, piú comuni e, per questa ragione, le piú facili da raggiungere, Platone esigeva dai suoi allievi che, esercitandosi con la matematica, imparassero a come si arriva alle verità sovrasensibili. E cosa s’impara per il fatto che si arriva alle verità sovrasensibili? Con questo si impara ad afferrare una verità senza piacere e pena, senza interesse immediato, senza pregiudizi personali, senza quello che incontriamo ad ogni passo nella vita. Perché la verità matematica ci appare con una tale chiarezza ed ineluttabilità? Perché nella sua conoscenza non viene ad interferire nessuna specie d’interesse, nessuna specie di simpatia e di antipatia, cioè nessun pregiudizio. Ci è del tutto indifferente che due per due faccia quattro; ci è indifferente che la somma degli angoli di un triangolo sia questa o quella e cosí di seguito. Questa libertà in rapporto ad ogni interesse legato ai sensi, in rapporto ad ogni piacere o dispiacere personale, è quanto Platone aveva in mente quando esigeva dai suoi allievi che si immergessero nello spirito della matematica. Una volta che con questo si erano abituati ad elevare uno sguardo disinteressato verso la verità, una volta che si erano abituati ad innalzarsi alla verità senza piacere né pena, senza immischiarvi la passione e il desiderio, senza i pregiudizi quotidiani, allora Platone riteneva i suoi allievi degni di vedere la verità anche in quello che concerne le questioni a proposito delle quali gli uomini sono abitualmente oberati dai piú grandi pregiudizi.
Quale uomo potrebbe trattare prima di tutto delle altre questioni in maniera cosí disinteressata, cosí sprovvista di piacere e sofferenza di queste verità matematiche tipo quella che due per due fa quattro o che la somma degli angoli di un triangolo è di 180°? L’uomo non era giudicato maturo per abbordare questi argomenti finché non era arrivato al punto di vedere le piú elevate verità che concernono l’anima e lo Spirito sotto una simile luce, disinteressata, sprovvista di piacere e sofferenza. L’uomo deve trattare questi argomenti senza piacere e senza pena. Deve essere al di sopra di quanto sorge quotidianamente nella sua anima ad ogni occasione, ad ogni passo. Laddove il piacere e la sofferenza e l’interesse personale vengono ad intromettersi nelle nostre risposte, non possiamo rispondere obiettivamente alle domande, nella vera luce. È quello che voleva dire Platone quando fa parlare Socrate morente sull’immortalità dello Spirito umano. Non si tratta dunque di provare l’immortalità in ogni situazione, ma soltanto di questo: come si arriva alla percezione delle qualità dell’anima umana in modo tale che, quando giunge tale percezione, la forza di convinzione scaturisce da sola dalla nostra anima?
Era anche il fondamento di tutti i luoghi d’insegnamento in cui si tentava di condurre gli allievi verso le piú elevate verità in modo adeguato, con domande come: lo Spirito umano vive prima della nascita e dopo la morte, e qual è la destinazione dell’uomo nel tempo e nell’eternità?
È naturale che siano domande che per la maggior parte della gente non possano essere trattate senza interesse personale. È naturale che tutto quello che l’uomo può provare come interesse personale, come esperienza e timore, passioni che accompagnano sempre e ancora l’uomo, siano per lui strettamente legate alla domanda sull’eternità dello Spirito. Ai tempi e nei luoghi antichi, si chiamavano Scuole dei Misteri i luoghi in cui erano presentati ed ottenevano risposte i temi piú elevati della vita dello Spirito. In quei luoghi dei Misteri, gli allievi non ricevevano un insegnamento astratto su simili temi. Le verità erano loro trasmesse solo quando la loro anima, il loro Spirito e tutta la loro personalità si trovavano in una tale disposizione che potevano vederle nella giusta luce.
Questa disposizione non era altro che il trovarsi di là dal piacere e dalla sofferenza, l’essere ben al di sopra di quanto si ricollega all’uomo giorno dopo giorno, ora dopo ora: la paura e la speranza. Queste passioni, questo contenuto di sentimenti dovevano prima di tutto essere eliminati dalla personalità. L’allievo doveva avvicinarvisi senza paura e senza speranza, privo di essi. La preparazione attraverso la quale doveva passare l’allievo era dunque una purificazione.
Senza di essa, all’allievo non venivano date risposte alle sue domande. La purificazione dalle passioni, dal piacere e dalla sofferenza, dalla paura e dalla speranza, era la condizione preliminare per elevarsi alla vetta della montagna sulla quale può essere trattata la questione dell’immortalità. Perché si sapeva chiaramente che l’allievo può allora guardare in faccia lo Spirito come colui che s’immerge in Spirito in un campo matematico, e guarda in faccia la pura matematica obiettiva: senza passione, senza paura, senza essere torturato dalle speranze.
Nell’ultima conferenza, abbiamo visto che il piacere e la pena sono prima di tutto l’espressione di quella che chiamiamo anima umana. Il piacere e la pena sono l’esperienza interiore, l’esperienza piú individuale della persona. Il piacere e la pena devono prima di tutto passare attraverso una purificazione, prima che l’anima possa arrivare allo Spirito. Nell’uomo normale, il piacere e la pena sono incatenati alle impressioni quotidiane dei sensi, a quelle immediate della personalità, incatenati a quello che interessa l’uomo per se stesso, per la sua personalità. Abitualmente, cosa ci fa piacere e cosa ci fa soffrire? Quello che ci interessa in quanto personalità. Quello che ci fa piacere e soffrire è quello che piú o meno scompare con la nostra morte. È questo stretto cerchio di quello che ci fa piacere e soffrire che dobbiamo abbandonare in vista di una conoscenza superiore. Il nostro piacere e la nostra sofferenza devono essere separati dagli interessi quotidiani, ne devono essere sottratti e poi elevati a tutt’altri mondi. L’uomo deve elevare il piacere e la pena, deve elevare i desideri della sua anima ben al di sopra del quotidiano, al di sopra del mondo sensibile, deve collegarli alle piú alte esperienze dello Spirito. Con queste aspirazioni e desideri deve elevare il suo sguardo a quello cui generalmente non si attribuisce che un’esistenza di ombre o, come si dice, astratte. Cosa potrebbe essere piú astratto, per l’uomo della vita quotidiana, del puro pensiero non sensibile? Gli uomini di tutti i giorni, che sono attaccati alla loro persona dal piacere e dalla sofferenza, fuggono già le piú semplici verità sovrasensibili, quelle piú comuni. Nei circoli piú frequentati si fugge dalla matematica proprio per la ragione che essa non implica nulla che porti all’interesse, al piacere e alla pena nel senso quotidiano del termine. L’allievo doveva essere purificato da questo piacere e da questa sofferenza quotidiani. Doveva avere l’inclinazione per quello che viveva nel suo essere interiore come immagine di pensiero e che passava furtivamente come una fantomatica ombra, doveva amarla come l’uomo che ha, con tutta la sua anima, una inclinazione per il quotidiano. Si chiamava metamorfosi la trasformazione delle passioni e degli istinti.
Di conseguenza c’è una nuova realtà per lui, un nuovo mondo fa impressione su di lui. Quello che lascia freddo l’uomo normale, quello che gli sembra freddo e insipido, è il mondo delle idee. Ed è quello cui ora sono per lui collegati il piacere e la sofferenza, ciò verso cui alza lo sguardo come verso qualcosa di reale e che acquista adesso una realtà come il tavolo e la sedia. L’uomo è veramente progredito solo quando il mondo delle idee, chiamato astratto in senso abituale, commuove la sua anima, lo rende felice, inspira la sua anima, e solo quando ciò che, nel senso abituale della parola, non ha che una realtà fantomatica di pensiero, lo circonda in modo tale che egli vive e agisce in seno a questo mondo allo stesso modo con cui l’uomo del quotidiano si muove nella realtà sensibile abituale che può vedere e toccare; solo quando si è prodotta questa trasformazione per la totalità dell’uomo, allora egli è nella disposizione in cui lo Spirito gli parla in quello che lo circonda; egli vive allora l’esperienza dello Spirito come di un linguaggio vivente, egli percepisce allora che “il Verbo si fece carne” si esprime in ogni cosa.
Quando l’uomo di tutti i giorni guarda intorno a sé e si vede circondato dai minerali inanimati, li vede regolati da leggi naturali, dalle leggi della gravità, del magnetismo, del calore, della luce. Con i suoi pensieri, l’uomo si spiega chiaramente le leggi che subiscono questi esseri. Ma tali leggi non gli parlano precisamente con la stessa palpabile realtà, non significano quello che le sue mani toccano, che i suoi occhi vedono. Quando nell’uomo ha avuto luogo la metamorfosi di cui ho parlato, allora egli non pensa piú a queste leggi naturali solo come a semplici immagini-ombre, allora queste immagini-ombra si mettono a parlargli il linguaggio vivente dello Spirito. Nel suo ambiente, nel mondo intorno a lui, gli parla lo Spirito. A partire dalle piante, dai minerali, dalle differenti specie d’animali, lo Spirito del mondo circostante parla all’uomo diventato senza desideri, all’uomo diventato senza sofferenza.
Quando parla del mondo delle idee, del mondo spirituale, la Scienza dello Spirito indica una evoluzione, non una verità astratta; una verità concreta, non delle prove logiche. Essa parla di quello che devono divenire gli uomini, non di qualcosa che necessita di una prova. La natura parla diversamente a un uomo che ha elevato e purificato la sua anima al punto da non essere piú attaccato al quotidiano, che non ha piú i soliti dolori, le sofferenze e le gioie consuete, ma ha dolori e gioie superiori, e allo stesso tempo una felicità piú grande, che emanano dal puro Spirito delle cose. L’etica spiritualistica esprime questo in un linguaggio poetico. Essa esprime in due magnifiche immagini che l’uomo può conoscere le piú elevate verità soltanto al momento in cui porta la sua anima di là dal dolore e dalla gioia consueti al contatto delle cose. Per tutto il tempo che l’occhio guarda le cose con gioia e dolore nel senso consueto delle parole, egli non può percepire lo Spirito attorno a sé. Per tutto il tempo che l’orecchio ha ancora la sensibilità immediata del quotidiano, essa non può percepire il Verbo vivente con il quale le cose spirituali attorno a noi ci parlano. Per questo la teoria spiritualistica dell’evoluzione vede in due immagini l’esigenza che l’uomo deve porsi se vuole arrivare alla conoscenza dello Spirito.
Prima che l’occhio possa vedere,
deve disabituarsi alle lacrime.
Prima che l’orecchio abbia la forza di udire,
deve aver perduto la sua sensibilità.
Mabel Collins (La luce sul sentiero)
L’occhio che si dedica allo Spirito non può piú avere lacrime di dolore e di gioia nel senso comune. Perché quando l’uomo è arrivato a questo grado di evoluzione, la coscienza del suo Io gli parla in maniera completamente nuova. Guardiamo quindi in modo del tutto nuovo nel santuario velato del nostro essere interiore. L’uomo percepisce allora se stesso come appartenente al Mondo spirituale. Percepisce se stesso come qualcosa di puro ed elevato al di sopra di tutto ciò che è sensibile, perché si è spogliato di tutto quello che è piacere e sofferenza nel campo sensibile. Distingue allora nel suo essere interiore una coscienza di sé che gli parla nello stesso modo disinteressato delle verità matematiche, ma che gli parla anche come le verità matematiche parlano in un altro senso. Le verità matematiche sono in effetti vere in un senso di eternità. Quello che si presenta ai nostri occhi nel linguaggio non sensibile della matematica è vero, indipendentemente dal tempo e dallo spazio. E quello che appare davanti alla nostra anima, dopo che si è purificata ed elevata dal piacere e dalla sofferenza a proposito delle cose spirituali, ci parla nel nostro essere interiore indipendentemente dal tempo e dallo spazio. L’eterno ci parla allora nel suo significato di eternità. Cosí l’eterno, nel suo significato di eternità, ha parlato a Socrate che stava morendo e il flusso di quella spiritualità immediata è stata trasmesso ai discepoli. È a partire dall’esperienza che ha avuto vicino a Socrate morente, che il discepolo Platone dice che il piacere e la sofferenza nel senso comune del termine risultano nocivi quando lo Spirito vuole parlarci direttamente.
Possiamo osservare tutto questo nei fenomeni della vita umana abitualmente detti anormali. Questi fenomeni sono in apparenza lontani dalle considerazioni alle quali è stata consacrata la prima parte della mia conferenza. Ma presi nel vero senso della parola, essi sono molto vicini a queste considerazioni. Si tratta dei fenomeni che in genere sono chiamati stati anormali dell’anima, come l’ipnosi, il sonnambulismo e la chiaroveggenza.
Cosa significa l’ipnosi nella vita dell’uomo? Non può essere il mio compito odierno di descrivere le differenti disposizioni da prendere se vogliamo porre l’uomo in quello stato simile al sonno chiamato ipnosi. Lo menzionerò per inciso: questo si produce portando lo sguardo su un oggetto brillante, per cui l’attenzione è concentrata in un modo del tutto particolare, oppure per il fatto che ci indirizziamo semplicemente all’uomo in una maniera adeguata dicendogli: «Adesso ti addormenterai». Con ciò possiamo suscitare uno stato di ipnosi, una specie di sonno nel quale la coscienza che abbiamo normalmente di giorno è come spenta. L’uomo che viene cosí immerso in un tale stato di sonno ipnotico, è in piedi o seduto davanti a colui che l’ha immerso in questo sonno, l’ipnotizzatore: egli non si muove, non ha impressioni nel senso normale del termine. Si può pungere con degli aghi un tale ipnotizzato, si può colpirlo, le sue membra possono essere messe in altre posizioni, egli non percepisce nulla di tutto questo, non sente niente di quello che in altre circostanze, nella sua coscienza di veglia, gli avrebbero causato del dolore o forse una sensazione di benessere, diciamo un solletico. Il piacere e la sofferenza comuni sono esclusi per un tale ipnotizzato. Ma il piacere e il dolore sono quanto abbiamo designato nell’ultima conferenza come qualità fondamentali intrinseche dell’anima, della parte mediana dell’entità umana. Cosa è dunque escluso nell’ipnosi? Per l’essenziale delle tre parti costitutive – corpo, anima, Spirito – è l’anima che è esclusa. La disposizione che abbiamo presa, consiste nel fatto di aver escluso dall’entità dell’uomo il suo fondamentale costituente mediano. Non è attivo, non sente piacere né sofferenza normali: ciò che gli farebbe male se la sua anima funzionasse normalmente, non gli fa male.
Come agisce dunque l’entità di quell’uomo, quando rivolgete la parola ad un uomo ipnotizzato, quando gli date un ordine qualsiasi? Quando gli dite: «Alzati, fa’ tre passi!» egli esegue questi ordini. Potete dargli degli ordini molto piú complicati, ancora piú vari, egli li esegue. Potete mettergli davanti degli oggetti sensibili, per esempio una pera, e dirgli che è una palla di vetro. Egli lo crederà. Ciò che è davanti a lui in forma sensibile non ha per lui alcuna importanza. Quello che è determinante per lui è che gli diciate che è una palla di vetro. Se gli ponete la domanda: «Che cos’hai davanti a te?», egli risponderà che si tratta di una palla di vetro. Il vostro Spirito, quello che è in voi, se siete l’ipnotizzatore, quello che pensate, quello che emana da voi in quanto pensiero, è ciò che agisce direttamente sulle azioni di quell’uomo. Con il suo corpo egli esegue automaticamente gli ordini del vostro Spirito. E perché esegue quegli ordini? Perché la sua anima è messa da parte, perché la sua anima non s’interpone fra il suo corpo e il vostro Spirito. Nel momento in cui la sua anima, con il suo piacere e la sua sofferenza, è attiva, nell’istante in cui ritorna la sua facoltà di provare dolore, di avere delle percezioni semplici, da quel momento è prima l’anima che decide se bisogna eseguire quegli ordini, se deve ammettere i pensieri dell’altro. Se siete di fronte ad un altro uomo in uno stato normale, il suo Spirito agisce su di voi. Ma il suo Spirito, quello che egli pensa, quello che vuole, agisce prima di tutto sulla vostra anima. Agisce su di voi come piacere e sofferenza, e voi decidete come dovete comportarvi in rapporto ai pensieri e alle azioni volontarie dell’altro. Se l’anima tace, se è messa da parte, allora essa non si interpone fra il vostro corpo e lo Spirito dell’altro, allora il corpo segue senza volontà propria le impressioni dell’ipnotizzatore, le impressioni dello Spirito di quest’ultimo come il minerale segue le leggi della natura. L’esclusione dell’anima è l’elemento essenziale che conta nell’ipnosi. Allora il pensiero estraneo, il pensiero che si trova all’esterno dell’uomo, agisce su quell’uomo, che è in uno stato simile al sonno, con la forza di una legge della natura.
Rudolf Steiner (1a Parte)
Dalle annotazioni di uditori presenti alla conferenza di Rudolf Steiner.