Meditare sul “Padre nostro”
Una preghiera è “grande” quando contiene tre momenti: la lode al Divino, l’introspezione da parte dell’orante, la richiesta per i bisogni materiali. In questi tre momenti dell’anima affiora, di volta in volta, la vita delle facoltà interiori: il pensare tesse l’adorazione disinteressata del Divino, il sentire parla a Dio come a un Tu superiore (non di rado per chiedere perdono), il volere dà coscienza all’orante delle sue carenze terrene. Il “Padre nostro” ha tutti questi momenti: parte, secondo l’uso ebraico, dalla lode, fa petizione dei bisogni umani, ricorda all’anima il senso della caducità e la necessità del perdono.
Non a caso i primi cristiani recitavano il “Padre nostro” tre volte al giorno (Didaché § 8), secondo l’uso ebraico, che prevedeva, allora come oggi, tre preghiere giornaliere. Anzi lo consideravano una preghiera densa di mistero, tanto che la affidavano con sacralità agli aspiranti al primo grado della Iniziazione, cioè al battesimo, nella cerimonia della redditio Symboli, la “consegna del Simbolo della fede”, e ne riservavano la proclamazione alla seconda parte della messa, cui intervenivano soltanto i battezzati.
I Vangeli ci hanno tuttavia tramandato due versioni alquanto differenti del “Padre nostro”: Matteo 6, 9-13 riporta sette formule (tre lodi e quattro petizioni), mentre Luca 11, 2-4 ne riporta cinque (due lodi e tre petizioni); in particolare Matteo presenta alcune frasi che sono assenti nella redazione di Luca, come «nostro che sei nei cieli», «sia fatta la tua volontà come in cielo cosí in terra», «ma liberaci dal male». Alcuni studiosi hanno spiegato cosí queste differenze: le due versioni del “Padre nostro” erano rispettivamente testi liturgici delle due comunità primitive del cristianesimo, quella formata da ebrei e quella formata da pagani. La versione di Luca sarebbe il testo adottato dalla comunità cristiana di origine pagana e inoltre il piú antico, perché riporta la parola Abbà (Pàter), com’era in uso nelle prime preghiere cristiane (Galati 4, 6; Romani 8,15); Matteo invece presenterebbe un testo del “Padre nostro” ampliato a fini liturgici dai cristiani di origine ebraica. Questa interpretazione è però tutt’altro che certa; molti elementi sembrano infatti dare la palma dell’antichità alla versione di Matteo, che è poi il testo del “Padre nostro” tradizionalmente usato dal cristianesimo.
Sulla scia di Rudolf Steiner (R. Steiner, «Il Padre nostro», conferenza tenuta a Berlino il 28 gennaio 1907 – O.O. N° 96) possiamo riconoscere nel “Padre nostro” la preghiera che ci offre la chiave per comprendere l’evoluzione dei sette corpi destinati all’uomo: tre ancora disincarnati (Manas, Buddhi, Atman), proprio come le prime tre lodi del “Padre nostro” di Matteo, e quattro già incarnati (fisico, eterico, astrale, Io), come le successive quattro petizioni contenute nella versione matteana.
Padre nostro che sei nei cieli. Il Cristo insegna a invocare Dio come “Padre nostro” secondo l’uso della spiritualità ebraica (Basti ricordare la preghiera ‘Avínu Malkènu, Padre nostro, una litania di 44 invocazioni, recitata nel Capodanno ebraico, Roš ha-šanah). Nell’adattare la preghiera cristiana al contesto pagano Luca tuttavia sopprime la formula «nostro che sei nei cieli», per evitare probabilmente ogni commistione verbale del Dio cristiano con il Padre degli dèi greci, il signore olimpico del cielo, Zeus.
1. Sia santificato il Tuo Nome. L’idea di santificazione del Nome è profondamente ebraica (Ezechiele 36, 23) e ritorna ancora oggi nel Qaddiš («Sia magnificato e santificato il Suo sacro nome (amen) nel mondo che ha creato secondo il Suo volere. Stabilisca il Suo regno durante la vostra vita ed ai vostri giorni, e durante la vita di tutta la casa di Israele, presto ed in un tempo prossimo (amen). Sia il Suo grande nome oggetto di benedizione; sempre ed in eterno sia benedetto, sia lodato, sia glorificato, sia innalzato, sia elevato, sia magnificato, sia esaltato e celebrato il nome del Santo, benedetto»).
Ma che cos’era il Nome per l’antico ebreo? Era l’unica immagine possibile del Divino, in quanto in ambito ebraico le immagini di Dio erano e sono ancora oggi proibite: i Nomi divini erano celebrati come i volti del Divino. Attraverso l’evocazione del Nome il versetto vuole additare la grande dimensione immaginativa della coscienza, quella condizione futura dello Spirito che oggi riusciamo appena a intuire, quando percepiamo la Luce del pensare. Secondo Steiner la formula «Sia santificato il Tuo Nome» evoca il primo corpo spirituale destinato all’uomo dopo l’Io, ovvero il Sé spirituale (Manas): la dimensione che elaboriamo in nuce attraverso il sentiero dell’Immaginazione.
2. Venga il Tuo regno. Non si tratta del “regno di questo mondo”, ma del regno futuro, eppure imminente: è il “regno dei cieli” di cui parla spesso Matteo come metafora della vasta signoria dello Spirito sulla materia, dell’impulso evolutivo dell’invisibile in noi. È possibile intuire questa condizione spirituale quando si percepisce la Vita della Luce, la vastità del sentire di resurrezione che ci fa vivere in comunione con il principio: «la Terra sarà il regno dell’Amore». Chi recita o medita sulla formula «venga il Tuo regno» evoca il secondo corpo spirituale destinato all’uomo dopo l’Io, cioè lo Spirito Vitale, o Buddhi: ciò che in nuce l’uomo sviluppa sul sentiero dell’Ispirazione.
3. Sia fatta la Tua volontà come in cielo cosí in terra. Questa formula (essa è in parte presente nell’ebraismo: in Berakot (29b) si legge: «Sia fatta la volontà Tua nel cielo in alto»), ci invita alla calma interiore, alla saggezza nell’accettare gli eventi, a dire «tutto va come deve andare». Sul piano interiore è la condizione che si percepisce quando ci si abbandona alla contemplazione della «saggezza della spina dorsale», come insegna Massimo Scaligero (Dell’Amore immortale, Roma 1963, cap. VII), che la esprime anche cosí: «Ciò che muove dall’essenza la Volontà è l’Amore. Ogni atto di Volontà dell’uomo è un moto individuale dell’Amore Divino. Nella corrente del volere fluisce sconosciuta la corrente cosmica dell’Amore» (Tecniche della concentrazione interiore, Roma 1975, XXIX meditazione).
Chi medita in preghiera sulla formula «Sia fatta la Tua volontà come in cielo cosí in terra» evoca il terzo corpo spirituale destinato all’uomo dopo l’Io, cioè l’Atman: ciò che l’uomo costruisce in nuce sul sentiero dell’Intuizione.
In queste tre lodi iniziali del “Padre nostro”, che rappresentano la prima fase della preghiera, lo spirito umano non chiede nulla al Padre, ma proiettandosi nei mondi spirituali auspica l’avvento di condizioni interiori ancora non incarnate sulla Terra e pertanto esprimibili soltanto con il “passivo divino” («sia santificato… venga… sia fatta»).
4. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Questa formula è usata soltanto da Matteo, perché Luca scrive: «Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano» (secondo l’esegeta O. Cullmann, la formula riportata da Matteo è la piú antica, perché il “dacci” matteano è un imperativo aoristo, lo stesso tempo e modo che si trova in tutte le altre petizioni, mentre il “dacci” lucano è un imperativo presente, dunque una innovazione). La richiesta del pane quotidiano si rifà a un episodio avvenuto durante la traversata del deserto del Sinai da parte degli Ebrei fuggiti dall’Egitto: «Allora il Signore disse a Mosè: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione del giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia Legge o no” (Esodo 16, 4)». Nell’episodio biblico il pane è il simbolo della Provvidenza divina che veglia sulle necessità materiali umane: a questa Provvidenza, a questo abbandono al Padre, si richiama il Cristo nel discorso sulle “sollecitudini ansiose”, riportato da Luca (12, 22-32): «Guardate i gigli, come crescono: non filano, non tessono. …Se Dio veste cosí l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto piú voi, gente di poca fede? Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio e queste cose vi saranno date in aggiunta».
Con la formula «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» si apre la seconda fase della preghiera: l’orante guarda la Terra che gli appare sotto forma di quaternario (le quattro formule relative ai quattro corpi incarnati) e riparte dalla realtà materiale, dai bisogni della nostra volontà. Pronunciando questa formula, l’Io si fa portavoce delle istanze del corpo fisico e quasi lo lascia parlare in prima persona.
5. E rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. La formula di remissione dei debiti è tipicamente ebraica e ricorre nella preghiera ‘Avinu Malkenu. Il suo significato è chiarito dal Cristo stesso in Marco 11, 25: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati». È una regola morale dell’agire, ispirata alle verità spirituali. Ancora nei Vangeli si legge: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi» (Matteo 6, 14-15).
Che cosa avviene quando non si perdona? Lo descrive la parabola evangelica del debitore disumano, che non rimette i suoi debiti dopo che il padrone li ha rimessi a lui. «Il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, cosí come io ho avuto pietà di te?”. E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Cosí anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello» (Matteo 18, 23-35). Questa è una delle piú belle pagine in cui il Vangelo illustra il principio della reciprocità del karma.
La formula usata da Luca è «rimettici i nostri peccati, perché anche noi li rimettiamo a ogni nostro debitore»; Matteo invece riporta: «E rimetti a noi i nostri debiti, come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori». La frase di Matteo è piú vicina al dialetto aramaico, dunque piú antica, sia perché usa la parola “debito” (come in aramaico si diceva “peccato”) sia perché dice «abbiamo rimesso» secondo l’uso aramaico, per indicare un’azione che si comincia subito mentre si parla.
Grazie alla formula di petizione «rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori» l’Io si fa portavoce delle necessità del corpo eterico: il «debito» è infatti ciò che ci tiene uniti agli altri sul piano eterico (sociale, nazionale, razziale), dunque sul piano karmico. Non a caso si parla di “debito karmico” per indicare il legame contratto da tempo con altre persone. Questa quinta formula è un’espressione che libera e guarisce il sentire nella sua vita di relazione con l’altro, perciò va recitata e meditata con tutta l’anima.
6. E non ci indurre in tentazione. Il concetto che Dio è signore della tentazione compare già nei Salmi, ove si legge: «Dio, tu ci hai messi alla prova; ci hai passati al crogiuolo, come l’argento …ci hai fatto passare per il fuoco e per l’acqua, ma poi ci hai dato sollievo» (66, 10-12). La formula compare anche nella preghiera privata, ma ormai sinagogale, del mattino, riportata in Berakot 60b: «Quando si lava il viso dica: …“o Signore mio Dio …non farmi venire in potere del peccato, dell’iniquità, della tentazione e della vergogna”».
Ciò non vuol dire che il Dio ebraico sia un Dio tentatore: anche se infatti l’antico israelita attribuiva al Creatore le dure prove della conquista assiro-babilonese o dell’esilio, il Dio ebraico è sempre un Signore del bene, che si serve del male soltanto per rettificare i figli degeneri: usa le carestie, le guerre, le malattie per riportare ognuno sulla giusta via.
Oltre che al contesto biblico, la penultima formula del “Padre nostro” si ricollega sicuramente alla tentazione del Cristo, che «fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo» (Matteo 4,1; Marco 1,12-13; Luca 4,1-2). Sul modello del Cristo che dovette affrontare tre tentazioni, ogni essere umano, in quanto portatore dell’Io, è chiamato a fronteggiare la prova su tre livelli: volere, sentire, pensare. A questo segreto allude anche il veggente lionese Maître Philippe: «La tentazione si presenta tre volte. Possiamo resistere una prima volta; si ripresenta ancora e poi una terza volta, piú forte di prima, e se noi resistiamo quest’ultima volta, non si ripresenterà piú, è finita». Tuttavia Philippe non condivideva la comune traduzione della sesta petizione nella forma «Non indurci in tentazione», infatti diceva: «Queste parole non sono mai state pronunciate, ma queste altre: “Non ci lasciar soccombere alla tentazione”. Dio non può essere l’autore delle nostre tentazioni, ma egli permette che Satana ci tenti, affinché noi riconosciamo che non siamo nulla senza Dio. La tentazione cui si resiste è il nostro miglior mezzo di lavoro» (Alfred Haehl, Vita e parole di Maître Philippe, “La Preghiera” http://bit.do/Maitre-Philippe).
La sesta formula del “Padre nostro” aveva suscitato discordanti interpretazioni già nella primitiva comunità cristiana, contrapponendo Paolo a Giacomo. L’“apostolo dei gentili” conferma la visione mistica ebraica di Dio come “Signore del bene e del male”, infatti scrive: «Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi, se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la prova vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (I Corinti 10,13); al contrario, Giacomo (1,13-14) scrive: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria passione (epithymía) che lo attrae e lo seduce; poi la passione, dopo essere stata accolta in seno, genera il peccato, e il peccato, giunto al termine, produce la morte». Anche se Giacomo si distacca dalla concezione mistica ebraica, nei termini “passione” e “peccato” albeggia tuttavia la prima comprensione della polarità del male, ovvero di ciò che, secondo la Scienza dello Spirito, è il duplice volto di Ahrimane e Lucifero.
«Non ci lasciar soccombere alla tentazione» (come gli esegeti moderni amano tradurre questo versetto) è una formula di petizione con cui l’Io diviene portavoce delle istanze del corpo astrale: è come se tutta l’attività astrale dell’orante pregasse per far sí che il pensiero non si vincoli ai sensi, per chiedere che l’anima non sia indotta ad accumulare ulteriore karma. Insomma la tentazione è prevista, ma ciò che conta è che il corpo astrale viva le passioni come occasioni di liberazione e di perfezionamento.
7. Ma liberaci dal male. «Ma liberaci dal male» è una petizione logicamente conseguente alla richiesta di non lasciarci soccombere nella tentazione, di far sí che il male (che i Padri greci personalizzavano nel Maligno secondo Matteo 13, 38) non abbia il sopravvento sull’Io e ne usurpi la funzione superiore. Luca non riporta questa settima petizione, perché al mondo greco, cui Luca si rivolge, era estranea non solo la visione del male come principio ontologico, ma anche la concezione dualistica di un bene e di un male morali, visto che i Greci consideravano il male morale come un errore della ragione. Non sarà certo un caso che Luca eviti di riportare anche la parabola della zizzania dove Matteo fa esplicito riferimento al Maligno (13, 38-39).
Il verbo greco ruomai significa però non soltanto “liberare”, ma anche “salvare, preservare, proteggere, allontanare”. Dunque «ma liberaci dal male» significa anche «salvaci, preservaci dal male che ci circonda», dal «principe di questo mondo». Quest’ultima petizione del “Padre nostro” è pronunciata direttamente dall’Io: perché il male riguarda l’Io, il solo elemento costitutivo dell’uomo che possa discernere, sul piano morale e cosciente, la natura del bene e del male. L’Io è la forza che l’essere umano ordinariamente percepisce come senso della verticalità e come calore radiante del sangue, ma è soprattutto la forza che l’uomo, di giorno in giorno, vede crescere in sé attraverso il nutrimento dell’azione morale.
Gabriele Burrini (5. continua)