Orfeo, il Divino Cantore

Mitologia

Orfeo, il Divino Cantore

«Orfeo incanta le creature» Mosaico pavimentale romano, Palermo

«Orfeo incanta le creature»
Mosaico pavimentale romano, Palermo

Di lí, avvolto nel suo mantello dorato,

se ne andò Imeneo per l’etere infinito,

dirigendosi verso la terra dei Cíconi,

dove la voce di Orfeo lo invocava invano.

Invano, sí, perché il dio venne,

ma senza le parole di rito, senza letizia in volto,

senza presagi propizi.

Persino la fiaccola che impugnava

sprigionò soltanto fumo, provocando lacrime,

e per quanto agitata, non levò mai fiamme.

Presagio infausto di peggiore evento:

la giovane sposa,  mentre tra i prati vagava

in compagnia d’uno stuolo di Naiadi,

morí, morsa al tallone da un serpente.

A lungo sotto la volta del cielo

la pianse il poeta del Ròdope,

ma per saggiare anche il mondo dei morti,

non esitò a scendere sino allo Stige

per la porta del Tènaro.

…Giunse alla presenza di Persefone

e del signore che regge

lo squallido regno dei morti.

Intonando al canto le corde della lira,

cosí disse: «…Per questi luoghi paurosi,

per questo immane abisso,

per i silenzi di questo immenso regno,

vi prego, ritessete il destino

anzitempo infranto di Euridice!

…Anche Euridice sarà vostra,

quando fino in fondo avrà compiuto

il tempo che le spetta:

in pegno ve la chiedo, non in dono.

Se poi per lei tale grazia mi nega il fato,

questo è certo: io non me ne andrò:

della morte d’entrambi godrete!».

Mentre cosí si esprimeva,

accompagnato dal suono della lira,

le anime esangui piangevano.

…Si dice che alle Furie,

commosse dal canto, per la prima volta

si bagnassero allora di lacrime le guance.

Né ebbero cuore, regina e re degli abissi,

di opporre un rifiuto alla sua preghiera

e chiamarono Euridice.

Tra le ombre appena giunte si trovava,

e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.

Orfeo del Ròdope, prendendola per mano,

ricevette l’ordine di non volgere indietro

lo sguardo, finché non fosse uscito

dalle valli dell’Averno; vano, sennò,

sarebbe stato il dono.

…E ormai non erano lontani

 dalla superficie della terra, quando,

nel timore che lei non lo seguisse,

ansioso di guardarla, l’innamorato Orfeo

si volse: subito lei svaní nell’Averno,

cercò, sí, tendendo le braccia,

d’afferrarlo ed essere afferrata,

ma null’altro strinse, ahimè,

che l’aria sfuggente. …Invano Orfeo

scongiurò Caronte di traghettarlo ancora:

il nocchiero lo scacciò. Per sette giorni

rimase lí accasciato sulla riva,

senza toccare alcun dono di Cerere:

dolore, angoscia e lacrime

furono il suo unico cibo.

Poi, dopo aver maledetto

la crudeltà dei numi dell’Averno,

si ritirò sull’alto Ròdope

e sull’Emo battuto dai venti.

.

Ovidio, Metamorfosi (X, 1-77)




 

Questa è la storia dell’amore di Orfeo ed Euridice, la piú bella delle Naiadi, ninfe delle acque dolci: una storia molto antica, che commuove come quella, medievale, di Giulietta e Romeo.

Narra la leggenda che Orfeo nacque in Tracia dalla Musa della poesia epica Calliope e dal re Eagro. Con le melodie della sua cetra e il suo canto ammaliava gli uomini e la natura, affascinava le piante e le rocce, ren­deva mansuete le fiere e placava la furia della natura.

Egli, evidentemente, fondò la civiltà delle popolazioni tra le quali visse e agí. Sarebbe nato prima della guerra di Troia, che si verificò presumibilmente nel XIII o nel XII secolo a.C. in Asia minore, là dove oggi si stende la Turchia, nell’antica Tracia, a Sud-Est della penisola balcanica, che si affaccia a Sud sull’Egeo e sul Mar di Marmara e ad Est sul Mar Nero. Comprendeva una striscia dell’attuale territorio greco, una parte della Bulgaria e la Turchia europea.

Di lui Rudolf Steiner, in Digressioni sul Vangelo di Marco, O.O. N° 124, dice quanto segue: «Ci viene raccontato di un cantore greco, Orfeo. Lo menziono perché in certo qual modo appartiene all’epoca immediatamente precedente quella cristiana. Orfeo fu colui che istituí i Misteri greci. Il periodo greco è il quarto all’interno della nostra civiltà postatlantidea, cosí che in certo qual modo mediante la civiltà di Orfeo venne preparato ciò che piú tardi fu dato all’umanità con l’evento del Cristo. Per la Grecia Orfeo è dunque il grande preparatore. Che cosa direbbe un uomo moderno se gli si facesse incontro un uomo come Orfeo? Direbbe: è il figlio del tal padre e della tale madre. La scienza moderna forse farebbe perfino delle ricerche sulle caratteristiche ereditate. Esiste già un grosso libro che mostra tutte le caratteristiche che Goethe avrebbe ereditato dai familiari, e vorrebbe cosí fare di Goethe la somma delle caratteristiche ereditate. Al tempo di Orfeo non si pensava cosí, non si considerava come essenziale l’uomo esteriore di carne e le sue particolarità; in Orfeo si considerava invece essenziale ciò per cui egli poté diventare l’inauguratore, la vera guida della civiltà greca precristiana, e si aveva chiaro che il cervello fisico, il sistema nervoso che in lui vivevano non erano l’essenziale. Si riteneva piuttosto come essenziale che egli portasse in sé, in quel che sperimentava, un elemento proveniente direttamente dai mondi sovrasensibili, e che tramite lui ci si incontrava, sulla scena costituita dalla sua personalità, con un elemento fisico-sensoriale. Il Greco non vedeva nella personalità di Orfeo l’elemento carnale derivante da padre e madre, forse anche dal nonno e dalla nonna; questo per lui era abbastanza secondario, era solo la manifestazione esteriore, l’involucro. L’essenziale per lui era ciò che derivava dal sovrasensibile e si incontrava con il sensibile sul piano fisico. Pertanto il Greco si diceva: quando ho Orfeo davanti a me, tengo in poco conto che egli discenda da un padre e da una madre; quel che considero è invece che la sua anima, attraverso cui è diventato qualcosa, deriva da un elemento sovrasensibile che mai ebbe a che fare con il piano fisico, e sul quale un elemento fisico-sensoriale poté agire unendosi ad esso nella sua persona, in virtú di come gli uomini erano fatti allora. Poiché i Greci vedevano in Orfeo come essenziale un elemento puramente sovrasensibile, dicevano di lui: discende da una Musa.

Nicola Filotesio «La Musa Calliope»

Nicola Filotesio «La Musa Calliope»

Egli era il figlio di una Musa, Calliope; non era solo il figlio di una madre carnale, ma di un elemento sovrasensibile senza alcun nesso con il sensibile.

Se egli fosse stato solo il figlio della Musa Calliope avrebbe potuto portare alla luce solo l’espressione del mondo sovrasensibile. Invece, in virtú del suo tempo, egli era anche chiamato ad esprimere quel che doveva giovare alla sfera fisica. Pertanto non era solo portavoce della Musa, di Calliope, come in precedenza i rishi erano stati i portavoce di forze sovrasensibili, ma viveva il sovrasensibile in modo che il mondo fisico avesse influenza sulla sua vita; discendeva dunque dal padre Eagro, il quale era una divinità fluviale tracica. Cosí quel che Orfeo annunciava era dall’altro lato legato e adatto al clima della Grecia, a ciò che qui costituiva la natura esterna della Grecia, alla divinità fluviale tracica Eagro.

Questo ci mostra come in Orfeo l’essenziale fosse visto in quel che viveva nella sua anima; conformemente si caratterizzavano un tempo gli uomini. Non li si caratterizzava come nei tempi successivi, quando si sarebbe detto: questo è figlio del tale, oppure: viene dalla tal città, bensí si caratterizzavano gli uomini a seconda della loro valenza spirituale. In Orfeo è oltremodo interessante vedere come venisse percepito intimamente il destino di un uomo che da un lato discendeva da una Musa e dall’altro da una divinità fluviale tracica. Una persona del genere non aveva accolto solo il sovrasensibile, come gli antichi profeti, ma già il sensibile. Era già esposto a tutti gli influssi che il mondo fisico-sensoriale esercita su di noi.

Sappiamo che l’uomo è costituito da diversi elementi: da quello inferiore, il corpo fisico, poi dall’ete­rico (del quale abbiamo detto che racchiude in sé l’altro sesso), dal corpo astrale e dall’Io. Un uomo come Orfeo da un lato vede ancora nel Mondo spirituale, poiché discende da una Musa, e adesso sappiamo che cosa significa questo. Tuttavia dall’altro lato le sue capacità di vivere nel Mondo spirituale sono minate proprio dalla vita sul piano fisico, dalla discendenza dal padre, dalla divinità fluviale tracica. Da ciò viene minata la sua vita puramente spirituale. In tutte le precedenti guide dell’umanità del secondo e terzo periodo di civiltà postatlantidea, nelle quali era presente solo un esprimersi dei mondi sovrasensibili tramite loro, accadeva che percepissero il loro corpo eterico in un certo senso separato dal corpo fisico. Se nelle civiltà dell’antica chiaroveggenza, ancora presso i Celti, l’uomo doveva percepire qualcosa da manifestare ai propri simili, ciò gli veniva palesato con la fuoriuscita del suo corpo eterico. Il corpo eterico era allora portatore delle forze che in esso si immettevano. Se i messaggeri erano uomini, e dunque i loro corpi eterici erano femminili, percepivano in forma femminile chi comunicava loro qualcosa dai mondi spirituali.

Si doveva prospettare che Orfeo, quando era in contatto solo con le forze dello Spirito, essendo già il figlio della divinità fluviale tracica, era esposto alla possibilità di non poter trattenere ciò che gli si manifestava tramite il suo corpo eterico. Quanto piú si immedesimava nel mondo fisico ed esprimeva ciò che era in quanto figlio di quella terra, tanto piú perdeva il suo patrimonio chiaroveggente. Ciò viene presentato dicendo che, a causa del morso di un serpente (ovvero da quel che è in lui l’elemento umano), gli viene strappata Euridice, la sua svelatrice, la sua sposa animica, e condotta via negli Inferi. Poteva riaverla solo attraverso un’Iniziazione che dovette poi portare a termine. Ovunque si parli di un passaggio agli Inferi, si intende un’Iniziazione. Cosí avrebbe potuto riottenere la sposa tramite un’Iniziazione, ma era già troppo saldamente intessuto con il mondo fisico. È vero che in realtà conseguí la capacità di scendere agli Inferi, ma quando risalí, quando scorse di nuovo la luce del giorno, Euridice gli sfuggí.

Jean-Baptiste Corot «Orfeo ed Euridice»

Jean-Baptiste Corot «Orfeo ed Euridice»

Perché? Poiché quando scorse la luce del giorno fece qualcosa che non doveva fare: guardare indietro. Vale a dire che trasgredí un ordine che gli era stato severamente impartito dal dio degli Inferi. Quale ordine? Che l’uomo fisico, quale oggi vive sul piano fisico, non deve guardare all’indietro, oltre il momento caratterizzato, là dove stanno le esperienze infantili macrocosmiche che, se penetrassero nella coscienza successiva, ridarebbero l’antica chiaroveggenza. Il dio degli Inferi dice: non ti è permesso di pretendere di scrutare davvero i misteri del­l’infanzia, di ricordarti dove si eleva la soglia. Siccome egli lo fece, perdette la facoltà della chiaroveggenza.

Con la perdita di Euridice si presenta in Orfeo qualcosa di molto sottile e intimo. È dunque solo una conseguenza del fatto che l’uomo diventa una vittima del mondo fisico. Egli è pervenuto a quel che dovrebbe diventare sul piano fisico con un’essenza ancora sostanzialmente radicata nel sovrasensibile. Per questo motivo irrompono in lui tutte le forze del piano fisico, ed egli perde Euridice, la sua anima innocente, che l’uomo moderno deve perdere; egli la perde. Le forze nelle quali viene poi trasferito lo dilaniano. Questo è allora una specie di sacrificio di Orfeo».

 

In altra occasione Rudolf Steiner riprese l’argomento e lo approfondí con ulteriori rivelazioni non solo su Orfeo, ma anche su Apollo (L’impulso-Cristo e la coscienza dell’Io, O.O. N° 116): «Durante il terzo periodo di cultura [egizio-caldaico] vi era in Europa una civiltà profondamente musicale; e l’animo di quei popoli, che in silenzio aspettavano ciò a cui sarebbero stati destinati nei successivi periodi, era in particolar modo ricettivo per gli effetti musicali. Questi effetti operavano sull’anima senziente. …L’anima senziente veniva preparata: in essa sarebbe dovuta sorgere la coscienza che, ad un gradino superiore, si sarebbe manifestata nell’anima cosciente come pensare logico. Tutta la coscienza proviene però dalle regioni della luce, come anche la musica e il canto.

Apollo, dio del Sole e della Musica

Apollo, dio del Sole e della Musica

…V’era un antichissimo Maestro nelle regioni europee: un antichissimo Maestro che, nel senso caratterizzato, era un Bardo, la guida di tutti gli antichi Bardi. Egli insegnava sul piano fisico mediante la musica, sicché attraverso le sue azioni qualcosa veniva comunicata all’anima senziente come se sorgesse e splendesse un sole. Ciò che di questo grande Maestro si è conservato nella tradizione esteriore, i Greci (influenzati dall’Oc­cidente per suo tramite come dall’Oriente per altre vie) lo hanno piú tardi raccolto nelle loro concezioni intorno ad Apollo; il quale è allo stesso tempo dio del Sole e della Musica.

Questa figura di Apollo ci riconduce però a quel grande Maestro della remota antichità che ha posto nell’anima umana la facoltà che oggi appare come pensare logico. Un discepolo di questo grande Maestro dell’umanità è altresí nominato dai Greci; un discepolo che, a dire il vero, è diventato tale in un modo del tutto particolare. Come si poteva diventare discepoli di questo essere? Questo essere, nei periodi in cui doveva operare nel modo su descritto, ovviamente non si annullava nella compagine umana, in quanto era piú di ciò che è l’uomo fisico sulla Terra. Un uomo con una comune anima senziente avrebbe potuto accogliere gli effetti musicali ma non li avrebbe potuti stimolare. Era discesa un’individualità superiore. E ciò che viveva all’esterno era soltanto parvenza.

Nella quarta epoca postatlantidea, la greco-latina, era necessario che questa individualità ridiscendesse, per cosí dire, fino al gradino dell’umanità e utilizzasse tutte le facoltà dell’uomo. Ma anche utilizzandone tutte le facoltà, non poteva discendere completamente.  …Negli effetti musicali era infatti già contemplato tutto ciò che è nell’anima cosciente. In quel periodo, tuttavia, ciò non poteva essere ancora presente in una individualità adatta soltanto all’anima affettiva.

Perciò questa individualità  …doveva incarnarsi nella quarta epoca in modo da colmare tutto l’uomo; però l’uomo che cosí viveva, possedeva in sé qualcosa che lo trascendeva. Sapeva qualcosa di un Mondo spirituale che non poteva utilizzare: aveva un’anima che trascendeva questo corpo.  …Questo genere di incarnazione viene quindi chiamata “progenie di Apollo”.  …Il mito greco ha fissato in modo meraviglioso questa meravigliosa tragicità interiore, che è la reincarnazione di una grande individualità di maestro del passato, nel nome che è stato dato all’Apollo reincarnato o al “figlio di Apollo”: Orfeo. Nel mito di Orfeo ed Euridice questa tragicità dell’anima viene rappresentata in maniera meravigliosa. Euridice viene presto strappata ad Orfeo. È in un altro mondo. Orfeo discende nel regno delle ombre. Egli ha ancora la facoltà di commuovere gli esseri nel regno dei morti con la sua musica.

Ivan Akimov «Chronos»

Ivan Akimov «Chronos»

Ottiene il permesso di riprendere con sé Euridice, ma non deve voltarsi, perché se guarda indietro verso ciò che egli è stato e verso ciò che non può accogliere in sé, la visione lo devasterebbe interiormente, o per lo meno gli arrecherebbe danno.

Apollo che diventa Orfeo rappresenta di nuovo una sorta di discesa di un Bodhisattva  …che diventa un Buddha.  …Il Bodhisattva, esteriormente presentato con il nome di Apollo, sperimenta qualcosa di individuale; egli doveva, infatti, preparare proprio l’individualità, la proprietà di essere un Io. Egli sperimenta la tragicità dell’Io, sperimentando che l’Io non è del tutto presente a se stesso come, appunto, lo sono gli uomini rispetto a questa facoltà umana. L’uomo tende verso l’alto, verso l’Io superiore. Questa tendenza è prefigurata da Orfeo».

 

La dottrina teogonica e cosmogonica dell’Orfismo

 

Secondo la dottrina cosmogonica dell’Orfismo, il principio originario è Chronos, che genera l’Etere, attorno al quale sta una grande voragine. Nell’Etere, Chronos genera un uovo splendente, dal quale nasce Fanes (in greco Phanes, “luce”), un essere androginico, che crea il cielo, la terra e la Notte, sua sposa, che gli dona due figli, Urano e Gea, dai quali nasceranno gli dèi.

In molti luoghi Orfeo definisce Fanes “l’unigenito figlio di Dio”, perché, eterno e invisibile, pervade tutto con la sua luce.

Fanes viene anche chiamato Protogonos (“il primo nato”) ed Erikepalos (“donatore di vita”).

 

L’escatologia e la morale

 

L’uomo, nella concezione orfica, è composto da una parte celeste, l’anima, che è immortale, ma anche da un corpo, che gli Orfici considerano una prigione, come av­viene nel Pitagorismo.

Egli, dunque, deve attendere la liberazione da questa prigione, in modo da vivere dopo la morte nei campi fioriti dei Beati – assimilabili ai Campi Elisi – dove si nutrirà di nettare e di ambrosia, il cibo e la bevanda degli dèi, e potrà godere di uno stato di celeste ebbrezza e di beatitudine.

Per conseguire tale premio, tuttavia, l’orfico deve adempiere a una certa condotta morale quotidiana, fondata sull’osservanza di numerose e precise prescrizioni.

L’adepto doveva astenersi da ogni azione empia e impura e agire sempre con rettitudine, senza trasgredire i princípi fondamentali della morale antica, quale era per esempio il precetto del “non uccidere”.

Per questa ragione erano vegetariani e non indossavano neppure vesti di lana, che dagli animali pro­venivano, perché credendo, come i Pitagorici, nella trasmigrazione delle anime, pensavano che avrebbero potuto uccidere o tosare un antico essere umano, trasmigrato nell’animale. La trasmigrazione era necessaria per gli Orfici, perché la perfetta purificazione non poteva essere compiuta nell’arco di una sola vita, ma di diverse esistenze.

Indossavano inoltre una veste bianca e dovevano evitare il contatto con i morti e con le tombe, ma anche con le donne incinte e con tutto ciò che era inerente al parto. La purificazione avveniva anche partecipando a pratiche rituali. Platone (Leggi, IX 870 D-E) riferisce che le dottrine piú segrete del­l’Orfismo, come la teoria della trasmigrazione delle anime, veniva comunicata durante i riti misterici.

Gli adepti dell’Orfismo vivevano in comunità, soprattutto in Magna Grecia, che probabilmente si isolavano dal contesto civile, e ugualmente venivano sepolti in spazi a loro dedicati, per non inficiare quella purezza che avevano raggiunto nel corso della vita.

La loro preoccupazione per il dopo-morte si evince da alcune “laminette” d’oro, di pochi centimetri, che si usava appendere al collo dei defunti o vicino a essi, sulle quali erano scritti versi che attestavano la fede degli adepti e la loro fiducia nella ricompensa dopo la morte, in quanto orfici e dunque “puri”. Queste tombe, del IV-III sec. a. C., sono state ritrovate a Roma, a Creta, ma soprattutto in Magna Grecia.

Su di esse veniva indicata anche la via da seguire nell’Aldilà per evitare pericoli e percorsi errati:

 

«Troverai sulla sinistra della casa di Ade una fonte

e accanto a essa un cipresso bianco che si drizza,

a questa fonte non avvicinarti troppo.

Ne troverai un’altra, dalla palude di Mnemosine,

fredda acqua dalla forte corrente; dinanzi stanno i custodi.

Di’ loro: “Della terra sono figlio e di Urano stellato,

la mia stirpe è dunque celeste; ma questo sapete anche voi.

Io sono ardente di sete, e muoio; ma datemi presto

la fredda acqua che scorre impetuosa dalla palude di Mnemosine”.

Essi te la daranno da bere dalla fonte divina,

e allora insieme ad altri eroi tu salirai in alto».

 

Mnemosine, figlia di Urano e di Gea era, secondo il mito, la personificazione della memoria e madre delle nove Muse, che aveva generato unendosi a Zeus per nove notti.

A Turi, in Lucania, il defunto proclama la purezza della propria anima e per questo chiede la ricompensa a Persefone:

 

«Io provengo pura dai puri, o regina degli inferi,

Eucle ed Eubuleo e tutti voi, altri dèi e demoni;

giacché io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe felice.

Ho scontato la pena per atti non giusti

e la Moira mi ha abbattuto, o lo splendore dei fulmini.

Ma ora vengo supplice presso Persefone gloriosa,

perché benigna mi mandi nella sede dei puri».

 

La dottrina della trasmigrazione include l’idea del karma, che ogni essere umano produce in senso negativo o positivo, inficiando la propria anima o creando per essa meriti che daranno i loro frutti in vite future. E che ciò fosse chiaro agli adepti dell’Orfismo è evidente da quanto dichiara il defunto dell’antica Turi: «Ho scontato la pena per atti non giusti»; frase che si può riferire sia ad azioni non corrette da lui commesse nel corso della vita, sia al fatto di appartenere al genere umano, che in sé porta il “peccato originale” di non essere piú innocente, come quando dipendeva completamente dal Mondo spirituale e da esso si lasciava docilmente guidare, ma di essersi distaccato da esso e di poter scegliere fra il bene e il male.

Solo cosí tuttavia aveva conquistato la propria libertà e la possibilità di diventare un individuo: un Io.

Le responsabilità che l’uomo deve assumersi sono pesanti, ma solo se le accetterà, si creerà, in un giorno ancora molto lontano, la Decima Gerarchia “della Libertà e dell’Amore”, che è il compito assegnato all’umanità dal Mondo spirituale, ma è anche la mèta altissima del suo Destino.

È una grande sfida, da affrontare con umiltà infinita, ma che non si può rifiutare, se si vuole esser degni del nome di Uomini.

 

Alda Gallerano