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I bouquinistes di Parigi

I bouquinistes di Parigi

Le parole scritte restano, catturate nei caratteri di stampa di milioni di libri, giornali, riviste, prontuari, manuali esplicativi, vademecum turistici ecc. Oltre alle biblioteche e agli archivi letterari, lo confermano i rinomati bouquinistes di Parigi, resi celebri da cinema e letteratura, le edicole di giornali sui marciapiedi delle città, le bancarelle di strada e i carrettini anarchici sparsi un po’ ovunque nel mondo. Questi ultimi, gestori di commerci “en plein air”, sono animati non tanto dalle prospettive di improbabili profitti, quanto dalla smania di salvare reliquie di civiltà editoriale. Spesso si consorziano, e in locali rimediati, fuori mano, allestiscono, piú che le cosiddette librerie antiquarie, veri sacrari della carta stampata, senza distinzioni di tematiche, di autori, di etnia e credo. A volte non hanno neppure un’insegna commerciale, ma l’affaccio su strada è inequivocabile, e attira una varietà multiforme di personaggi che vanno dai maître-à-penser agli storici, a intellettuali, saggisti, collezionisti, e cercatori di pezzi rari difficilmente trovabili altrove. La ridondanza e varietà dei temi trattati, i tomi impilati alla rinfusa, il sapere affastellato senza la pompa e il sussiego dei container accademici e specialistici, affascina l’ingegno del ricercatore di nascoste meraviglie.

Per incentivare l’acquisto della parola stampata, che cede il passo alla parola digitalizzata, si allestiscono rutilanti rassegne librarie di grande, media e piccola editoria. Fernando Aramburu, intellettuale di spicco nella Spagna passata dalla Santa Inquisizione alla laica disquisizione, ospite d’onore al Salone del libro 2019 di Torino, ha esposto in termini di cinico snobismo il suo fallimento di letterato, avendo eletto la scrittura a sua unica ragione di vita: «Ho 59 anni. Non so se sono quello che volevo essere, ma di tempo per diventarlo ne ho avuto e come. Da adolescente scelsi la strada della letteratura. L’ho percorsa senza sosta. È una strada che non porta da nessuna parte, ma vi lasciamo delle orme. Questo mi basta». Dal sommo della sua olimpica quotazione editoriale, Aramburu disillude chi, di fatto potenziale concorrente, intendesse abbordare la china della letteratura d’alto profilo. Con la sua autorevole sortita, nel contesto di una cosí importante kermesse della parola scritta, finisce maldestramente col dissuadere dall’acquistare un prodotto che potrebbe “non portare da nessuna parte”.

Di pensieri e parole sono composti i libri. Il lungo cammino della civiltà umana raggiungerà la meta prevista solo se idea e verbo la percorreranno insieme.

Il primordiale assillo se sia nato prima l’uovo o la gallina si ripropone per un piú nobile dilemma, se cioè sia nato prima il pensiero o la parola. Il fatto poi che la parola sia una facoltà accordata solo all’uomo, pone un problema ancora piú complesso, ma noi ci fermiamo al primo assillo. Per evitare piú spinose questioni scientifiche e filosofiche ci limitiamo a definire la natura delle due funzioni in senso prettamente fisiologico, senza dimenticare le prerogative psicologiche di entrambe le facoltà, per gli evoluzionisti dovute a meccanismi elettrochimici puramente reattivi, per gli spiritualisti a sincronismi e rispondenze con energie, essenze ed entità la cui natura possiamo immaginarla ma non quantificare e ancor meno definire compiutamente senza incorrere in malintesi. Cosí come è arduo stabilire la priorità ontologica tra pensiero e parola: l’uomo dunque ha pensato e poi ha parlato o viceversa? L’homo sapiens farebbe propendere il giudizio per la prima ipotesi, che cioè abbia prima pensato e poi parlato, mentre l’homo insipiens, coerente col suo status, avrebbe aperto bocca dandole fiato.

Intanto, occorre stabilire la natura delle due funzioni, cominciando dal pensiero. I materialisti ne fanno una reazione nervosa meccanica, riflessiva del nostro cervello, un organo complesso, complicato al punto che gli si possono attribuire tutte le reazioni possibili alle realtà fisica del mondo. Tali reazioni impegnano la nostra sfera sensoria, causando le varie percezioni che la filosofia deterministica, per cavarsi d’impaccio, ipotizza siano i catalizzatori delle nostre capacità cognitive, riflessive, creative, insomma, il sacro quid da cui scaturiscono le prestazioni per cui l’uomo è unico nel variegato repertorio delle specie viventi e soprattutto riflettenti.

La Scienza dello Spirito va oltre e dice che il pensiero trascende le funzioni squisitamente fisiche dell’organo cerebrale per espandersi alla sfera del metafisico. Scrive Massimo Scaligero: «Il pensiero non è una produzione umana, ma qualcosa che si dà all’uomo e con cui egli ha il torto di identificarsi: gli si dà di continuo come  simbolo  della vita originaria perduta. Fuori che come simbolo, il pensiero è una maya. Percepire il pensiero è percepire la Vita: la fiammea Luce creatrice, la forza magica. Il pensiero non è una produzione umana, ma qualcosa che a lui viene donato: è il mondo sovrasensibile che gli si dà come, sul piano fisico, gli si dà il mondo sensibile» (Il Logos e i Nuovi Misteri, Teseo, Roma 1973).

Rudolf Steiner, in Filosofia della Libertà precisa: «Cosa sia un concetto non può essere detto con parole. Le parole possono soltanto rendere attento l’uomo al fatto che egli ha dei concetti».

Scrive Marie Steiner in Arte della parola e arte drammatica: «Il parlare non scaturisce direttamente dall’Io, bensí in effetti dall’organismo astrale. L’animale possiede anche l’organismo astrale, ma di norma esso non lo porta a parlare. Questo perché tutte le parti costitutive dell’entità umana e di quella animale non sono presenti solo per se stesse, ma ciascuna è compenetrata da tutte le altre, ragione per cui viene modificata nella sua essenza. …Anche l’animale è nelle stesse condizioni …ma l’Io modifica solo nel­l’uomo il corpo astrale, e dal corpo astrale modificato dall’Io parte l’impulso del parlare» (O.O. N° 282).

E l’uomo ha onorato nel tempo questo favor dei, rivelando in segni, fossero espressioni creative, forme plastiche e liriche, l’immanenza del divino nel vivente. Massimamente, attraverso la scrittura,

Nata, come si ipotizza, in Mesopotamia: la “fertile mezzaluna” culla della civiltà, che i monti del Tauro irroravano di fiumi, di cui i piú grandi, il Tigri precipitoso degli Assiri e l’Eufrate lento e gonfio, da cui le norie, grandi ruote di legno, traevano acqua per i Giardini di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo. Alla confluenza dei due fiumi, nella pianura che si estendeva dal Golfo Persico al Mediterraneo, era Ur dei Caldei, la Terra dei Sumeri. Come il limo del Nilo generò in Egitto i geroglifici, la scrittura dei glifi sacri variopinti che decoravano le tombe dei faraoni, cosí i penetrali dei luoghi misterici, l’argilla dell’Eufrate, morbida e allo stesso tempo tenace, si prestava a compiere la magia di esporre, in segni e codici interpretativi reali e visibili, i pensieri, i sentimenti e gli umori delle creature umane.

Tavolette di argilla con caratteri incisi

Tavolette di argilla incise

Rassodata in pani e tavolette, l’argilla fluviale veniva incisa con stili metallici per ricavare figure e modelli pittografici, che rendessero in giochi formali espliciti il pensiero, il sentimento dello scriba. All’uso dello stilo metallico, si alternava, all’uopo, l’impiego di cunei di pietra e metallo, utili a riprodurre gli effetti vocalici e sillabici del linguaggio e per riportare segni dei fenomeni naturali e soprannaturali nella composizione che, da pittografia, grazie ai segni cuneiformi, era ormai logografia.

AlkahestNasceva cosí una forma di decrittazione della natura che gli evoluzionisti e i mitografi, ad esempio, vollero assai sbrigativa­mente definire “lingua universale”, attribuendole una casualità che Novalis nel suo I Discepoli di Sais apertamente sconfessava, esaltandone, per contro, l’intrinseca sacralità: «La scrittura cifrata è contenuta in tutte le cose. Gli uomini percorrono strade molteplici. Chi le segue e le confronta vedrà originarsi figure bizzarre; figure che sembrano far parte di quella grande scrittura cifrata che si scorge dappertutto: sulle ali, sui gusci d’uovo, nelle nuvole, nella neve, nei cristalli e nelle formazioni rocciose, sulle acque che ghiacciano, nella struttura interna e nell’aspetto esteriore delle montagne, delle piante, degli animali, degli uomini, negli astri del cielo, sulle lastre di pece e di vetro che vengono toccate e colpite (esperimenti acustici di Chladni), nella limatura intorno ad una calamita e nelle singolari congiunzioni del caso. In tutto questo si avverte la chiave, la grammatica di questa scrittura straordinaria, il presentimento, però, che non vuole assumere i contorni di una forma stabile e sembra non volersi trasformare in una chiave superiore. Sembra che sui sensi degli uomini sia stato versato un alkahest [l’ipotetico solvente universale in grado si sciogliere ogni sostanza, compreso l’oro]. I loro desideri, i loro pensieri sembrano consolidarsi solo per un attimo. In questo modo si originano i loro presentimenti ma, dopo poco tempo, ai loro sguardi tutto è di nuovo fluido come prima». Non ricordano queste parole la differenziazione delle lingue che toccò ai costruttori della Torre di Babele, resasi necessaria affinché l’individuazione delle personalità umane si compisse?

L’esagila di Babilonia è tornata sabbia alla sabbia, ma dei regni degli Accadi e degli Assiri restano i rilievi scolpiti nella roccia e le tracce indelebili della scrittura che ne narra le gesta. E i Sumeri, con i loro buffi grembiulini di rafia, minuti e paciosi, fissarono in segni intellegibili il pensiero e i sentimenti, per esternarli nell’immediato e tramandarli nel tempo. La scrittura, incisa in migliaia di tavolette d’argilla, fa del popolo sumero il padre della civiltà umana. Chi volesse vederle, dovrebbe visitare il British Museum, dove sono state raccolte nel tempo 30.943 tavolette, gran parte frutto degli scavi eseguiti dall’archeologo inglese Austen Henry Layard e dal suo assistente Hormuzd Rassam, nel 1849 a Ninive, antica capitale del Regno Assiro, l’odierna Kouyunjik in Iraq.

La biblioteca di Assurbanipal a Ninive

La biblioteca era stata fondata dal re Assurbanipal (668-627 a.C.), un appassionato raccoglitore di testi della cultura che era stata prima sumera e poi assiro-babilonese. Miti, leggende, come l’Epopea di Gilgamesh, cercatore dell’immortalità, il Poema della Creazione, con le cosmogonie astronomiche e planetarie, e le divinità che presiedevano all’ordine cosmico e all’influenza degli astri sulla vita della natura e del vivente. La banca dati del British Museum verrà a breve utilizzata per la pubblicazione di un catalogo completo e aggiornato dei circa 10.000 testi ricavati dai reperti di quella che fu l’ormai leggendaria Biblioteca di Assurbanipal, repertorio cronologico della cultura mesopotamica.

Il sovrano assiro, patito dei libri (di argilla), adoperò ogni mezzo, fino alla confisca e alla predazione, per procurarsi i testi e arricchire la sua raccolta. Insieme ai soldati che eseguivano manu militari il sequestro nelle città e nelle regioni limitrofe e remote del regno, e se necessario anche in aree ostili, venivano intruppati manipoli di scribi incaricati di reperire i testi originali e scartare i falsi e le copie. Subí, per legge di contrappasso, la spoliazione, secoli dopo, per mano di un archeologo britannico. Ma tale apparente iattura salvò la biblioteca dal vandalismo brutale e cinico di tanti scavi clandestini. Vinceva, sul mortale silenzio delle cose passate, sull’oblio del tempo, la Parola, fenice risorgente dalla cenere.

La Parola non appartiene all’uomo, è dono celeste, per cui risorge da ogni rovina come seme di vita. Furono infatti due parole “Fiat Lux” ad avviare la creazione, e “Io sono” a rivelarne il Fattore.

Nella libreria ‘omnia’ può capitare il poeta, che alla vista di tale e tanta grazia profusa dall’Io, esulta. In uno di quei libri, può esserci la rivelazione dell’ineffabile, del sublime, o la semplice consolazione che la Parola può dare a chiunque cerchi il senso profondo della vita. Perché, dopotutto, quello che l’uomo realmente vuole è durare nel tempo, perpetuarsi nella memoria. Come il piccolo, buffo scriba sumero che incideva spighe di grano nell’argilla, come il superbo re assiro che enumerava in migliaia di tavolette i meriti e il prestigio del suo regno. Entrambi cercavano l’eternità, come continua tuttora a fare ogni uomo, dall’inizio del mondo.

Alfabeto e zodiaco

Alfabeto e zodiaco

Nel suo saggio L’alfabeto come espressione del mistero dell’uomo Rudolf Steiner spiega come la parola, quando non è vuota astrazione, possa esprimere la stretta relazione tra l’uomo e i moti planetari, tra la specie umana e i segni dello Zodiaco, connessione che egli sperimenta nel pensare, sentire e volere: «Non ha senso, amici, ripetere che l’uomo consiste di corpo fisico e di corpo eterico. Sono queste solo vaghe, indefinite parole. Se vogliamo esprimerci in termini reali, appresi dai misteri del cosmo, dovremmo dire: l’Uomo è costituito dall’eco degli spazi celesti, delle stelle fisse, dell’eco dei moti planetari e dall’impressione che possiamo verosimilmente ricevere dall’eco dei cieli delle stelle fisse. Avremmo allora espresso in termini realmente cosmici ciò che viene espresso in astratto dalle parole: l’uomo è fatto di corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale ed ego. Ma passiamo a una concreta parola cosmica se diciamo: l’uomo consiste di un’eco dello Zodiaco, di un’eco dei moti planetari, dell’esperienza dell’impressione dei moti planetari nel pensare, sentire e volere, e nella percezione dell’eco dello Zodiaco. Le prime sono astrazione, la seconda, realtà. …Se guardiamo all’uomo e gradatamente impariamo a conoscere la sua vera natura, allora il suo corpo fisico cessa di essere nel modo in cui si prospetta a noi e noi lo vediamo, la nostra visione si amplia e l’uomo assurge ai cieli delle stelle fisse. Anche il corpo eterico cessa di presentarsi a noi. La visione si amplia, l’esperienza si amplia e noi riusciamo a percepire la vita planetaria, poiché il corpo eterico dell’uomo è un puro riflesso della vita planetaria» (conferenza tenuta a Dornach il 18 dicembre 1921 – O.O. N° 209).

E Massimo Scaligero, in una lettera a un discepolo dell’agosto 1971, scrive: «Quando nella parola potrà risonare la potenza dello Spirito, e sarà il suono della voce il veicolo della Forza, allora non sarà piú necessario discutere o dimostrare o combattere dialetticamente per sostenere la verità, ma la si affermerà mediante la parola: avrà la potenza della realtà obiettiva. L’errore potrà solo allora cominciare a essere vinto: la menzogna solo allora comincerà a crollare. Questa possibilità è ciò che l’uomo deve preparare: l’elevazione purificatrice, il superamento e la trasformazione della tenebra, in un impeto di donazione rigeneratrice, una possente identità con le forze della guarigione e della Resurrezione, che sono le forze del Christo. È questa superiore eroicità che oggi viene richiesta per essere veicoli della Forza-Christo nel momento piú critico della storia dell’uomo (https://www.larchetipo.com/2003/ago03/accordo.htm).

Volano gli inganni del Male a perdersi nel nulla, resta la Parola, possente voce delle Gerarchie.

 

Leonida I. Elliot