Il Maestro e Margherita, celebre romanzo dello scrittore russo Michaíl Bulgàkov, si apre con una scena molto suggestiva. A Mosca, in un parco detto gli Stagni Patriarchi, nell’«ora di un caldo tramonto primaverile», un critico letterario e un poeta, entrambi atei, discutono sulla storicità di Gesú. Per il critico Berlëz, Gesú non è mai esistito: la sua nascita e la sua morte sono solo un racconto leggendario, la storicizzazione di due motivi mitici assai comuni nelle culture del Mediterraneo e del Vicino Oriente: il motivo della vergine che partorisce (Iside) e quello del dio-natura che muore e risorge: «Prima di Gesú è nata una schiera di figli di Dio, come per esempio il fenicio Adone, il frigio Attis, il persiano Mitra. Insomma, nessuno di loro è mai nato né esistito, e nemmeno Gesú» (M. Bulgàkov – Ed. Garzanti, Milano 1982).
Il discorso è la gustosa occasione per un buffo signore straniero di introdursi fra i due letterati: è messer Woland, un professore di magia nera, ma in realtà Mefistofele. Non si tratta però del Mefistofele menzognero e distruttivo, ovvero ahrimanico, ma dell’angelo oscuro del bene, insomma di Lucifero, maestro di incantesimi. Non a caso il romanzo reca nel frontespizio la citazione goethiana: «Io sono una parte di quella forza che eternamente vuole il male e che eternamente compie il bene». Armato di questi propositi, messer Woland depone per l’esistenza storica di Gesú («È esistito e basta») e narra parte della Passione, precisamente la condanna a opera di Pilato proprio come la visse il procuratore romano, perché in realtà Woland – viene detto da Bulgàkov – era con Ponzio Pilato. Messer Woland sconfessa la convinzione di Berlëz, perché è sceso sulla Terra con lo scopo di rimediare al suo antico errore e di salvare Pilato.
Il redattore Berlëz è un materialista che si attiene alla concretezza dei fatti, ma proprio dalla stupida fattualità delle cose sarà tradito. Non immagina che proprio mentre egli nega la realtà storica del Cristo risorto, a pochi passi dagli Stagni Patriarchi la comare Annuška fa cadere incautamente una bottiglia d’olio sulla rotaia del tram. Cosí che quando Berlëz, poco dopo, l’attraversa, il tram non riesce a frenare e lo travolge. Nei fatti – questa è la lezione di Bulgàkov – c’è sempre un contenuto imprevedibile, un potenziale ignoto non recludibile nelle rigide categorie umane; nei fatti umani, anche nei piú ciechi, c’è sempre il segno della trama dell’Io: la premessa della resurrezione. Dato questo contenuto, per comprendere i fatti occorre spregiudicatezza, soprattutto di fronte a eventi come la morte. A maggior ragione per fatti straordinari come la Resurrezione del Cristo.
Oggi la teologia e la critica neotestamentaria fanno lo stesso ragionamento del redattore Berlëz: troppo spesso si accostano alla vicenda del Cristo con argomenti razionali che sottraggono all’evento del Golgotha la sua carica mitica e spirituale, riducendolo a un puro fatto umano, recluso nei limiti della storia e spiegabile esclusivamente con le leggi terrene della filologia, dell’ermeneutica, dell’esegesi.
La Resurrezione è un evento grandioso e come tale può essere compreso da piú punti di vista. Ma in ogni caso resta l’evento fondante del cristianesimo, perché senza il Risorto il messaggio cristiano sarebbe soltanto una predicazione morale ispirata alla tolleranza o alla solidarietà umana, ma non ci darebbe la forza di trasformare il nostro karma con il dono dell’Io e di redimere un giorno la Terra fino a farla diventare il Cosmo dell’Amore.
Viste nel contesto del I secolo, la Passione e la Resurrezione assumono significati complementari a seconda che le si osservi dai due versanti della Rivelazione antica: dal mondo pagano degli Iniziati e dei Magi, oppure dal mondo ebraico dei Giusti e dei pastori – insomma dal mondo dei Misteri mediterranei oppure dal mondo della mistica profetica d’Israele. Il Cristo è venuto per entrambi questi mondi, e da entrambi – nei secoli precedenti alla sua venuta – era stato presagito e visto. Lo avevano contemplato i grandi profeti ebrei annunciatori del Messia, come Isaia, che lo aveva veduto sotto forma di Serafino dalle sei ali infuocate, lo aveva visto Ezechiele sotto forma di Trono di Dio, ma lo avevano anche presentito gli Iniziati dei Misteri sotto forma di divinità solare che, come l’egizio Osiride, scendeva sulla Terra per morire e per risorgere.
Morte e rinascita nei culti solari e nei Misteri. La storia delle religioni (in particolare l’opera di Mircea Eliade) insegna che le piú antiche civiltà veneravano come essere supremo il dio Cielo, le divinità uraniche (da ouranos, cielo): gli sciamani siberiani e gli eschimesi veneravano il dio Cielo con diversi nomi, i Mongoli lo chiamavano Tingri, i Cinesi T’ien, i Sumeri Anu, gli Egizi Rā, che era il dio trascendente dell’universo, padre di Shu, il cielo illuminato, gli Indiani lo denominavano Dyaus, i Greci Zeus, i Latini Jupiter, i Germani Tyr, perfino gli Ebrei davano inizialmente a Yhwh alcuni attributi celesti.
Dopo questa prima fase, nelle diverse civiltà, anche se in diversi momenti temporali, il dio Cielo divenne un deus otiosus, un dio inattivo, e cedette il passo a un dio fecondatore o atmosferico, dotato di caratteristiche solari. Cosí al dio sumerico Anu subentrò il dio solare Marduk, al dio egizio Rā succedette Rā-Osiride nella sua qualità di dio solare che muore e risorge, al greco Zeus fece seguito Apollo.
Perché avvenne questa sostituzione degli dèi celesti con gli dèi solari? Perché, con la crisi della religiosità arcaica, le guide spirituali dell’antico Egitto, di Babilonia, della Grecia presentirono in modo graduale e ricorrente il mutamento che si verificava sul piano spirituale: si accostava alla Terra la forza solare del Cristo, che donava all’uomo il superamento della natura mortale e la resurrezione di una natura immortale. Gli antichi seguaci del culto di Osiride descrissero questa forza trasmutatrice come il tramontare e il sorgere del Sole: nel Nuovo Regno egizio (1550-1295 a.C.), per esempio, Osiride divenne il giudice dei morti e il patrono della resurrezione: al suo seguito, nel Campo dei Giunchi, rinasceva felicemente il ka, il corpo eterico del defunto, dopo la “pesatura dell’anima” (psicostasia).
Nel quarto periodo post-atlantideo, precisamente nel periodo ellenistico, ci fu una nuova svolta epocale, prima dell’evento del Golgotha. Stanche della ritualità pagana ormai spenta, le anime rinunciarono alla salvezza collettiva espressa dalla religiosità della polis e della respublica e si appellarono in Grecia e a Roma alla ricerca della salvezza individuale (sotería), soprattutto in vista della sopravvivenza dell’anima dopo la morte, in modo da sfuggire sia all’Ade tenebroso sia al ciclo delle rinascite.
La civiltà ellenistica batté due vie per cercare la salvezza individuale: da un lato, l’uomo fece ricorso alle filosofie dell’interiorità e dell’autocontrollo, come l’epicureismo, che insegnava il distacco dalle passioni (atarassia) e il lathe biosas («vivi nascosto»), oppure come lo stoicismo, che, considerando l’uomo come una scintilla del fuoco eterno, un portatore della ragione universale (logos), predicava l’apatia, il substine et abstine, «sopporta e astieniti (dal desiderio)» (Epitteto).
Dall’altro, invece, la ricerca della salvezza individuale seguí la via dei culti misterici di origine orientale. I misteri di Adone, di Attis, di Iside, di Mithra – sorti in Frigia, in Egitto, in Iran – riecheggiando per lo piú la chiaroveggenza atavica, si proponevano di ricondurre l’uomo alla patria spirituale perduta, inducendo l’anima a scendere misticamente dentro di sé. Nel corso delle cerimonie misteriche, che rileggevano in chiave individuale l’antica mitologia della vegetazione legata al morire e al rinascere, l’iniziando riviveva il dolore dell’anima che si era distaccata dalla patria celeste rinascendo quaggiú (sôma = sêma) e sperimentava la morte della natura umana – in cui però già albeggiava la forza del pensare – per rivivere in uno stato modificato di coscienza, dunque durante l’estasi per lo piú favorita da sostanze allucinogene, l’antica unione con il Mondo spirituale. Basta rileggere come Platone nella Repubblica e nelle Leggi critica le purificazioni rituali dei Misteri! In queste cerimonie il mito di morte e resurrezione era una metafora della caduta dell’anima umana, che aveva perduto l’innocenza e la veggenza primordiali: ora quest’anima aspirava al ritorno, aveva nostalgia delle origini. Si affidava all’Iniziazione perché in essa vedeva il sentiero aperto da un dio, che dopo essere caduto era risorto ed era divenuto immortale. Le religioni misteriosofiche sono state l’ultima voce che Lucifero, l’angelo oscuro del bene, ha lanciato all’anima umana prima dell’avvento del Cristo.
La sfiducia verso le religioni tradizionali della Grecia e di Roma, assieme all’ansia di acquisire la salvezza individuale, prepararono l’humus all’avvento del Cristo, in quanto i Misteri diedero all’uomo, attraverso l’esperienza estatica del morire e del rinascere, la certezza dell’immortalità dell’anima. Il mito eleusino racconta che Plutone, re dell’Ade, rapisce Persefone, figlia di Demètra, e la porta con sé negli Inferi. Ma la madre Demètra ritrova la figlia e la reclama. Infine, per volere degli dèi, fu deciso che Persefone trascorresse un terzo dell’anno nell’Ade e due terzi sulla terra. Questo discendere e risalire di Persefone nel mito eleusino – spiega Rudolf Steiner nel Cristianesimo quale fatto mistico (O.O. N° 8) – allude alla vicenda dell’anima: «Quello che alternativamente dimora nel mondo inferiore e in quello superiore è l’anima. Nelle immagini del mito si esprimono l’eternità dell’anima e la sua eterna metamorfosi, attraverso nascita e morte. …Le celebrazioni eleusine erano un’eloquente professione di fede nell’immortalità dell’anima, e questa professione di fede si esprimeva figurativamente nel mito di Persefone».
Cogliendo la dimensione dell’immortalità dell’anima, i Misteri presentirono anche l’evento di morte e Resurrezione che si compí sul Golgotha. In Cristo e il mondo spirituale Rudolf Steiner sostiene che lo spirito del Cristo, accostandosi alla Terra attraverso l’anima del Gesú natanico, ispirò ogni volta dalle lontananze spirituali un particolare approccio con il Divino: nell’epoca iranica fu la forza del Tempo come Tutto, nell’epoca egizio-semitica fu l’armonia celeste dei pianeti, che diede vita al culto degli dèi uranici, nell’epoca greco-latina animò il culto delle divinità solari come Apollo o degli dèi fecondatori come Adone e Attis, emblemi del processo di morte e rinascita (Lipsia 1913 – O.O. N° 149).
L’esperienza misterica – specialmente secondo gli antichi Misteri eleusini e orfico-pitagorici – consentiva infatti al grado dell’epoptèia la lontana visione del Cristo (Cristo e l’anima umana, Norrköping 1914 – O.O. N° 155). L’anima che durante l’iniziazione si distaccava dal mondo dei sensi e lasciava imprimere sul corpo eterico le forze purificate dell’astrale, veniva premiata con l’acquisizione dell’immortalità dopo la morte, ma come effetto del rinnovamento interiore le veniva concessa già sulla Terra, dal mondo delle Gerarchie, la precoce visione del Cristo disincarnato, che concretamente avrebbe sperimentato la morte e la Resurrezione.
Il padre della Chiesa Clemente Alessandrino (Stromata, V, 11) racconta che, durante il rito eleusino, il candidato all’epoptèia viaggiava bendato nell’oscurità e vedeva ciò che il Divino non è, contemplava poi forse alcune statue, quindi si spogliava della phrònesis, dell’attività del pensiero umano: sperimentava cosí la morte interiore. A quel punto però un mistagogo toglieva la benda al candidato e questi vedeva una luce, che era chiamata l’“Illuminatore perfetto”, ma che in realtà era una spiga di grano: era il simbolo della luce che era stata seminata alla nascita nell’essere umano e che ora dava i suoi frutti grazie all’Iniziazione (V. Magnien, Les mystères d’Éleusis, Parigi 1929). Gli Iniziati dei Misteri eleusini contemplavano cosí il principio dell’anima immortale che risorge dalla natura mortale: il principio dell’Io.
Al mondo dei Misteri fa riferimento il Cristo quando in Gv 12, 24-25 parla con alcuni Greci che erano giunti a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Questi Greci – probabilmente Greci convertiti all’ebraismo – avvicinano i due discepoli Filippo e Andrea (che hanno nomi greci) per vedere Gesú. E il Cristo parla loro direttamente della sua missione ultima: parla dell’imminente compimento del principio “muori e risorgi”, secondo il linguaggio dei Misteri: «È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama (philōn) la sua vita (psyché) la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la Vita eterna (zoèn aiōnion)». La religione dei Misteri aveva visto da lontano l’incarnazione del Cristo quasi leggendola in uno specchio. E la vide fino al I secolo, che fu un’epoca molto densa di aspettazioni messianiche: non solo Israele attendeva il Messia che lo liberasse dal predominio romano, ma tutto il mondo dei Misteri mediterranei era in fermento, perché sapeva di vivere un momento epocale. Sotto il regno dell’imperatore Augusto, promotore del «grande ordine dei secoli» (magnus ordo saeclorum), della nuova età dell’oro inaugurata da Apollo, ci fu chi avvertí l’imminente svolta dei tempi: fu il poeta latino Virgilio, di fede pitagorica, che nella IV egloga delle Bucoliche scrisse:
«Già viene l’ultima età prevista dalla Sibilla cumana,
comincia di nuovo il grande ordine dei secoli;
torna la Giustizia, torna l’età dell’oro,
una nuova umanità discende dall’alto dei cieli.
…l’età del ferro finirà, e in tutto il mondo
sorgerà l’età dell’oro. Già regna Apollo».
I culti misterici erano grandi atti liturgici che venivano rappresentati su uno scenario cosmico: proprio perché il miste (l’Iniziato) si identificava con la natura che muore e risorge, questi culti venivano celebrati all’equinozio di primavera, al risorgere della natura, come i piccoli Misteri eleusini (con il Sole in Ariete) o il culto di Attis (15-27 marzo), oppure in autunno, quando la natura muore, come i grandi Misteri eleusini e il culto di Adone. I pagani contemplavano insomma il processo di morte e rinascita nel cosmo, si accordavano con il suo ritmo annuale e lo interiorizzavano come processo salvifico interiore. Lo vivevano dapprima sul piano immaginativo e astrale, poi, grazie all’Iniziazione, lo vivevano nella dimensione eterica.
Nel mondo dei Misteri la morte e la resurrezione vissute dagli Iniziati erano simboliche, al contrario, nella vicenda del Cristo non c’è piú spazio per le metafore o le simbologie: qui il mito e la leggenda si fanno storia. La morte e la resurrezione simboliche delle divinità mediterranee si fanno in Cristo morte e Resurrezione concrete. Come concreti sono del resto i fatti narrati dai Vangeli, anche quando rispondono a modelli mitici o misterici, come la resurrezione del figlio della vedova di Nain o quella di Lazzaro.
Rudolf Steiner dice: «Quello che per secoli e millenni si era svolto nel segreto dei templi, ossia il passaggio attraverso la morte mistica nell’Iniziazione, dovette ora svolgersi sulla grande scena della storia del mondo. Tutto quanto si era compiuto segretamente nelle sedi delle Iniziazioni, uscí alla luce del giorno e si palesò nell’evento del Golgotha, unico nella storia. …L’evento del Golgotha è un’Iniziazione trasportata sul piano della storia» (Vangelo di Luca – O.O. N° 114).
Morte ed esaltazione nella tradizione ebraica. Ma se guardassimo all’evento di Pasqua soltanto da questa prospettiva, se riducessimo la Resurrezione a una pura attuazione delle aspettative escatologiche dei Misteri, faremmo un po’ l’errore del redattore Berlëz, che vuole spiegare la morte e Resurrezione del Cristo soltanto con la “scopiazzatura” cristiana dell’ideale di morte e rinascita nutrito dai Misteri pagani.
Quest’argomentazione fu sviluppata in Germania ai tempi di Steiner da alcuni storici delle religioni come Wilhelm Bousset (1865-1920), Hermann Gunkel (1862-1932) e Richard Reizenstein (1861-1931). Quest’ultimo, nel libro Le religioni ellenistiche dei Misteri (Die hellenistischen Mysterienreligionen) (1910; 1927), sostenne che l’antica religione iranica aveva influenzato la misteriosofia ellenistica e che questa aveva agito sul cristianesimo. Ma il tema della connessione fra cristianesimo e Misteri si rivelò nel ’900 un’arma a doppio taglio, perché fu utilizzato dalla corrente cattolica modernista, in particolare da Alfred Loisy (Les mystères païens et le mystère chrétien, 1930; Le origini del cristianesimo, 1933; 1964), per sostenere che il cristianesimo, ellenizzandosi, aveva contratto con il paganesimo un grosso debito, la misteriosofia, la quale era sopravvissuta nei Misteri. Molta di questa eredità è stata raccolta dal teologo luterano Rudolf Bultmann (1884-1976), promotore del metodo ermeneutico della demitizzazione.
Oltre alle connessioni con il mondo dei Misteri ellenistici, l’evento del Golgotha ha un altro valore, profondamente radicato nella tradizione ebraica, soprattutto nella tradizione mistica della quale fu portatore nella prima comunità cristiana il “discepolo che Gesú amava”, Giovanni.
Il popolo d’Israele vedeva il processo di morte e rinascita non nel cosmo, ma nella storia: lo concepiva e lo sentiva come una “festa di liberazione”, il ricordo della liberazione dalla schiavitú dell’Egitto, il ricordo dell’Alleanza. In realtà originariamente anche per le genti semitiche la festa di Pasqua era una festa pastorale della primavera, ma per gli Ebrei divenne la commemorazione del passaggio del Mar Rosso. Perché? Perché la storia sacra, i grandi eventi della storia ebraica sono spesso frutto di un processo di demitizzazione, nel senso che ciò che nelle grandi civiltà precedenti Israele, nelle tradizioni religiose pre-israelitiche, era stato visto e contemplato come mito, nella storia d’Israele esso diviene fatto storico, s’incarna sul piano della realtà, si storicizza.
Riprendendo ciò che scrive Mircea Eliade in Storia delle credenze e delle idee religiose (Editrice Sansoni, Firenze 1979), ciò che per altri popoli è mito, per Israele è storia, come già riportato in: www.larchetipo.com/2020/01/spiritualita/conoscere-i-vangeli-8/. La trasformazione delle strutture religiose di tipo cosmico in accadimenti della storia sacra è caratteristica del monoteismo yahawista e verrà ripresa e portata avanti dal cristianesimo».
Ciò che i Misteri concepivano nel cosmo, Israele lo trasferisce nella storia, lo vive come ricordo del momento storico in cui si manifestò lo spirito di popolo, lo vive come rinnovamento dell’Alleanza fra il popolo e Dio. Se l’Alleanza è un patto, un accordo, i Misteri accordavano l’uomo con la presenza del Divino nel cosmo, Israele lo accordava con la presenza del Divino nella storia e nel popolo, invece il Cristo realizza quest’Alleanza accordando Dio con ogni uomo.
Dice Steiner: «L’evento del Cristo è un fatto storico: in esso si è compiuto come fatto storico ciò che prima era stato processo misterico» (Il Vangelo di Marco – O.O. N° 139).
Il sacrificio dell’Agnello. «Il giorno dopo, Giovanni vedendo Gesú venire verso di lui disse: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo! Ecco colui del quale io dissi: dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele”» (Gv 1, 29-31).
Al suo primo rivelarsi, il Cristo viene annunciato da Giovanni Battista attraverso la metafora dell’Agnello. L’agnello era per gli antichi Ebrei l’animale principale dei sacrifici. La Bibbia lo nomina per la prima volta nel Genesi (22, 7-8), quando «Isacco chiese al padre Abramo: “Dov’è l’agnello per l’olocausto?”, Abramo rispose: “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”».
Nel contesto vetero-testamentario l’agnello acquista però il suo autentico simbolismo nel capitolo 2 dell’Esodo, quando il Signore dice a Mosè che ogni famiglia dovrà celebrare la Pasqua con un agnello e dovrà ungere gli stipiti della propria casa con il sangue dell’agnello, perché esso risparmierà quella casa dalla punizione di Dio: il sangue dell’agnello scaccerà la morte dalla casa degli Ebrei, che erano schiavi degli Egizi. L’agnello era dunque per gli Ebrei il grande simbolo della Pasqua, della liberazione dalla schiavitú, della salvezza che conduceva verso un libero destino: un simbolo di sacrificio e di salvezza, di morte e di rinascita.
Giovanni Battista chiama il Cristo con il titolo «Agnello di Dio», perché gli ambienti mistici dell’ebraismo del I secolo avevano presentito l’avvento del Messia sotto questa forma. Nel Testamento di Giuseppe (xix, 8) compreso nel Testamento dei xii patriarchi – un testo apocrifo giunto purtroppo a noi attraverso una redazione cristiana – si parla di un agnello che vince le bestie malvagie e le schiaccia sotto i piedi. Anche in due antichi scritti giudaici (Tosephta-Targum a 1 Sam 17, 43; Targum Jonathan a 2 Sam 23, 8) ricompare la speranza messianica dell’Agnello: in un canto aramaico Goliath è chiamato orso o leone, mentre Davide è chiamato agnello (E. von Staalduine-Sulman, “The Aramaic Song of the Lamb”, in Verse in Ancient Near Eastern Prose, a cura di J.C. de Moor e W.G.E. Watson, Neukirchen–Vluyn 1993).
Il Cristo realizzerà sulla sua persona il simbolo del sacrificio pasquale, il simbolo del liberatore atteso dai mistici. L’“Agnello di Dio” visto dal Battista era il Figlio dell’Uomo destinato a morire e a essere esaltato. Egli si presenterà come Agnello innocente perché prenderà su di sé il karma di Israele, che, in quanto popolo di Dio, contiene il karma stesso dell’umanità. Per questo l’apostolo Paolo dirà nella prima lettera ai Corinzi (5, 7): «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato». Cfr. I Pt 1, 18-19: «foste liberati …con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia». Gli Atti, non i Vangeli, riportano invece la citazione di Isaia (53) dell’«agnello condotto al macello»: immolato come un agnello.
La Passione secondo il Vangelo di Giovanni è tutta intrisa del simbolismo della Pasqua. Il simbolo si fa carne quando il Cristo è condannato a morte a mezzogiorno della vigilia della Pasqua, nello stesso momento in cui i sacerdoti cominciano a sacrificare gli agnelli pasquali nel Tempio. Il simbolismo si fa ancora carne quando Gesú è sulla croce e gli viene porta una spugna imbevuta d’aceto su un ramo di issopo (Gv 19, 29); ora, proprio l’issopo venne intinto nel sangue dell’agnello per aspergere gli stipiti delle porte delle case ebraiche sotto il dominio egizio (Es 12, 22). Il simbolo si fa nuovamente carne appena dopo la morte. Scrive infatti Gv 19, 33-36: «Venuti però da Gesú e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpí il fianco con la lancia e subito ne uscí sangue e acqua. …Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: “Non gli sarà spezzato alcun osso” (Es 12, 46)».
Il Vangelo di Giovanni dimostra che il Cristo è l’Agnello divino, la figura spirituale attesa in Israele perché dia la salvezza agli uomini attraverso il sacrificio. Nell’arte paleocristiana di Occidente, fino al 692 (Concilio Quinisesto), il Cristo fu di frequente raffigurato sotto forma di innocente Agnello, un agnellino additato dal Battista.
Gabriele Burrini (9. continua)