Verso il tempo del loto

Socialità

Verso il tempo del loto

Uomo sandwichL’avvento dell’èra digitale con l’invadenza onnipervasiva di cellulari, sms, mms, con internet e le sue mail, chat, blog e Facebook, il cosiddetto social network, questo fantastico apparato mediatico ha finito con il superare i sistemi di comunicazione basati sull’impiego della figura umana supportata dall’uso empirico di materiali d’accatto. Tra le vittime piú illustri del leviatano cibernetico, possiamo annoverare gli uomini-sandwich. Estrosi succedanei dei patinati spot televisivi di oggi anticiparono i caroselli con i loro cartelli. Uno davanti e uno dietro, i rettangoli di cartone telato o legno, stampati o anche vergati a mano, con fregi, svolazzi e disegni esplicativi del quid che reclamizzavano, di solito articoli di utilità, mobili, elettrodomestici, abbigliamento in serie, ristoranti, alcolici e cioccolatini. Le strade e le piazze centrali delle grandi città ne pullulavano, note palpabili di colore e calore umano, ma anche di dolore, essendo l’umanità soggetta al risvolto della sofferenza sulla moneta per la quale sconta il pedaggio nel duro, seppure esaltante, cammino della sua emancipazione da materia a Spirito.

C’era stata la guerra, grande, mondiale, classificata seconda nel novero cronologico di quelle passate, senza dubbio future. L’umanità aveva raffinato i suoi istinti e modi di animalità, finanche di bestialità.

E come sempre nella storia dell’uomo, dopo l’errore il senso di colpa, il rimorso, il terrore di essere finiti nel vortice del nulla, lasciati soli e inermi sulla banchisa polare in attesa dell’orso affamato. E come sempre, ecco gli stessi spacciatori del male procurare il rimedio per blandirlo: il consumismo. Un tripudio di materialità seducente: automobili in primis, poi abiti firmati, yacht, ville e quant’altro.

Ma era appunto un rimedio pro tempore, una blandizia, poiché il groviglio animico restava e rodeva nel piú geloso e profondo delle coscienze degli intossicati. Venne la droga a vibrare il colpo di grazia. E non lo faceva con un fendente vistoso, da esecuzione capitale: lavorava subdola, da maga Circe. E la vittima, di carezza in carezza, di sussurro in sussurro, scivolava nella palude mortale dell’overdose.

Era capitato a un diciottenne di Avellino. Fatto di eroina, si era schiantato con la moto contro un platano. Il padre, un noto professore di liceo, ogni fine mese si recava in treno a Roma. Giunto nella capitale, dalla stazione Termini raggiungeva una copisteria cartoleria in Via delle Terme di Diocleziano, dove acquistava un cartone telato, 120×170, e con un pennarello rosso ci segnava la data del giorno. Poi, a caratteri ben definiti, seguitava a scrivere, sciorinando una filippica di accuse contro l’intera società: «È colpa tua – scriveva – se tuo figlio si droga e muore, se tua moglie ti tradisce, se tua figlia si prostituisce, se il socio in affari ti imbroglia, se i treni deragliano e le navi affondano. Sei complice del malaffare e della corruzione con il tuo denaro, il tuo esempio, la tua negligenza omertosa». Quando finiva con le accuse, nello spazio libero del cartone rimasto, il professore aggiungeva: «In memoria di Ettore, che cercava la falsa libertà», e la data dell’incidente in cui era morto il figlio. Noleggiava poi una botticella davanti al Museo delle Terme, vi montava e si lasciava trasportare, esibendo il cartello con piglio dolente ai pedoni che lo leggevano distratti, mentre gli automobilisti reclamavano il passo alla carrozzella, e il cavallo scartava, innervosito dai clacson. Giú per Via Nazionale, Piazza Venezia, il Corso, Via Condotti, Piazza di Spagna, per finire a Piazza del Popolo. Qui, licenziata la vettura, il professore sostava con il suo cartello in un angolo della piazza, lato Pincio, dove spesso si esibiva un’orchestrina rom, con chitarre e fisarmonica, e un pittore barbuto, slavo, ritraeva all’impronta. La gente leggeva il cartone, capiva, e solo pochi indagavano per dettagli o per compassionare il redattore. Il quale, fattasi l’ora di pranzo, smontava la postazione, gettava il cartone in un cassonetto dei rifiuti, prendeva il bus per Termini, dove, consumato un rapido snack al bar, riprendeva il treno per Avellino.

Il Sessantotto aveva gridato le sue false libertà attingendole alla vena d’odio che scorre da sempre nei precordi dei sottomessi, cui vengono negate per gene o per destino le cosiddette opportunità sociali e culturali. Le rivoluzioni, di piccolo o grande cabotaggio, tendono a degenerare in rivolte di sangue quando, come nella rivoluzione francese e quella piú recente delle primavere arabe, arrivano a far mancare, in un perverso gioco al rincaro o persino occultamento, la farina per il pane. Naturalmente le folle, nel rigurgito istintivo delle rivendicazioni, assaltano i “Forni delle Grucce” di manzoniana memoria, prendono le Bastiglie del potere pubblico, e nel vortice di violenza e brutalità che ne deriva, finiscono con l’erigere patiboli e ghigliottine.

SessantottoPer il grado di civiltà, di cultura e di sazietà dei promotori, dei luoghi e dei tempi, la rivoluzione sessantottina, partita dagli studenti, sfogò odio e rancore in slogan spesso piú taglienti, denigratori e letali di lame e pallottole: “Cloro al clero”, “Diamo l’assalto al cielo”, “Vietato vietare”, “Lotta dura senza paura”, “Pagherete caro, pagherete tutto”, “Tremate, le streghe son tornate”, “Vivere senza fermarsi mai, godere senza freno”. Ma sui muri e negli striscioni dei cortei di protesta si leggevano anche esortazioni alla pace e all’amore, nelle declinazioni e liberalità che l’ondata di trasgressione globale normalizzava, tipo “Fate l’amore, non fate la guerra”, “Mettete fiori nei vostri cannoni”, “La vita è altrove”. E cosí, dal magma scomposto e velleitario delle rivendicazioni culturali e sociali, vennero gli oltraggi ai luoghi di culto, la decapitazione delle erme di eroi risorgimentali al Pincio e in altri plessi monumentali del Paese, ma nacque anche l’amore per la natura, il rispetto dell’ambiente e della salute. Fu coniata la parola ecologia e si capí che il feticcio diversivo dell’automobile era un subdolo diffusore di veleni alla lunga letali. La dromomania fece conoscere dal vivo genti e paesi che si ritenevano solo topiche letterarie, e insieme alla cannabis e al betel, ai falsi paradisi estatici di Goa e Cancun, i giovani impararono da guru e sciamani in India la meditazione trascendentale e la medicina alternativa.

Cambiano i tempi, mutano le persone, i costumi e le idee, ma per ogni emergenza nascono i profeti. Come ce li consegna ad esempio la Bibbia: invasati dall’afflato divino, scarnificati all’osso, furenti, gli occhi infossati in orbite di fuoco, digiunanti o nutriti a radici. In tanta fisica denutrizione e penanza, incongrua, la voce di tuono castigava gli Erodi di ogni ordine, grado e tempo, finendo spesso acefali.

Greta ThunbergNon piú cosí, oggi. Le malefatte di potenti e contorni sono le stesse dell’èra biblica, magari aggiornate agli strumenti e ai contenuti sillogistici, ma nella sostanza derivanti dallo stesso mandato morale. Capovolgendo Bentham, fare il maggior male possibile al maggior numero di persone e il minor bene ai restanti. Importante è che si rispetti il canone Me Too, che il profeta sia cioè anche donna e arrabbiata. Con grinta e trecce alla Pippi Calzelunghe, è apparsa Greta Thunberg. Apocalittica, furiosa, sprezzante quasi, ha puntato il ditino da trapano dentale contro i governi del mondo accusandoli di crimini ambientali, e non uno di essi ha osato chiedere la sua testolina saccente. Anzi, hanno fatto a gara per accoglierla nei palazzi del potere, dividere con lei un selfie e onorarla come fosse un’inviata speciale del Dio Clima e della Dea Natura. Si è fatto passare il suo avvento come una casualità, un fenomeno spontaneo originato dalla necessità di riportare ordine nella casa globale.

Infatti parla di casa il suo libro, un lavoro di gruppo con sua madre e altri esperti, vibrante tuttavia in ogni pagina del suo carisma taumaturgico da fanciulla scelta dal destino a spegnere l’incendio che sta consumando il pianeta. La nostra casa è in fiamme, questo il titolo del libro di accusa, e questo il tono dei suoi discorsi pubblici: «Non voglio la vostra speranza. Non voglio che siate ottimisti. Voglio che siate in preda al panico. Voglio che proviate la paura che io provo ogni giorno. Voglio che agiate come fareste in un’emergenza, che agiate come se la nostra casa fosse in fiamme. Perché lo è».

L’uso dei verbi è chiarificatore: quel “voglio” invece di “auspico” denota un imperio, un ordine, e un potere non certo modesto e limitato al desiderio di una ragazzina che si angoscia perché un ghiacciaio si scioglie e il pinguino dell’antartico rischia di perdere il suo territorio. Dietro la Cassandra in erba manovrano pompieri che non accorrono con l’autobotte a spegnere il fuoco, ma broker e Ceo dell’alta finanza, che usano con molta accortezza politica l’abilità affabulatoria di Greta sulle folle, già abbondantemente spaventate da ben altri disastri immanenti che vengono però occultati e taciuti. E si ha l’impressione che l’importanza data dai media internazionali al fenomeno Greta, piú che un campanello d’allarme per le catastrofi imminenti di cui vengono accusate per accidia e negligenza le nazioni del pianeta, in qualche modo antipatiche al regime globale, servirebbe piuttosto a stornare paure e risentimenti dalle vere cause della sconfitta planetaria, da ricercarsi nell’impotenza di bloccare i flussi migratori o di impedire le rapinose speculazioni finanziarie.Auto volante Il meccanismo della civiltà umana è andato in tilt per overdose di leggi, divieti e decreti che spesso si auto-elidono. Si parla di veleni che ammorbano l’aria del pianeta e nessuno ha il coraggio di ridurre la produzione di auto sia nel numero, sia negli ottani dei carburanti, sia nei cavalli potenza dei motori. Si vanta il possessore del SUV GT12 Ferrari, 340 chilometri all’ora: «Da Milano a Firenze, da casello a casello, un volo». Ma forse non sa che il suo bolide è già superato dalla “macchina volante”, ora in fase di produzione.

Il mercurio e la plastica finiti in mare avvelenano i tonni, ammonisce severo il bambino di uno spot alla tv, sull’onda delle geremiadi di Greta contro gli inquinatori seriali delle acque in generale e di quelle oceaniche in particolare riguardo alla fauna edibile. Cibo e automobili monopolizzano alla tv i caroselli pubblicitari. Barattoli, bottiglie, scatole, incarti vengono immessi nel ciclo delle acque di superficie finendo in mare. Le automobili usate o incidentate finiscono allo sfascio. Intorno a ogni grande città funghiscono decine, forse centinaia di questi cimiteri delle auto, uscite dal novero dei veicoli abilitati a circolare in sicurezza. In una di queste fulminate Gomorre dell’overdose automobilistica sarebbe dovuta andare Greta, per una lectio magistralis sulla fatuità dei miti a quattro ruote. Squalo di Wall StreetE avrebbe dovuto menzionare, tra i rifiuti e veleni che ingombrano, ammorbano e infettano i mari e il suolo del pianeta, quelli che, sottili e invisibili, formano, specie sulle città, la cupola dell’effetto serra: acido solforico, azoto, piombo, cloro, fosforo, ozono, e i piú sofisticati untori tipo benzene, toluene e tallio che, in una danza macabra di misture assassine, formano il perverso aerosol metropolitano. Se l’avesse detto, avrebbe chiamato alla sbarra di giudizio le Sette Sorelle, certo tra gli sponsor del tour planetario della vivace torquemada che manda al rogo solo i personaggi e i governi non allineati.

Allo stesso modo e per uguale fine, non ha chiamato in causa i cosiddetti “gnomi di Zurigo” e gli “squali di Wall Street”, la tentacolare joint venture della finanza mondiale, che a detta degli stessi geni del denaro è la causa dei maggiori guasti socio-economici che affliggono la civiltà dei consumi. Il gioco dei dividendi azionari e dei grandi profit a dirigenti e manager delle compagnie ha incubato quella che l’illuminato economista John Galbraith ha ben definito “l’economia della truffa”. Programmata per denunciare l’ovvio e tacere il vero, Greta Thunberg, non ha puntato il ditino e digrignato i dentini all’indirizzo dei produttori di armi. Se lo avesse fatto, avrebbe coinvolto i paesi “democratici”, che con la scusa di armare i popoli schiavi per renderli liberi, ingombrano il cosiddetto Terzo Mondo di bazooka e mitra d’assalto, mine antiuomo e droni bomba, con i pezzi di ricambio e le istruzioni per l’uso. Non ha mai chiamato in causa il Divino, Greta, e neppure fatto questione di ideali e responsabilità morali. L’ecologia si ridurrebbe pertanto alla tutela ambientale e alla chimica organica.

Sacrifici umaniEppure si ha la sensazione che l’armageddon della civiltà umana non verrà dai disastri ambientali preconizzati dalla concitata Savonarola in miniatura. La Terra ha conosciuto ben altri incendi e sismi nel corso degli eoni a partire dal Fiat Lux, e non ha mutato la sincronia perfetta del meccanismo che la anima e sostiene. Si avverte da segnali traversi che la campanella del giorno del giudizio squillerà a martello quando la natura animica dell’uomo, inteso come specie destinata alla divinità angelica, si degraderà fino alla bestialità demonica irrecuperabile. I segnali già rintoccano in lontananza: overdose di aborti e depravazioni, come l’insegnamento sessuale con prove pratiche ai bimbi delle scuole elementari e la creazione degli uomini cane in Inghilterra, certe pellicole in cui crudeltà, malvagità e horror richiamano i rituali di sangue dei Maya, quando l’Ultimo Sole annunciò la fine della loro civiltà, caduta dalle supreme conoscenze astrali alla bestialità degli inferi sacrifici cruenti. Vana follia, poiché le migliaia di cuori strappati ancora palpitanti dal petto delle vittime e offerti al dio Giaguaro non valsero a salvare la loro splendida ma disumana civiltà, che venne a sua volta divorata dalla giungla. L’estrazione del cuore vivo è una citazione fatta da Rambo Stallone in “Last Blood”. Forse questo è l’incendio, l’ecpirosi pitago­rica dell’ultimo giorno, che distruggerà la nostra civiltà e non gli incendi della Foresta Amazzonica, appiccati dai planteros di marjuana, o dai nemici di Bolsonaro, pagati da chi briga per riportare l’America del Sud e Hong Kong al polo opposto, sotto l’ombrello della finanza apolide. Tutto questo nella fiammata sinistra del fungo atomico di cui non si vuole parlare. Eppure tutti ormai sappiamo di vivere sulla polveriera dei silos nucleari disseminati in varie aree del pianeta. Un assurdo: la minaccia di fissione delle particelle consente alla nostra civiltà, armata fino ai denti, di vivere. Non è l’amore per la vita quindi, ma la paura di perderla.

Greta non ha voluto impugnare la paranoia nucleare. Se lo avesse fatto, avrebbe chiamato al banco degli imputati quasi tutti gli sponsor della sua crociata ecologista, culminata con l’apoteosi del suo intervento alle Nazioni Unite, dove siedono, tolti San Marino e il Bhutan, tutti i possessori di ordigni atomici in grado di incenerire il mondo. E non tutti mostrano di valutare la gravità e responsabilità del potere distruttivo di cui dispongono.

Ma le denunce non bastano, anzi non fanno che peggiorare l’ansia di tutti. Greta avrebbe dovuto terminare le sue invettive con un viatico di speranza, come l’imperatore indiano Ashoka, quello che respirava con la mascherina di garza per non uccidere i moscerini. Ebbene, ai sudditi fiaccati da mesi di siccità, dalla carestia, vessati da usurai e dalla corruzione dei costumi, Ashoka disse: «Non temete: quanto piú torbida e graveolente diviene l’ac­qua dello stagno, tanto piú vicina è la fioritura del candido loto».

Cosí venne promesso, cosí sarà.

 

Leonida I. Elliot