La pulce cosmica

Considerazioni

La pulce cosmica

Raffaello «Platone e Aristotele»

Raffaello «Platone e Aristotele»

Ogni filosofia nasce dal bisogno di conoscere qualcosa di se stessi e dell’ambito in cui ci si trova inseriti. È un mo­vimento di espansione, di allargamento, che proviene dall’in­timo, dal profondo del cuore; il supporto intellettivo le sarà indispensabile, ma verrà dopo, in seconda linea.

La filosofia dovrebbe cercare la conoscenza partendo dal­l’amore.

J. Sustermans «Galileo»

J. Sustermans «Galileo»

La scienza invece richiede esclusivamente il supporto del fattore mentale; a priori, vengo­no scartate inclinazioni, affetti, simpatie e sentimentalismi. Nulla vieta che l’interiorità di uno scienziato viva secondo i norma­li impulsi umani, ma tale caratteristica non è ritenuta fondamentale né coerente alla ricerca scientifica. Si ritiene che non sia una condizione di base.

La scienza vorrebbe conquistarsi il sapere partendo dall’obiettività.

Come sempre, nel progredire dei loro cammini, le due strade, pur cosí diverse e differenziate, fanno sospettare, nel lungo termine, una convergenza che oggi è auspicata da molte correnti. Ma quando si tenta di unire prematuramente tra loro cose ancora troppo disomogenee, succedono dei guai. Per molti di questi, si può correre ai ripari, per altri no. Dalle mancate aggregazioni scenderanno conseguenze peggiori delle cause che le hanno generate.

I due grandi percorsi conoscitivi dell’umanità si rivelano allo stato attuale profondamente inutili e dissociati finché entrambi continueranno a credere nell’esistenza di un amore privo di obiettività, e di un’obiettività che non trovi il suo essenziale fondamento nell’amore.

Gli odierni studi dell’astrofisica raccontano cose molto interessanti sull’origine dell’universo. Ad esempio, per restare nelle teorie piú note, ci dice che 13 miliardi e 800 milioni di anni or sono (mese piú, mese meno) un’immensa quantità di potenziale energetico allo stato puro si condensò in uno spazio infinitamente piccolo, talmente piccolo che la capocchia d’uno spillo al confronto sa­rebbe sembrata una galassia, e, completata questa fase d’autocompressione, decise di scoppiare.

Big BangNacque cosí il Big Bang. Tutto il resto del creato, esseri viventi (umani e/o non?) seguirono di conseguenza. Tuttavia, evidentemente non soddisfatti dalla vis esplicativa dell’ipotesi, di fronte alla quale ogni cosa dovrebbe diventare di colpo chiara e com­prensibile, alcuni analisti dotati d’impegno cosmo-in­vestigativo posero sul tavolo dell’intellighentia senza frontiere un nuovo problema sostanzioso quanto inquie­tante: che cosa ci fu “prima” del Big Bang?

Gli ingegni immaginativi e le fantasie scientifico-pindariche s’impennarono allora, fornendo risposte e soluzioni di ogni ordine e tipo, le quali, come succede spesso in casi simili, scontentarono un po’ tutti e offrirono a molti il pretesto per risentirsi, indignarsi e, in situazioni piú spinte, anche di accapigliarsi con l’oppositore di turno.

Ci furono quelli che azzerarono il problema, sostenendo che in mancanza di spazio e tempo (questi dovevano infatti venire dopo il Big Bang) eseguire calcoli e misurazioni sarebbe cosa del tutto superflua. Per cui meglio metterci una pietra sopra (metaforica, s’intende, dato che meteoriti, bolidi e lapilli non esistevano ancora) e concentrare tutta l’attenzione sugli eventi posteriori al “Grande Scoppio”.

Ci furono quelli che “rimandarono” l’origine dell’universo ad un modello multilevel, analogo a un prolificare di bolle di sapone, attaccate l’una all’altra, che a un certo punto, cominciano a scoppiare, mentre altre invece continuano a gonfiarsi, sicché la struttura del conglomerato nel suo complesso rimane grossomodo intatta, ma in un subbuglio pervaso da fremiti agitazionali (quest’ultima parte mi è ben presente).

Non mancarono ulteriori contributi da parte di volonterosi, che si distinsero dagli altri, pre­sentando il progetto di un cosmo-modello composto da una sfera vibrante d’energia, in cui il puntolino di centro cominciava ad acquisire sempre maggior consistenza e dimensione. Mentre esso cresceva, espandendosi, la sfera contenitrice, in compenso, diminuiva rattrapprendosi, fino al punto di sparire, ma senza sparire, perché a quel punto era sostituita in toto dal centro, divenuto la sfera madre. Tipico esempio naturale: uovo, tuorlo, pulcino, che da adulto rifà l’uovo e cosí avanti.

Raccontai queste teorie, senza fare commenti, a un amico che aveva studiato (e lo fa tuttora) la Scienza dello Spirito e che, a mio giudizio, è una persona esperta in cosmogenesi. Chiesi se gli riuscisse di capire qualcosa. Il suo commento fu piuttosto asciutto: «Non c’è nulla da capire; le teorie della scienza sono come i princípi della fede: o le accogli come spunto conoscitivo, oppure le respingi».

Molti anni prima, durante un seminario incentrato sul Vangelo di Giovanni, avevo domandato al mio vicino di platea (un professore di psicologia piuttosto noto per aver scritto alcuni libri non banali sull’evoluzione umana) se nella frase iniziale del Vangelo (“In Principio era il Verbo….”) egli non trovasse qualche attinenza con quello che la scienza dei nostri tempi sta tentando di farci capire sull’origine dell’universo fisico, della vita organica e dell’uomo. Egli mi elargí un bel sorriso e poi mi sussurrò: Uomo che cammina«Non c’è nulla da capire; i princípi della fede some come le teorie della scienza: o li accogli in quanto valorizzi il proposito di fondo, o li respingi».

Per cui, accostando i due esiti, mi trovo in una condizione che caratterizza appieno il senso di essere uomini nel terzo millennio. Questo si condensa in una domanda: acco­gliere o respingere?

Ho sempre pensato che respingendo non si esce dal proprio buco, mentre accogliendo si rischia sí, di essere invasi, ma come espe­rienza di vita, fa fare molta strada; si va lon­tano, e cose che prima credevamo impossi­bili o assurde, si capiscono meglio.

S’incomincia, per esempio, a compren­dere che non c’è nulla da temere; o meglio, da temere c’è solo l’ostinazione a non voler mutare, non accettare i cambiamenti; restare attaccati come ostriche a quel che già si è, a come ci ha plasmato la natura, implicitamente giudicando l’esistere corrente non meritevole, o non suscettibile di modifiche.

Ho scritto in precedenza alcune riflessioni sull’esercizio della “Percezione Pura”. Mi accorgo soltanto ora di aver trattato il tema in modo insufficiente. Per dir meglio, quanto avevo indicato poteva probabilmente bastare come un primo contatto per descrivere uno speciale aspetto dell’atto percettivo. Ma ciò che può accadere in chi scientemente accosta quel particolare momento, è ben piú vasto e importante del breve cenno che gli ho dedicato; in tali casi, l’inesaurienza va in qualche modo compensata prima possibile.

Parlare sull’esercizio della Percezione Pura è piuttosto difficile; lo si può dire anche per tutti gli altri esercizi spirituali: data la loro natura prettamente a-dialettica, non si prestano ad alcun tipo di discorsività; anzi, dove gli esercizi sono, nel senso che vengono veramente compiuti, c’è sempre il silenzio interiore preparato con cura e in via preventiva, dallo sperimentante che s’appresta al compito.

Onde non sarebbe stata mia intenzione prolungarmi nel tentativo di spiegare ad altri quel che io stesso ritengo verbalmente poco spiegabile. Ma muovendomi nel mondo d’oggi, ho la sensazione di ridestare dal sonno, o dallo stato d’inerzia apparente, moltissime “pulci”, che, svegliate di sopras­salto, sentendosi quindi in fondo provocate dal sottoscritto, si mettono in uno stato d’agitazione. In particolare, una mi si è infilata nell’orecchio, e fintanto che non me la cavo, sento il bisogno di darmi da fare. Forse è questo che s’intende col detto inflazionato “Io, speriamo che me la cavo!”. Finora non avevo preso in considerazione la faccenda delle pulci, ma vedi, a volte, come le cose tornano a posto, e pure quelle che parevano cretine, hanno invece una loro ratio.

Percezione puraAvevo dunque fatto flash su un particolare momento della Percezione Pura. In questa istan­tanea, è il caso di dirlo, abbiamo due elementi a confronto, o in contrapposizione, non importa qui dare una valenza alle parti in causa, di­ciamo che stanno una di fronte all’altra. Da una parte c’è il dato sensibile, cosí come di primis­simo acchito esso s’affaccia sulla linea di per­cettibilità del nostro orizzonte sensibile (scusate la carovana di parole ma voglio essere preciso) e dall’altra, la nostra funzione pensante, nell’at­timo in cui ha appena preso atto del dato riferitole dai sensi.

Mi si dice che in tale circostanza (del tutto virtuale, in quanto lo scorrere del pensare è incon­tenibile, anche quando ci reputiamo consapevoli di non saper piú cosa pensare) e cioè in una minuscola frazione di tempo, equivalente pressoché allo zero, pure l’attività pensante umana si riduce al valore minimo.

Ecco perché alcuni cultori di Scienza dello Spirito, quando trattano di gnoseologia, definiscono la percezione come “il nulla del pensare”. O meglio, al momento in cui essa insorge, il fluire della corrente pensante, per un attimo, sembra arrestarsi.

In chi studia queste cose, può sorgere allora il dubbio: è la presenza dell’oggetto percepito ad arrestare, sia pur momentaneamente, il pensare, o è piuttosto il pensare che, trovandosi di fronte a qualcosa che deve appena conoscere (o riconoscere) si ferma ed esita come un viandante davanti ad una biforcazione di sentieri ignoti.

Tanto piú che coloro i quali hanno avvalorato il percepire con l’epiteto “il nulla del pensare”, subito dopo ti vengono a dire: «La percezione non può dare piú di quel che ha, tuttavia potrebbe nascondere quel che ha». E a questo punto sei fregato, perché le due affermazioni sembrano col­ludenti tra loro. Se davvero la percezione rappresenta il punto zero del pensare (prima tesi), con quale pensare formulo la seconda (che nasconda cioè qualcosa)? Una riflessione di questo tipo può verifi­carsi soltanto in un momento posteriore, quando cioè ripenso a come si è svolto il processo intero. In nessun modo essa esprime la concomitanza temporale che sarebbe invece necessaria per venirla accostata e commisurata alla prima.

Per tutto quel che sta succedendo attualmente nel mondo e dintorni, tale problema appare certa­mente piú rimandabile di una decisione governativa sulle concessioni in corso alle società di ge­stione delle autostrade. Invece io credo sia bene pensarci sopra subito, perché, secondo l’espres­sione di padre Dante, “mi punge vaghezza” che esso (problema) si colleghi difilato ad un altro, ben piú grande del primo, al quale si attacca perché presenta, fin dalla partenza, delle caratteristiche incredibilmente analoghe. Non si può scambiare una lucertola per un dinosauro, ma, dimensioni a parte, alcuni evidenti aspetti hanno indotto fior fiore di scienziati a studiarci sopra. Non sempre le analogie sono casuali.

Alcuni problemi richiamano altri, nello stesso modo in cui, avendo un po’ d’orecchio musicale, alcune note suonate occasionalmente e udite per combinazione, fanno tornare di colpo alla mente un evento importante del proprio passato che avevamo dimenticato.

Quando la melodia è la medesima, ovvero è composta da un gruppo di note uguali, ai fini del suo riconoscimento, poco importa se sia fischiettata da un porta-pizze in bicicletta, in un vicolo della città vecchia, o sia suonata in un’esecuzione di prestigio dalla Berliner Philharmoniker Orchestra, durante una serata di gala.

Con l’evidenza tratta dall’intima connessione creatasi in noi, non possiamo ulteriormente bypassare il tutto, senza macchiarci del reato di colpa grave nei confronti del senso di vigile at­tenzione di cui siamo dotati. Ci sono già i demoni addetti al mantenimento dell’ignoranza umana, a svolgere il loro lavoro da certosini; un’altra ignavia da parte nostra vi aggiungerebbe la circon­venzione d’incosciente.

Cos’è dunque questo dato sensibile che ci sta davanti e che chiamiamo “percezione”? È lui a provocare il nostro pensiero o siamo noi che, pensandolo, lo estrapoliamo dal contesto indifferen­ziato della realtà apparente, e lo cogliamo pronti ad attribuirgli un particolare significato?

Rovistando tra questo aut aut non arriveremo mai a capo di nulla. Entrambe le riflessioni sono valide, entrambe tuttavia non offrono appigli per un miglior avanzamento della comprensione. Diventa molto piú utile osservare invece come giochi, quale ruolo abbia, la nostra posizione interiore rispetto all’avvenimento percettivo.

Cane aggredisce bambinoHo un amico che da piccolo è stato assalito da un cane. Ancor oggi, adulto e maturo, quando vede un cane, anche di piccola taglia, oppure sente abbaiare nelle vi­cinanze, sul suo volto passa una rapida ombra di pre­occupazione. È un fatto automatico, ma è cosí. Lui si difende affermando che la sua antica paura gli è spa­rita, adesso non c’è piú; potrebbe, volendo, anche ac­carezzare la bestiola che incontra, ma ciò non toglie che una parte di lui ricorda bene l’esperienza e, saltando ogni forma di razionalità, si dispone al­l’immediata difesa.

La percezione lascia dunque il segno? Sí. Sempre? No, quando ci assalta, quando sbuca fuori nel momento in cui siamo meno preparati. E allora si subisce, la dobbiamo subire, vince lei, perché, in quella frazione di tempo è la piú forte. Non ci sono santi che tengano. Se ci fossero, nel senso di “meditativamente coltivati”, allora non verremmo colti di sorpresa e all’urto del mondo, forse, sapremmo opporre una qualche nostra resistenza.

Il discorso verte ora su questa “resistenza”: che significato può avere ”resistere alla percezione”? Qualche ricordo moraleggiante che ci fa tornare alla mente il “resistere alla tentazione”; in fondo percezione e tentazione fanno rima, ma introdurre un’attinenza tra le due, ci porterebbe lontano dal focus conoscitivo.

Eppure, anche in questo caso un collegamento si può trovare. Dipende da chi è implicato e da come si lascia implicare nell’esperienza. Mentre le tentazioni costituiscono un caso a parte (direi un caso limite) delle percezioni, queste ultime invece ci sono sempre e comunque. In pratica sono incontrollabili. Non c’è nessuna situazione umana in cui le percezioni siano del tutto scomparse; sia da svegli che da dormienti esse ci accompagnano e scandiscono le dimensioni in cui fluttua la vita dell’anima e del corpo. È chiaro che sto parlando di qualunque tipo di percezione, sia interiore che esteriore, se proprio sentiamo la necessità di una suddivisione di questo genere.

Prima o dopo, si giungerà a concludere che la realtà in cui siamo immersi non è fatta di “esterni e interni”, ma è un’operazione composita di informazioni e atti conoscitivi che si realizzano, in gran parte, al di fuori del nostro controllo; pertanto non solo coincidono ma addirittura costituiscono veri e propri stati di coscienza (o d’incoscienza, se al momento la nostra guardia si è abbassata di livello), attraverso i quali il mondo tenta di raccontarci una storia (verismo obiettivo) mentre noi, imperterriti cerchiamo di convincerci che la storia è quella che ci raccontiamo da soli (realismo d’archivio).

Quando mi chiedono “cosa sia la realtà e cosa sia la verità”, se siano collegate tra loro e in quale modo, mi viene da ridere: si tratta sempre e solo di stati di coscienza. Se essa sonnecchia – o, diciamocelo – è profondamente addormentata, avrò a che fare con una realtà (ovvero con la mia vita) che resterà incomprensibile, enigmatica, che mi sembrerà distribuire premi e castighi a casaccio. Sarò privo di riferimenti, cercherò ovunque dei surrogati per ritenermi ancora capace di “credere” in qualcuno o in qualcosa. Come conseguenza immediata non nutrirò alcuna fiducia in me stesso, mi rintanerò nel mio ego, perché esso mi si presenterà come l’unica àncora di certezza acquisita, che in sostanza non ha da rispondere a nessuno ma soltanto a se stessa (in situazioni del genere, si spera pure questo).

Tutto ciò è normale, ma comporta un danno che purtroppo è madornale: noi siamo comunque convinti che quella roba lí sia la realtà. Cosí la chiamiamo; le diamo il valore di realtà esistenziale, dalla quale non si può scappare. È veramente un’idea barbina, ma da quando il mondo è mondo, c’è sempre stata la funesta tentazione, chiamala ananke, chiamala sorte, o come ti pare, il risultato non cambia. Tutto è ineluttabile, come la morte.

statuinaPotrebbe cambiare solo il giorno in cui, come una rondine annuncia l’arrivo della primavera, il mio pensare mi porti sul balcone della coscienza un mera­viglioso sospetto. I sospetti non sono mai meravigliosi, ma in questo caso farò un’eccezione. Un sospetto meraviglioso e liberatorio: non sarà forse che son io ad aver combinato questo pasticcio esistenziale (un impasto grossolano e scadente tra presunto soggettivismo e frainteso oggettivismo) in cui adesso mi ritrovo e mi dibatto?

Tempo fa, mi sono costruito una storiella per meglio illustrare questo specifi­co tema: un contadino, arando il campo, trova tra le zolle appena smosse un oggetto; sembra una statuina di pietra. La spolvera, la ripulisce e fa le sue con­siderazioni. Magari è un oggetto antico, e potrebbe avere un valore. Cosí ne parla con un amico e questi lo convince ad andare in città da un antiquario di sua conoscenza. A sua volta costui, intuendo l’affare, si fa consegnare l’oggetto e lo porta da un famoso collezionista, con il quale stava già in contatto per precedenti scambi artistico-profittevoli. Ma Mr. Collector è un uomo prudente, perciò chiama un esperto in materia che gli possa garantire la validità del manufatto. L’esperto afferma che prima di tutto deve svolgere alcune analisi di laboratorio, ma proprio grazie ad una di queste analisi, salta fuori che la statuina emette delle strane radiazioni. Bisogna quindi compiere ulteriori analisi sulla struttura fisica dell’oggetto per capirne meglio la natura, la provenienza e tentare quindi una prima classificazione. Entrano pertanto in ballo, un radiologo, poi un fisico teorico, quindi un insegnante di storia delle religioni, un esperto d’archeologia, famoso per i suoi studi sulla iero­criptologia presso i popoli antichi… e, come a questo punto diventa ben comprensibile, la storiella può esser portata avanti di molto; non all’infinito, ché ogni cosa ha un suo giusto epilogo, ma per un cammino lungo e tortuoso, in cui vengono coinvolti e si cimentano i variegati interessi dell’anima, impersonificati, di volta in volta, dai vari stereotipi che umanamente li rappresentano. Non ho la minima idea di cosa sia fatta, a quando risalga, da dove venga e quale sia il significato della statuetta, ma ho capito una cosa che mi sembra piú importante di ogni altra spiegazione: si tratta di un’av­ventura del pensiero umano che attraversa diversi stati di coscienza.

Ondata di migranti dalla Turchia alla Grecia

Ondata di migranti dalla Turchia alla Grecia

In ciascuno di essi lo sperimentatore coglie una realtà, uno stato di fatto; lo crede vero ed oggettivo, non di rado anche assoluto. Non si accorge che in­vece tutto è transitorio, virtuale e suscettibile di mu­tazione; una continua, inarrestabile, incredibile muta­zione, che non si ferma mai, perché coincide con la stessa spinta evolutiva che dalla caverna (compresa quella di Platone), ci ha portato sin qui, volenti o nolenti, a domandarci se il nostro secolo verrà ri­cordato maggiormente per le ondate migratorie o per le epidemie contagiose.

Epidemia di coronavirus

Epidemia di coronavirus

Sono sempre i fattori di instabilità, infatti, a scrivere le pagine della storia, essendovi ancora un rapporto piuttosto viscerale tra le fasi della crescita e l’interiorità umana che tenta di superarle.

Ma la scienza, anche quando avanza ipotesi dubi­tative e sconfinanti con la fanta-sorella, propone alcuni elementi conoscitivi sui quali i nostri pensieri non dovrebbero arenarsi, o peggio ancora, assumere una posizione di sdegno o di indignazione, per garantirsi poi la soddisfazione di non proseguire nel cammino intrapreso.

Quel che essa, scienza – in questo caso il problema del “tempo X” immediatamente antecedente il Big Bang – tenta di spiegarsi, conferma quanto le antiche scuole misteriosofiche, e le susseguenti correnti di pensiero filosofico-spirituale alternatesi nelle epoche, facevano percepire ai loro discepoli mediante esperienze dirette e inconfondibili.

L’esercizio della Percezione Pura, discendenza attualizzata e modellata sul moderno tipo di uomo, si propone di farci toccare con mano fino a qual punto il dato sensibile è uno strumento attraverso il quale il Mondo dello Spirito ci svela la multiforme onnipresenza della Sua potenza creativa. E lo fa, avvalendosi di un unico mezzo, ma che, per l’attuale organizzazione dell’uomo, si scinde in due fasi distinte e contestuali: 1) l’apparire del dato sensibile (immanenza), da una parte, e 2) l’attività pensante che lo accoglie, dall’altra, riversandovisi sopra ed elaborandolo senza sosta (trascendenza).

A questo punto usare ancora i termini di immanenza e trascendenza è fuorviante; se l’esperienza è svolta da una coscienza che la presiede veramente, il “dentro o fuori”, il “sopra o sotto”, il “sacro o profano”, si rivelano obsolete alternanze: avevano ragione d’esistere fintanto che dal dualismo proveniva una corrispondenza tra l’uomo indagante, considerato nella sua unità, e un mondo esterno rutilante di realtà frazionate.

Una volta però ricondotta la ricerca, grazie all’intima connessione della forza pensante, sulla via maestra della sintesi, ove ogni parte è sempre riconducibile alla centralità che la regge, le forme della dualità decadono, o meglio si ricompongono armoniosamente all’interno della struttura universale.

Dell'amore immortaleQual è il potere di attraenza universalmente noto, capace di comporre i singolarismi di contraria natura, e di far sorgere dal legame una ulteriore creazione? Cosa può mediare una volta per tutte il soggettivismo autoriflesso e la richiesta di una lucida obiettività estraindividuale?

Anche se di questi tempi suona un po’ anacronistico, il suo nome è “Amore”. L’Amore nasce in noi ma ci spinge fuori di noi, verso l’altro che ancora non siamo, e col quale vorremmo essere. Possi­bilmente per sempre. È un avvio a coincidere, a identificarsi col nuovo, e quindi in tale direzione diviene giocoforza abbandonare il vecchio, il già stato, l’antecedente.

Tale verità può turbare nel momento in cui viene assunta a livello di coscienza; ma in essa è ravvisabile il movimento stesso della dimensione spazio-temporale che non offre alternativa. Si vuole e si deve andare avanti; chi esita, tentenna o cerca soluzioni diverse, sarà comunque costretto a proseguire trascinato dalla straripante onda degli eventi.

Il ritorno al binomio esegetico di Potenzialità e Attuazione che stava alla base della concezione platoniana, sia per la visione cosmo­gonica (com’è nato l’universo) sia per la speculazione noseologica (come fa l’uomo ad acquisire conoscenza) ha esaurito il motivo che l’aveva voluto tale. Questo parallelismo è a mio parere estremamente indicativo.

Grazie alle indagini scientifico-spirituali di Rudolf Steiner e rivelate a noi con l’Antroposofia, qualcuno ora è in grado di affrontare l’argomento in un modo del tutto diverso da come è stato fatto nei tempi passati.

Sarà una semplice casualità, ma proprio oggi, 3 marzo 2020, alle ore 13.20 circa, ho ascoltato lo slogan di una delle tante pubblicità che infestano i programmi radio-Tv, nel quale si diceva cosí:

 

Solo cambiando il modo

di guardare il mondo guardato

inizierà il cambiamento.

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La frase non è palindroma, ma lo è di certo la logica che la sottende. La reversibilità richiede che il lettore decida, con pazienza e meticoloso riguardo, dove posizionare la pausa (la virgola) all’interno del periodo, e possa cosí rendersi conto che, nel campo della conoscenza, questa virgola si è spostata arbitrariamente nel tempo, dando ogni volta un indirizzo diverso al corso del pensare umano.

Quando percepisco un oggetto, per un milionesimo di secondo il mio pensiero si annulla, rimpicciolisce, si ritira, ma non certo perché sia vinto o sopraffatto dall’apparire del dato percettivo.

Bensí accade qualcosa di straordinariamente magico e sorprendente; il mio pensiero coglie nel­l’oggetto il pensiero creativo che lo ha reso tale per amore, e che, sempre per amore, lo ha collocato nel grande mare del molteplice, proprio in quel momento e in quella posizione per farmelo apparire e incontrare.

TotemDi fronte a questo pensiero cosmico e universale, è chiaro che quanto accade in me, io lo interpreti sulle prime come un azzeramento della mia normale capacità intellettiva. Ma non è cosí. Semplicemente il mio pensare si ritrova davanti a un “se stesso” elevato all’ennesima potenza (d’Amore), recluso nell’oggetto stesso, confinato nei suoi connotati sensibili; è giusto quindi che in me l’attività ammutolisca o dia l’impressione di farlo. L’organizzazione umana ancora non sa cogliere in percezione un simile flusso d’Amore Divino, anche se convinta di essere stata ori­ginata dal medesimo Amore, anche se dice di crederci, anche se ha tappez­zato l’anima di rappresentazioni.

Questo è il sogno ad occhi aperti che continua a porre lassú una Entità che provvede, e quaggiú gli omíni (non è un refuso, sono proprio gli “omíni”) che pregano l’Entità di provvedere. Ma la distanza è incolmabile, se non entra in funzione un pensare voluto e allenato al proposito.

Mettiamo che per una sorta di ma­gia, le ventuno lettere di cui si compo­ne il nostro alfabeto si trovino all’im­provviso di fronte l’intera Divina Com­media squadernata in tutta la sua gran­dezza, e ammettiamo pure, dotiamole di un certo grado di coscienziosità con il quale valutare e reagire. Che reazione potrebbero avere? Di certo proverebbero lo stesso tipo di annichilimento, di smarrimento, che si subisce quando ci si trova davanti a qualche cosa di cosí enorme, di cosí gigantesco da non saper nemmeno da quale parte iniziarla a concepire.

Difficilmente riconoscerebbero se stesse come gli ingredienti di base necessari e indispensabili ad attuare quella determinata titanica creazione artistica.

Ed è proprio questo stato di paralisi a farci percepire il mondo delle percezioni come finito, concluso, immutevole nella sua fissità. Nella testa del contadino che occasionalmente ha dis­seppellito la statuetta, non passa nemmeno per un attimo l’idea di quel che fosse la materia del­l’oggetto prima di diventare quell’oggetto, e neppure quel che ne sarà dopo la sua inevitabile disgregazione. Per lui, e per noi tutti, la percezione è solidità, garanzia di un mondo la cui realtà non ha alcun particolare rapporto con il nostro Spirito di uomini, se non quello di fare da sostrato fisico, da palcoscenico, alle nostre vicende.

Ogni vincolo da noi costruibile è costantemente commisurato al nostro abituale dimensiona­mento spaziotemporale, dal quale è bandito il divenire, ove quest’ultimo superi un determinato limite.

Questa è a grandi linee la cecità, la follia e l’insipienza che determinano la nostra epoca: uno stato d’incoscienza assunto come fosse coscienza; un realismo sbilenco e provvisorio sul quale è dav­vero molto difficile pensare di poter costruire i secoli futuri. Infatti, anche se questo è un pronostico che lascio volentieri ai pessimisti, oggi piú che mai “…del doman non v’è certezza.” E, in questo caso, non sono le certezze a mancare.

L’inconsapevolezza del particolare momento in cui la percezione si materializza davanti a noi (asserzione alquanto buffa; siamo arrivati a credere in un automatismo biologico della materia, che davanti ai nostri occhi stralunati, compie lo spettacolino di prestidigitazione, mostrandoci ora l’aurora boreale, ora l’impronta umana sul terriccio lunare, ora il ritorno delle sette piaghe d’Egitto in formato videogame) ha portato l’indagine degli astrofisici all’impasse epigenica del nostro universo.

Divina CommediaIn pratica, le ventuno letterine si stanno anco­ra accapigliando sul co­sa abbia potuto produr­re la Divina Commedia e cosa – diavolo! – fos­se questa Divina Com­media prima che esistes­se un alfabeto. Andando avanti per tale strada, non lo capiranno mai.

La riflessione di fon­do è lapalissiana: con il Big Bang l’energia si è trasformata in materia; ma prima di ciò qual era il suo stato? Perché è deflagrata? È stato commesso un errore? Qualcuno ha trascurato qualche cosa o ha fatto un calcolo sbagliato? Il nostro universo può esser nato da una specie di Chernobyl a livello cosmico?

È tempo di provare a tirare le conclusioni. Quando questo articolo sarà edito sull’Archetipo, saremo vicini alla festa di Pasqua; ossia la festa della Resurrezione. È importante che la nostra anima segua in questo periodo un corso di pensieri ben preciso, cosí come sono precise le per­cezioni senza le quali i nostri pensieri non potrebbero neppure innalzarsi.

Cosa ci stava prima del Big Bang? Qual è, e cosa è, l’essenza della percezione? Se la festa della Pasqua oggi, nell’anno 2020, ci si presenta anch’essa a livello percettivo, quale potrebbe essere il pensiero umano capace di compenetrarla?

Abbiamo già parlato dell’Amore. Non occorrerebbe dire piú. Ma repetita iuvant; nessuno è talmente maestro da permettersi di sdegnare il rifacimento di un percorso interiore.

L’energia può trasformarsi in materia, la materia può tornare energia; cosí come la potenza diviene atto, ed ogni atto è in sé parte di potenza bloccata; lo sappiamo.

Il percepire ha un determinato rapporto con il nostro pensare; ma per quanto ci diamo da fare, con il solo pensare non riusciamo a creare una percezione, né essa può dare causa al nostro pensare; sappiamo pure questo.

Quanto tradizione, religione e studio ci hanno fin qui fornito sulla Pasqua, è cosa risaputa e ne siamo stati intimamente conformati; ma chi segue l’Antroposofia sa che la percezione di ciò che, per la terra e per il cosmo, veramente viene rappresentato nella Pasqua, è piú grande ed elevato di quanto lo possa essere la coscienza umana che la pensa.

Sarebbe quindi “cosa buona e giusta” poter mettere a tutto questo un punto fermo. Un punto che non vuol determinare nulla, che lascia aperta ogni possibilità di edificazione ulteriore in senso filosofico e spirituale; che non pretende limitare il Sublime circoscrivendolo di notazioni sog­gettive.

Il punto fermo, non solo comprensibile a tutti ma anche facilmente riconducibile all’esperienza del vissuto, è l’Amore. Non c’è altro, né ci potrebbe essere. Tutto nasce sempre dall’Amore, e là dove esso non sia piú ravvisabile, è comunque avvertibile la sua assenza, percepita come perdita o mancanza. Se la parola Amore viene spesso usata a sproposito e svilita in infinite prove degradanti, questo nulla toglie alla sua origine eternamente divina e assoluta.

ResurrezioneÈ l’unico ponte che per ora permetta il passaggio di cuore e mente umani tra il possibile e l’impossibile; tra quel che poteva esserci prima del Big Bang e quanto si è verificato (e si sta verificando) di seguito; tra quel che la percezione “nasconde” al nostro pensiero, e quel che nel nostro pensiero comincia ad apparire grazie all’iniziale presenza oggettiva di quella. Affinché il pensiero dell’uomo ne confronti l’essenza con la propria, e cosí scopra il segreto della perfetta identità.

È anche il Grande Passaggio che si apre come possibilità nella contemplazione della Pasqua: ca­pire che si è venuti al mondo per esistere, che questo esistere ha un senso se amorevolmente ci si conduce fino alla morte fisica; e che quest’ultima si pone come premessa indispensabile per la Resurrezione.

Quando l’intero processo vie­ne seguito passo a passo da una consapevolezza ben cosciente di ciò che siamo, che vogliamo es­sere, e che siamo qui per diven­tare, allora, al passaggio di Pasqua si aggiunge un elemento particolarmente significativo che, nel linguaggio cristiano, porta il nome di “Redenzione”.

Perché l’essere umano diventa Uomo solo quando risorge redento. Prima di allora, molte cose dovranno ancora presentarsi separate; studiandole senza presupporre la perenne presenza di quell’elemento unificatore per eccellenza che è l’Amore, saremo indotti a inventare ancora altre soluzioni e compromessi; a lungo resteremo impantanati nell’illusione di un mondo di percezioni scompaginate e aggressive. Ma anche questo è parte di una preparazione che ci chiede d’imparare a viverla come tale.

Perciò ogni momento della nostra vita è sempre un’occasione di gioia; forse non siamo ancora capaci di percepirla come dovremmo, forse non la sappiamo gustare, forse i nostri pensieri e le nostre azioni non sono nemmeno i piú corretti per accostarla, ma almeno ci possiamo consolare riconoscendo in quel che ci manca, la lenta, oscura, gestazione.

Il cui senso umano e cosmico s’illumina e risplende ogni dodici mesi nella Domenica succes­siva al primo plenilunio di primavera.

 

Angelo Lombroni