Con il verbo tacere esprimiamo tre modalità di azione molto diverse tra loro.
La prima riguarda il tacere per soggezione, per ignoranza, o per un vago senso di inutilità: «Che parlo a fare; tanto non mi ascoltano, non mi capiscono…».
Il secondo è un tacere provocato dall’opportunismo: «Qui è meglio star zitti. Non voglio seccature, non vado in cerca di guai. Tengo famiglia».
Il terzo tacere è un evento dell’anima, allorquando intuisce che attuare il suo silenzio è una porta che si apre sui Mondi dello Spirito.
Di quest’ ultimo ho voluto scrivere nelle pagine che seguono. In qualche punto non ci sono riuscito adeguatamente: il bisogno di confrontare il silenzio dell’anima con gli altri motivi del tacere, in alcuni casi fa perdere di vista il tema conduttore. Ma si può sempre riprendere. Per proseguire.
Verba volant, scripta manent. Possibilmente, aggiungerei anche tacita dicunt. Mi sembra importante. Quel che non viene proferito, quel che rimane sottaciuto, è talvolta piú indicativo di tante esplicitazioni; intendo le affermazioni sostanziali, le frasi sintomatiche divenute proverbiali e spesso inanellate nei discorsi comuni, comode perché trovate bell’e pronte per l’uso, con tanto di ipse dixit a riferimento, il che equivale alle griffe dei marchi alla moda.
Oltre agli esseri umani, anche le cose inanimate parlano? Certo. Ma per sentire quel che dicono bisogna avere un udito speciale, che non può nascere e svilupparsi in mezzo al caos, al frastuono, alla baraonda. Prima è bene imparare a tacere, a imporsi un silenzio interiore, ad apprezzarlo, e in seguito, grazie alla conquistata dimensione di calma, molte cose che prima non si potevano udire, cominciano ad affiorare, si presentano con una loro voce.
La situazione di baccano predomina in modo netto. Non parlo solo di rumori “esterni”, per quanto invadenti e molesti; intendo soprattutto il mixeraggio caotizzato tra pensare sentire e volere che ognuno si porta dentro e che qualche volta giunge al punto di deflagrazione. Quanto proviene dal mondo subumano delle discoteche, dall’accavallarsi di strombazzate a tutto spiano, rese ancora piú volgari da demoni improvvisatisi D.J., diventa emblematico; potrebbe essere l’effetto di un’alienazione psicopatica di massa, alla quale – dicono alcuni esperti – non è bene attribuire troppo peso; sembra riguardare un’esigua parte di noi. Ma, aggiungo io, se la parte maggiore continuerà solo a subire senza porre rimedio, anzi, senza neppure porsi il problema di doverlo cercare subito, allora noi stiamo peggio degli habitué che si contorcono nelle balere al ritmo sfrenato di stati emozionali procurati per vie alternative, le quali, prima di uccidere i corpi, hanno già ucciso le anime.
Cronache e notiziari non si risparmiano nel tentativo di fornircene i dettagli, dando ad essi un’ampiezza e una risonanza sulle quali sarebbe da discutere, se ogni discussione in merito non diventasse a sua volta un prolungamento del guasto in corso.
Tacere è quindi un bene. Il silenzio è un bene. Un tempo sarebbero stati in molti a crederlo, ma in un’epoca come questa, in cui tutto sembra volersi muovere come un tornado, capriccioso e micidiale, anche una innocente giostra per bambini, con i suoi jingle, potrebbe configurarsi come un’aggravante. È sempre l’ultima goccia quella che fa traboccare il vaso.
L’uomo è fatto cosí. Pure lui, in un certo senso, è un vaso da riempire, tutto sta a vedere se si riempie da sé o si fa riempire da altro. Si pone domande, vuole risposte, ma le risposte gli devono essere chiare, simpatiche, congeniali, altrimenti finisce per perdere la pazienza e prima ancora l’attenzione. Cosa direbbe oggi un soldato in procinto di essere inviato in missione in una delle zone calde del pianeta, se si sentisse profetare, come accadde al soldato che si era recato dalla Sibilla Cumana, la celebre frase: «Ibis redibis numquam morieris in bello»? Tale frase può essere interpretata con: “Andrai, ritornerai, mai perirai in guerra”, ma anche: “Andrai, ritornerai mai, perirai in guerra». La sua reazione verso l’indovino impostore come minimo sarebbe di riprendersi il maltolto compenso, cosa non fattibile oggi se l’oracolazione si svolgesse via internet, il che dimostra quanto sia cambiato il mondo dall’epoca in cui l’ingenuità, ancora genuina, si proteggeva da sé e l’ambiguità delle sibille non era motivo di scandalo.
Ricordo di un Maestro spirituale, alto, magro, cieco, avvolto in una specie di lenzuolo bianco, con in mano un lungo bastone, il quale camminava spedito e tranquillo a grandi passi per sentieri di montagna impervi e sconnessi, lungo cenge e burroni, tali da impensierire anche uno scalatore provetto. A fatica un discepolo gli arrancava dietro, quasi senza fiato per l’ardua salita; eppure era un baldo giovanotto, prestante, robusto, che, oltretutto, ci vedeva benissimo. Lungo il cammino, tra una fiatata e l’altra, il discepolo aveva piú volte posto delle domande al Maestro, ma non aveva ottenuto altro che un persistente silenzio.
Alla fine, forse anche per riposarsi un momento e riprendere respiro, il giovane, perso un po’ di rispetto per il guru, gli gridò spazientito la sua protesta: «Io ti parlo, ti parlo, ti faccio delle domande, ma tu non mi rispondi mai! Stai sempre in silenzio. Che razza di Maestro sei?».
Al che, continuando nella salita scoscesa, l’altro rispose: «Anche Buddha stette in silenzio per quarant’anni davanti ad un muro. Quando si rialzò era l’Illuminato».
«Haha! – replicò il giovane, quasi felice di aver beccato in fallo il Maestro – Cosí tu ti paragoni al Buddha?».
«No – fu la risposta dell’imperturbabile Guida. – Mi paragono al muro».
Noi traduciamo il succo di questa storiella zen con: “Un bel tacer non fu mai scritto”, ma come si vede ci perdiamo qualcosina. Conserviamo, tuttavia, oltre all’immagine fisica del “muro del suono”, anche quella piú metaforica del “muro del silenzio”. Ma restiamo sempre a quota zero per quel che riguarda un eventuale senso etico da ricavare.
Le nostre regole di vita valgono per il passato; quel che ancora deve avvenire supera tuttavia in grandezza e importanza il fardello dei secoli che abbiamo sulle spalle.
Di fronte al macrocosmo, per esempio, tutta l’esperienza acquisita sulla terra sembra dissolversi nel nulla; per orientarsi ci vogliono coordinate diverse da quelle che conosciamo; la dimensione spazio-temporale alla quale siamo abituati non ha piú alcun valore. Perché? Proviamo ad immaginarlo.
Sappiamo, voglio sperare di sí, che qualsiasi cosa prendiamo in considerazione onde eseguire un primo rilevamento, essa deve dotarsi di almeno due termini; infatti siamo per formazione e tradizione attaccati ai binomi, ai dualismi. L’insegnante ci ha rivelato che se scopriamo di stare in mezzo a due polarità, allora il passo successivo è quello di compiere una sintesi; se questa sarà piú elevata dei poli, allora, da un punto di vista strettamente figurativo, avremmo composto un triangolo, altrimenti la nostra sintesi resterà solo un punto d’incontro o di congiungimento sull’asse primario.
Ma l’aver saputo configurare un triangolo interiore e mantener viva la contemplazione del medesimo, ci riporta di colpo in una dimensione che trascende quella in cui valgono, o valevano, ascisse e coordinate; non solo il piano cartesiano diventa obsoleto ma l’intera geometria euclidea si riduce a semplice base per un’ignota prospettiva tutta da scoprire.
Quando parliamo di ascesi individuale, adoperiamo immagini come “anima e corpo”, o “Spirito e materia”, o “Io superiore e io inferiore”, insomma cerchiamo di destreggiarci con queste forme dialettiche che in sostanza sono delle rappresentazioni indotte piú da apprendimento che da esperienza.
Una ce n’è, in particolare, da tener bene in evidenza, perché di contro alle altre è sorta in modo del tutto autonomo nella nostra interiorità ed è verificabile, anche sul piano pratico, in qualsiasi momento della vita. È un polarismo molto schematico, ma proprio per questa elementarità, efficace e probativo: si tratta di dinamicità, ovvero percezione di una forza che a volte tende ad innalzare il soggetto, altre volte tende a bloccarlo o addirittura a spingerlo verso il basso. Specifico subito che non si tratta di una forza fisica. Semmai, la gravità potrebbe essere un suo riflesso in chiave terrena.
Nessuno di noi sosterrebbe veracemente l’esistenza di una contrapposizione tra gli estremi appena descritti, se non portasse già in sé, precostituito in quanto innato, un sistema di riferimento “morale”. Un sistema ben preciso, rifinito, un capolavoro di meccanismo metafisico da suscitare l’invidia anche in un orologiaio svizzero, o almeno in uno di quelli di cui narra la trascorsa elvetica fama.
Ognuno porta in sé un punto di coscienza che sa sempre se quel che sta facendo, o che sta per compiere, è in linea con l’assetto migliore per la propria evoluzione (che ovviamente abbraccia tutte le vite passate e future, sennò che evoluzione sarebbe?) oppure non lo è, e sta quindi, volontariamente, creandosi un danno, che nella futura prospettiva spazio-temporale comporterà delle variazioni correttive.
La traduzione nella fede delle religioni monoteiste è immediata: o lavori per la maggior gloria del Signore o stai lavorando per il Demonio. Ma volendo uscire dalle angustie antiprogressiste e un po’ minacciose del medioevo, e trasporre il senso del discorso in un concetto afferrabile con le attuali possibilità di comprensione umana, si può anche dire: «Il pensiero di migliorare la mia vita giorno dopo giorno mi fa star bene nel mio pensare, lo sento in armonia con il mio sentire e con il mio volere: le tre sfere hanno ora un unico centro, stanno sullo stesso asse. In questa formazione io avanzo nell’Eternità del mio essere, con questo assetto accolgo l’Infinito nel mio divenire».
Quindi il sistema di riferimento è importante, sia nel fisico che nel metafisico, solo che in questo secondo caso i parametri sono cambiati. Non piú geometrici, non piú matematici, ma puramente etici.
Un noto sociologo, nonché docente di filosofia, ha scritto che da una crisi economica ci si può risollevare, da una crisi culturale è già piú difficile, ma da una crisi morale è pressoché impossibile. Non vorrei fosse una predizione; d’altra parte come dargli torto?
Anche nelle recenti avventure della scienza, che di certo non ama affratellarsi con la ricerca filosofica né tanto meno con le discipline umanistiche, si è costretti ad ammettere che tutto lo scibile a nostra disposizione funziona bene fino ad un certo punto; se allarghiamo l’orizzonte sull’infinito, sul supergrande, o lo restringiamo al superpiccolo, molte delle nostre certezze, se non altro nel campo delle misurazioni, vanno a gambe all’aria e la precisione dei nostri calcoli svanisce come neve al sole.
Che il sistema di riferimento di cui siamo dotati abbia una rilevanza notevole sullo sviluppo di tutto l’essere umano, lo possiamo apprendere perfettamente dallo stesso Rudolf. Steiner, là dove afferma che il principio evolutivo deve basarsi su «un passo nella conoscenza e tre passi nella moralità».
Questo sembra forse evidente, ma non lo è affatto, dal momento che l’uomo tende a inoltrarsi nei campi del sapere senza curare minimamente le sue ulteriori facoltà, né tanto meno assicurarsi in via preventiva sulla natura e sulla qualità della sua predisposizione al conoscere.
Infatti, rispetto a quel che è stato detto poco innanzi, le nuove generazioni, per uscire da una depressione economico-sociale o da un oscurantismo di ritorno, non possono aspettarsi un granché dal loro futuro, affidando il raffinamento etico civile agli stessi sistemi che hanno ingenerato la depressione e la barbarie.
Le problematiche connesse alla situazione moderna sembrano davvero complesse e intricate, ma ci deve sempre consolare la certezza che se siamo arrivati fin qui, in questo preciso momento e in mezzo a questo turbine degli eventi che lo manifesta, non è per un caso o per un capriccio degli dèi. La nostra moderna struttura interiore deve venir provocata, stimolata, e qualche volta anche letteralmente presa a ceffoni dalla realtà dei fatti. Che non sono controvertibili e si pongono invece il duro obiettivo di rimetterci sulla carreggiata del compimento umano.
Senza allontanarci dal vintage esotico di cui il Lontano Oriente continua a rifornirci, ricco di una saggezza meno discutibile che non altre forme d’influenza asiatica, concediamoci il piacere di esaminare adesso una ulteriore perlina antica (chissà se esistono perline occidentali cosí datate e di altrettanta portata) che, rielaborata tra le mura domestiche, giunge a suonare cosí: «La luce del Fuoco viene spesso offuscata dal fumo; la purezza dell’Aria a volte è contaminata da formazioni tossiche e ammorbanti; la sporcizia di superficie impedisce all’Acqua la sua naturale trasparenza; rocce, sabbia e acquitrini nascondono la fertilità della Terra. Di fronte a tutto questo, come può l’anima dell’uomo non smarrirsi?» (a debito chiarimento, preciso che il succitato concetto precede di gran lunga la campagna interventistica di Greta Thunberg).
Infatti non mi sembra nulla di esagerato affermare che mai come oggi l’uomo è smarrito, smarritissimo, sotto un punto di vista strettamente spirituale, s’intende, e che da un altro profilo siamo invece tutti molto perspicaci, lesti e agguerritissimi nel difendere gli interessi, specialmente quelli meno meritevoli d’interessare.
C’è però una considerazione importante da fare proprio sulla situazione appena descritta: tra l’essere smarriti e l’essere perduti corre una bella differenza.
Se si parla di smarrirsi, allora, lo si voglia o no, ci riferiamo ad un sistema il quale deve darci il senso della nostra posizione di smarriti. O meglio, deve essere prova del mancato punto di rilevamento. Un naufrago, ove riesca a comunicare con i soccorsi, anche se non è in possesso di una mappa o non può usare un GPS, sarà comunque in grado di dire, almeno in senso generico, su quale mezzo stesse viaggiando e quale fosse il percorso o la rotta che quel mezzo compiva al momento dell’incidente. Elaborando le coordinate, per approssimazione, si individua poi l’area sulla quale effettuare le ricerche.
Ma per quanti si siano davvero perduti, il discorso è diverso, non ci sono piú i riferimenti. Fintanto che abbiamo a che fare con segmenti e porzioni, possiamo cavarcela; ma di fronte all’infinito, le probabilità di un tempestivo recupero tramontano rapidamente. Se qualcuno ha subíto l’avventura di trovarsi in mezzo alla nebbia piú fitta immaginabile, capirà la situazione che voglio descrivere. Non solo la visualità è ridotta a zero, ma anche i suoni, l’eco e qualsiasi richiamo si possa eseguire, non viaggiano secondo le regole conosciute.
Ecco perché ho messo in preminenza il silenzio, prima di tutto interiore, poi, se possibile anche quello esteriore, rispetto alla confusione. Quest’ultima agisce in modo scaltro, quasi subdolo, sulle nostre coscienze. La confusione, infatti, non ci fa sentire smarriti e neppure perduti: se mi vengo a trovare tra due cortei di manifestanti e ne subisco lo scontro, posso dire d’essermi “smarrito”? Se mi trovo chiuso nella mia automobile in un traffico paralizzato, imbottigliato in mezzo ad altre file di macchine al punto da non poter uscire dalla mia, sarebbe ragionevole definirmi “perduto”?
La confusione, il caos che di continuo rendono il nostro andazzo quotidiano simile ad un iniquo carosello, ci frastorna e modella secondo le cosiddette “leggi di mercato”, che in questi decenni sembrano rappresentare il sistema di riferimento pigliatutto senza rivali; con le leggi di mercato ci spieghiamo tutto: dagli enigmi di Rapa Nui, al mal di pancia del nostro cagnolino. In compenso del loro ruolo di dominatore macroeconomico, ci ritroviamo sempre piú esasperati ma anche sempre piú consumisti; sempre piú alienati, ma sempre piú necessitanti di cure; sempre piú desiderosi di libertà, ma sempre piú indotti a cercarla tra i beni acquistabili.
Il buon gusto, se non il buon senso, richiederebbe un ravvedimento: le parole, i discorsi, le conversazioni, i dibattiti che si svolgono praticamente ovunque ci siano bocche aperte e orecchi disotturati, si sono mostrati in massima parte inutili, hanno contribuito a creare solo nuovi contrasti e alimentare riserve mentali, nelle quali si entra prendendo già in esame come eludere la parola data o invalidare la sottoscrizione vergata in calce ad accordi scritti.
Il silenzio del tacere, e di conseguenza la praticità di un agire conforme (senza il quale il solo tacere si mischia all’inettitudine), sono invece l’antidoto a questo avvelenamento dialettico delle coscienze, nel quale la nostra parola non sa, non vuole, non può piú esprimere in modo leale e verace il pensiero che la supporta.
Neppure l’evidenza del risultato oramai serve ad aprire gli occhi; si vuol perseverare nell’errore, nel torto, nella menzogna, perché soltanto l’ipotesi di tornare indietro e raccontare il vero (anche ammettendo che le forze tenebrose interessate al mantenimento della falsità lo consentano), sarebbe agghiacciante, e richiederebbe un impulso eroico, un coraggio sacrificale che molte anime sommerse non saprebbero piú cogliere. Per questo si continua a parlare, ricordare, obbligare pure quanti, per ragioni di semplice pudicizia, desidererebbero poter dimenticare, a tener deste e vive le atrocità avvenute nel passato; atrocità di cui nessun popolo della terra può dirsi esonerato, per il fatto piuttosto ovvio che se non siamo proprio discendenti diretti, siamo almeno tutti consanguinei di Caino.
Qualsiasi dolore e sofferenza un essere umano possa aver subito e sopportato nell’anima e nel corpo, si sperde nell’incessante ripetizione, sfuma nella continua divulgazione propagandistica, nella strumentalizzazione di parte, nell’esibizionismo proclamato che diventa ossessione; li si priva anche di quella dignità che pur spetta di diritto a chi è colpito dall’ ingiustizia del destino. (O tale almeno si è portati a crederla, fintanto che la visione del karma non ci metterà in grado di comprendere il fondamento di quei tanti “perché”, inveiti da rancorosa protesta contro terra e cielo).
Mi hanno riferito che in alcune zone povere ed affamate del mondo, i viaggiatori (turisti o visitatori che siano) vengono praticamente presi d’assalto da nugoli di accattoni, tra i quali coloro segnati da malattie o da menomazioni fisiche non esitano a mettere sotto gli occhi dell’avventore i particolari vistosi e raccapriccianti delle sofferenze patite, ai fini, piú che ovvi, di suscitarne la compassione e quindi la carità.
Per quanto esecrabile, questo rientra tra le cose che ogni uomo è in grado di comprendere, anche se ciò che dopo deciderà di fare sarà un problema etico suo personale.
Mi risulta invece molto meno comprensibile la persona, conoscente, parente o amico, che si approfitta di ogni incontro per rinnovare tutta la trafila dei mali e dei torti subiti da lui e dalla sua famiglia, elencando quelli passati, gemendo per quelli presenti e paventando quelli futuri. Ogni volta le storie si arricchiscono di particolari sempre piú inediti e terribili, e proseguendo imperterrito nella tetra elencazione, corredata al caso da una quantità di documentazioni e fotografie, non gli passa neppure per la testa l’idea che forse a me tutto ciò interessa relativamente, che forse i miei problemi sono ancora piú grandi dei suoi; o che, piú semplicemente, tanto per dare un senso all’incontro, anch’io avrei piacere di poter spiccicare qualche parola e raccontare un po’ delle mie vicende.
Non serve a nulla; chi reclama pietà per sé non ha alcuna pietà per gli altri; il vittimista che cerca solo il compianto, si accontenta anche del tuo volto rattristato, della tua espressione mesta, del tuo stanco annuire, del tuo essere annientato dalla valanga di rimostranze (se non perfide, quanto meno egoiche) che egli sentiva il bisogno di scaricare e di conseguenza, tu da quel momento, sei diventato il suo pungiball preferito. Il fatto che costui abbia scelto te come destinatario dei suoi sfoghi, non è evitabile. Però dal momento che hai compreso le sue motivazioni e le hai commisurate alle tue disponibilità, se camminando per la via lo scorgi in lontananza, o svolti immediatamente l’angolo o ti tuffi nel primo portone aperto.
Voglio dire, suscitare la compassione altrui non è un illecito, ma il modus operandi che si sceglie per farlo a volte lo è. Quasi per una beffa del destino, va a creare il suo contrapposto, ossia la compassione che, ripeto, sarebbe giustificabile per quel che l’ha causata, diventa ora fastidio, impertinenza, gelida chiusura, nell’anima di chi ne viene suo malgrado investito. Un risultato inversamente proporzionale all’operazione voluta, all’insegna del “come non volevasi dimostrare”.
Sarà tutto ciò parte del “guazzabuglio” di manzoniana memoria col quale dobbiamo fare i conti giornalmente? Oppure, per dirla con un mio caro amico, fisico teorico, si tratta di un caso lampante di “fluttuazione quantica” della coscienza?
All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? Cosí dice il Foscolo. Ci siamo dentro tutti, ci siamo entrati e ci entreremo ancora, e, detto sinceramente, poco importa di tutto ciò che è stata la vita che abbiamo vissuto rispetto alla nostra epoca e alla storia dell’umanità. Non sarà un mazzolino di fiori o una ghirlanda decorata con fronde di quercia e spade a fare la differenza e a cambiare le vicende che l’anima disincarnata dovrà affrontare nel post mortem.
Sarà piuttosto l’immediato riscontro con quel che abbiamo fatto del nostro dolore e della nostra sofferenza, a creare le nuove situazioni da vivere nella dimensione che definiamo come “l’Aldilà”, perché, arrivati al capolinea, le parole servono poco o niente, e ci corre l’obbligo di creare surrogati.
Ognuno ha avuto i suoi dolori, le sue perdite, ognuno ha subíto le ingiustizie e ha conosciuto l’amara realtà di un mondo in cui gli esseri, prima di diventare umani e di attribuirsi questo appellativo, devono ancora fare i conti con le bestie che si portano dentro e che non si lasciano facilmente addomesticare. A volte fingono, e allora per lunghi periodi siamo convinti d’aver raggiunto un benessere, un equilibrio. un’armonia sociale ai limiti della perfezione.
Ma basta poco, molto poco, perché tutto questo bell’edificio di cartapesta, crolli miseramente. Non occorre lanciare missili, o innalzare barricate per rovesciare regimi o dichiarare una guerra santa contro infedeli ignoranti che rifiutano la nostra santità; basta che un mendicante, un affamato, uno dei tanti reietti di questi tempi, picchi con violenza alla porta di casa nostra, reclamando a gran voce cibo per sé e per la famiglia (terribilmente numerosa) che gli sta appresso, ed ecco che l’ambaradan fin qui elevato per adorare – senza impegno – il moderno laicismo, cautamente progressista, si autonebulizza con mortificante insolenza.
L’opzione di porre il silenzio su una determinata argomentazione è riservata a quei momenti della vita nei quali il voler dire di piú, il voler dire troppo, diviene dannoso; in un protrarsi lungo e indiscriminato assume le forme dell’abuso e dell’irreparabilità. Nasce da una mistificazione irrisolta tra quel che normalmente è inteso come “ricordo” e quel che si vorrebbe indicare usando il vocabolo “memoria”.
All’inizio sembra semplice: il primo, il ricordo, è l’oggetto della seconda, la memoria. Detto questo, però, è come aver detto “sono un adulto di razza bianca”, cioè non spiega nulla e non fornisce riscontri sul piano identificativo. Se non avessi in precedenza incontrato il pensiero di Massimo Scaligero proprio su questo specifico punto, non sarei oggi in grado di proseguire con ulteriori affermazioni. Mi limito quindi a rielaborare, alla mia maniera, un suo concetto, cercando di mantenermi fedele e coerente all’originale.
Senza la percezione (esteriore e/o interiore) non si attiva il pensiero, ma di fronte alla percezione il pensiero, per un attimo di tempo infinitamente piccolo, si annienta, sospende se stesso, riducendosi a zero. Poi riparte, si riprende, ma l’azione percettiva è compiuta. Quel che il pensiero, o la coscienza pensante del soggetto, vanno a rielaborare dopo, non è piú il dato sensibile nel momento in cui è apparso all’orizzonte della nostra osservazione; semmai ne è il segno, un’immagine mentale, una rappresentazione, alla quale si sono già collegati, nei modi piú svariati, le molteplici misture del sentire e del volere. Ed è con questo prodotto cosí rifinito che la nostra coscienza si costruisce, attimo dopo attimo, l’archivio dei ricordi e con essi quindi riempie i cassetti della memoria.
Questo processo, per la tempestività della sua immediatezza, tuttavia si svolge al di fuori della sperimentazione cosciente, per cui il soggetto percipiente afferra, sí, l’oggetto del suo percepire, convinto sia di prima mano, mentre in realtà non lo è affatto, in quanto già legatosi ad elementi non oggettivi che, volendo essere precisi, provocano una deformazione non conforme alla retta visione del mondo.
Con la frase «la realtà non è quella che appare» noi liquidiamo il problema e ce ne laviamo le mani; continuiamo cosí a credere – qualche volta in modo sorprendentemente ingenuo – a tutto quello che sensi ed esperienza riescono a raccogliere con o senza partecipazione consapevole. Per mezzo di tali dati ci siamo costruiti i vari modelli della vita, del mondo e dell’universo, concedendo a essi una realtà che sostanzialmente è un atto di fede. Purtroppo, non una fede nel divino ma piuttosto una fede sentimentale in un prototipo umano ancora difettoso e rudimentale.
Una ribellione vera e motivata a questo processo di conoscenza, già distorto sul nascere (proponente quindi una sorta di realismo oggettivo errato, malsano se non ambiguo) che si ponga la meta di cogliere l’effettivo verace alla radice della nostra vita, comincia con l’esercizio della “percezione pura”. Personalmente credo non ci siano altri rimedi.
Nella “percezione pura” si compie quello che di regola non si compie mai: si è presenti con la propria coscienza al momento in cui, di fronte alla percezione insorgente, il nostro pensiero tace, sta zitto. Per una volta, rinuncia a parlare. In quel silenzio, voluto e perseguito, affiora (può affiorare) qualcosa alla quale si possono poi attribuire molti nomi, ma che fondamentalmente è il Principio Base, l’Essenza delle Cose, il Pensiero che crea e sorregge l’Universo. Con l’ esercizio della percezione pura, la coscienza può condursi fin nei pressi di quel punto nel quale il Pensiero Universale o Cosmico si fa pensiero individuale umano.
Ecco una spiegazione del Tacita Dicunt: nel momento piú eclatante dell’apprendimento conoscitivo, non abbiamo saputo stare in silenzio; non abbiamo voluto attribuire a quel momento il rispetto che esso esigeva per manifestarsi come valore intrinseco della nostra formazione. Le forze dell’ego si sono precipitate ad accaparrarselo, a fagocitarlo, per poi farci discutere (e contrastare) all’infinito su ogni elemento dello scibile umano, memoria e ricordi compresi.
Da questa aberrazione derivano due strade principali atte a costruirsi una visione del mondo completamente illusoria e una concezione della realtà che non ha nulla a che fare con la sua essenza. O diventiamo massimalisti, dividendo tutto in bianco e nero, buono e cattivo, amore e odio, e via dicendo, e siamo sempre certi di stare sulla sponda giusta (nel mentre sull’ altra, i nemici, i cattivi, attendono il momento buono per aggredirci); oppure, caschiamo nel possibilismo nichilistico, dove tutto è confuso, sfocato, senza margini, senza precisi confini; tutto può contemporaneamente essere e non essere, la stessa vita che pensiamo di vivere, ora pare un confortevole relax in un Centro Benessere, ora sembra un incubo angosciante, che ci costringe a lavori forzati. In entrambi i casi vige l’oscurità dell’anima.
Difficilmente la memoria egoica manterrà i due tipi di ricordo sullo stesso piano.
Esiste un modo giusto, un modo che si possa definire corretto, o quanto meno sensato, per esprimere il proprio dolore? Secondo me, sí. Non prevede regole fisse, si rivela volta per volta e presenta aspetti anche ben differenziati fra loro. Ma ha degli elementi comuni, indispensabili, dai quali non si prescinde; da semplice spettatore ne ho avuto esperienza, piú d’una volta, quando ebbi l’occasione d’incontrare un ammalato grave. In quei casi, forse per nascondere l’imbarazzo emotivo, cominciavo sempre da un «Come va?», o «Come stai?». E fatidicamente, rivolgendomi uno sguardo limpido, sereno, pieno di riconoscenza per quel mio modestissimo interessamento, con un filo di voce, egli mi rispondeva: «Come Dio vuole».
Non c’era molto altro da dire. Ancor oggi non c’è null’altro da raccontare. Quelle poche parole furono sufficienti allora, cosí come devono essere sufficienti oggi.
Sicuramente per un uomo di fede tacere è piú facile, perché i colloqui con Dio non richiedono platee, né stenografi, né registrazioni di sorta. Però ci sono anche degli esempi di stoicismo laconico del tutto aconfessionali che sono ancora piú indicativi per sostenere il Tacita Dicunt dal quale sono partito. Uno per tutti è quello riferito alla vicenda di Amatore Sciesa e del suo memorabile «Tirèm innanz!». Vedete come la memoria da sola, senza alcuna sollecitazione pubblicitaria, va subito a rievocare, per analogia connettiva, un altro esempio di pari valore. Un esempio pulito, onesto, talmente sintetico e talmente grande. Un valore che andrebbe scritto con la V maiuscola.
La sua specialità è presentarsi senza fanfare, nudo e crudo; non si esibisce, non si ostenta, non necessita di richiami. Si manifesta da solo, avulso da encomi celebrativi, da teatralismi orchestrati, da magniloquenze dialettiche; unicamente avvolto nella sua umana condizione, diventa nobile e splendido nella Luce dello Spirito di cui si è reso espressione.
Resti cosí nella misura in cui la sua memoria sopravviva senza retoriche, sia fonte inesauribile di consapevolezza e disincanto per le generazioni a venire.
Angelo Lombroni