Si rimprovera ai romani, compresi i redattori di questa rivista, di essere romacentrici, di collocare cioè la città di Pasquino e del Marchese del Grillo, sapidi spiritacci piantagrane, al centro dei loro interessi tematici.
Eppure, il piú ardente e convinto apologeta dell’Urbe è stato un torinese. Parlamento di Torino, 11 ottobre 1860, parla Camillo Benso, Conte di Cavour: «La nostra stella è di fare della Città Eterna, sulla quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del regno italico». Cavour parlò di glorie, non certo riferendosi agli gnocchi alla romana, ai saltimbocca e ai tonnarelli cacio e pepe. Si riferiva senza dubbio a Seneca e a Cicerone, passando per Cornelia e le Vestali. Roma quindi non si propose ma venne scelta come città regina del futuro regno d’Italia vagheggiato dai principi sabaudi.
Roma però, benché disponibile all’unione, non era accessibile. Nella ferrea, invalicabile cinta delle mura aureliane, c’era già un prete-re, che vantava diritti finanche divini sul governo della città, fondata da un altro re, qualche secolo prima. Difendevano Pio IX soldati francesi con gli chassepot e i fedeli Svizzeri di Uri e Schwitz con alabarde. Bisognava forzare le difese ma senza creare uno scandalo internazionale.
Cosí i diplomatici, ma non i militari dal grilletto facile e con la smania di passare alla storia. Raffaele Cadorna era uno di questi. Alle 5:15 del 20 settembre 1870, ordinò il cannoneggiamento delle mura. Alle 10:00 i bersaglieri di Lamarmora entrarono in città attraverso la breccia. Soddisfatto, Cadorna celebrò l’evento dicendo: «L’occupazione militare di Roma restituí all’Italia la sua capitale e pose il suggello alla sua unità». Parlava al passato remoto, come era in uso a quei tempi, dando alle parole un tono già da memoriale. Il re Vittorio Emanuele II, per unirsi all’enfasi celebrativa, volle chiudere il coro retorico dicendo: «L’opera a cui consacrammo la nostra vita è compiuta». Parlava al plurale, come usavano papi e re. Ma forse quel “nostro” era un lapsus riferito ai “soci” che avevano partecipato, piú o meno occultamente, all’impresa, prima a quella dei Mille, e dopo a formare l’unità.
A pochi passi da Porta Pia, ‘casualmente’, uno di quei “soci” ha aperto la propria ambasciata, e i nostri politici, preda di un delirio di impotenza, farneticando di fare dell’Italia un Paese sovrano, sanzionano Putin.