Gli archetipi del dolore e della resurrezione nella tradizione ebraica e cristiana
Midbàr, deserto, o ‘aravàh, landa, è per la sensibilità biblica «terra di steppe e di frane, terra arida e tenebrosa, che nessuno attraversa e dove nessuno dimora» (Ger 2, 6); tana di sciacalli, luogo di leoni e di serpenti, ricettacolo di gufi e di corvi, di ricci e di iene, come dice Isaia (34, 11); dimora del démone delle lande Azazel (Lv 16, 8-10), dunque, per l’uomo, massimo luogo della prova, della negazione e del castigo. In quanto esperienza della solitudine e del silenzio dello Spirito, il deserto domina l’immaginario ebraico dai suoi albori: «In principio Elohim creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta (tohu wa bohu)», riporta il Genesi (1, 2) secondo la narrazione elohista. Piú oltre la fonte yahwista aggiunge: «Quando Yahweh Elohim fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata…, allora Yahweh Elohim plasmò l’uomo» (Gen 2, 4b-5). «Il primo deserto di cui parla la Bibbia è cosmico. …Prima della creazione dell’uomo la terra è in uno stato desertico: non c’è né pioggia né coltivatore del suolo», commenta Armand Abécassis (La pensée juive, Parigi 1987).
Il deserto è sentito dal Genesi come l’incompletezza della creazione, ciò che precede la pienezza formativa dei regni vegetale e animale: questa primordiale incompletezza riecheggerà nella coscienza israelitica come horror vacui, timore della vuota solitudine della materia, paura del deserto come paura dell’assenza di Dio dal creato – infine, paura dell’esilio. A questo desolato timore del deserto l’immaginario ebraico ha contrapposto il simbolo finale della stessa creazione biblica, il gan, il “giardino in Eden” (Gen 2, 8), dove Eden, nome di ignota localizzazione geografica, significò dapprima «steppa» (accadico edinu, «campagna») e soltanto successivamente, nella versione greca dei LXX, diventò «paradiso», per suggestione dell’iranico paridaiza, da cui l’ebraico pardes, giardino appunto. Gan, dunque, come ricchezza della creazione, pienezza dei regni naturali, accordo di Dio con l’uomo; ma gan anche come patria, dimora ideale destinata da Dio al suo popolo.
Questa immagine mitologica del giardino non è di origine ebraica, ma sumerica. Non a caso il titolo di un famoso libro di Samuel Noah Kramer recitava La storia comincia a Sumer (1956). Un poemetto sumerico che appartiene al mito della dea Inanna, intitolato L’albero di Huluppu, narra che ai primi giorni della creazione il dio delle acque (En-ki) e la regina dell’oltretomba (Ereshkigal) diedero vita a un albero sacro che fu piantato sulle rive dell’Eufrate. Ma il vento del Nord lo sradicò e le acque lo trascinarono via, finché Inanna – la dea dell’amore e della fertilità – non lo raccolse e lo piantò nel suo giardino sacro, per costruire con il suo legno il proprio trono e il proprio letto. Israele copia, dunque, Sumer? No. Israele condivide forse originariamente il patrimonio mitologico degli antichi popoli del Vicino Oriente, ma con una particolarità: la tradizione israelitica demitizza questo patrimonio, lo storicizza, infine lo interiorizza. Su ciò ci sono diversi punti di vista. Scrive André Neher (L’essenza del profetismo, Casale Monferrato 1984):
«Si parla spesso di demitizzazione a proposito del pensiero religioso biblico: il termine definisce con esattezza un certo processo al quale sono stati sottoposti miti, riti, idee, introdotti nella società ebraica o da essa adottati; l’ebraismo, affinandoli senza tregua, li ha modificati nella loro espressione e nel loro contenuto e li ha resi sempre piú logici e morali. Ma il termine ha un limite. Demitizzazione non significa piú nulla quando non c’è un processo, quando la materia sulla quale opera il pensiero ebraico gli è propria, è da esso elaborata e non presa a prestito. La demitizzazione non può farsi se non in virtú di forze contrarie a quella del mito, e di cui il pensiero ebraico dispone a titolo personale. Queste stesse forze hanno creato nozioni originali che non hanno dovuto misurarsi col mito e che caratterizzano, in proprio, il pensiero ebraico. Il racconto del Genesi è costruito su talune di queste nozioni. Rispetto al mito babilonese, non è un mito moralizzato; è cosa diversa dal mito. …Diversamente dal racconto babilonese, non è un tempo mitico che il racconto del Genesi sottende, ma un tempo storico, che il pensiero ebraico era il solo a concepire in tutta l’antichità».
E ancor di piú lo interiorizza il cristianesimo.
Il binomio deserto-giardino è presente anche nella civiltà egizia, dove però è una realtà statica, di tipo geografico. Gli Egizi dividevano il paese in due parti: la terra coltivata e fertile della bassa valle del Nilo, detta anche terra nera (Kemi, che era il nome stesso dell’Egitto), una terra che era il dominio del dio Osiride e di suo figlio Horus; l’altra era la terra rossa e sterile dei deserti che delimitavano la valle del Nilo, era il dominio del dio Seth, disseminata di tombe e abitata dagli uomini di pelle nera. Nessuna metamorfosi o contiguità fra le due terre: erano due realtà ontologicamente distinte.
Al contrario, tutta la religiosità ebraica nell’intera sua storia è segnata da questa esperienza spirituale e terrena del rapporto fra deserto e giardino, anzi dall’inestinguibile anelito di metamorfosi del deserto in giardino. Tutto il cammino di Israele potrebbe trasfigurarsi in questa metamorfosi, riscriversi in un vivido alfabeto d’immagini che rimbalzano dal tohu, il vuoto della creazione, al “giardino in Eden”, dal deserto della caduta (il suolo ostile di spine e di cardi cui Dio destina Adamo in Genesi 3, 18) al “soave profumo” che Yahweh avverte dalla terra riconsacrata da Noè dopo il diluvio (durante il quale la terra era ritornata “abisso”, tehom, come dice Gen 8, 2).
«Non maledirò piú il mio popolo…» dice il Signore dopo il diluvio (Gen 8, 21). L’arcobaleno diviene il segno visibile che benedice la nuova alleanza noachica, «il segno dell’alleanza tra me e la terra» (Gen 9, 13), la terra fattasi di nuovo giardino.
Il deserto non è però soltanto il luogo della prova, ma anche il luogo della Parola, come vuole un’etimologia popolare ebraica, che fa derivare midbar da dabar, parola. Infatti per Abramo, che si accampa nel Neghev, il deserto non è solo esperienza della carestia che lo porta a trasferirsi in Egitto, ma è anche esperienza della voce di Dio che gli preannuncia una grande discendenza, immensa come le stelle del cielo: «Alla tua discendenza do questo paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate» (Gen 15, 18). In realtà il testo ebraico riporta nattatí, “ho dato”: perché la parola di Dio è essa stessa azione (Midraš Rabbah, xxxiv, 22). Sarà Lot il primo a scoprire che tutta la valle del Giordano è «come il giardino del Signore» (kgan–Yhwh): «Lot levò gli occhi e vide tutta la piana del Giordano, che era interamente arrossata. Prima che l’Eterno distruggesse Sodoma e Gomorra, era fino a Soar come un giardino dell’Eterno, come il paese d’Egitto» (Gen 13, 10). Questa immagine di Israele idealizzato come giardino ritornerà nel Cantico dei cantici (4, 12-16), dove si legge con la parafrasi sefardita: «Sei un giardino recintato. …Risvegliati, o vento del Nord (o giustizia divina). E vieni, o vento del Sud (misericordia celeste). Soffia nel mio giardino (nelle case di studio), dove si spandono le sue fragranze (dove si approfondisce la Torà)».
L’esperienza mosaica del deserto/giardino
Il triangolo della penisola del Sinai è formato secondo la Bibbia da quattro deserti: a nord il deserto di Šur, a est il deserto di Šin e di Parân, al centro l’altopiano sabbioso di Badiet et-Tîh, separato da una depressione (il deserto di Šin) dal desolato massiccio roccioso della punta, dove si trova un monte di 2.637 m, il Jâbâl Kâtrînâ, presso il quale si trova ancora oggi il monastero di Santa Caterina.
Pur avendo suscitato nella lunga storia dell’anima ebraica risonanze mistiche e poetiche, profetiche e apocalittiche, l’esperienza del deserto del Sinai è un’esperienza reale e collettiva, esperienza di un piccolo “popolo” che insegue la sua terrena “volontà di destino”: raggiungere la terra futura, ’aretz. Scrive Armand Abécassis: «Dal deserto dei patriarchi a quello di Mosè e degli Ebrei il cambiamento è totale.
Innanzitutto il Genesi parla del deserto del Neghev, del deserto di Šur che si distende nella regione orientale del delta del Nilo, e del deserto di Parân a nord della penisola del Sinai. L’Esodo parla essenzialmente del deserto del Sinai. Peraltro l’esperienza dei patriarchi è individuale, mentre quella degli Ebrei è collettiva. …Nel Genesi i nomadi ebrei scoprono il Dio della promessa e della speranza. Nell’Esodo è un Dio della realizzazione e del compimento collettivo che li sollecita» (La pensée juive, Parigi 1987).
La traversata del deserto è sinonimo di dolore, che si concretizza nei pericoli stessi che sono legati al deserto.
La sete è il primo di questi pericoli. Nel deserto di Šur il popolo protesta contro Mosè perché vuole acqua; incontrano le acque amare di Mara e Dio compie il miracolo di addolcirle (Es 15, 22 sgg.). Successivamente nel deserto di Šin, presso Merivà, gli Israeliti protestano ancora contro Mosè e Aronne: «Perché avete condotto la comunità del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? …Non è un luogo dove si possa seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni e non c’è acqua da bere» (Num 20, 4 sgg.). Qui Mosè compie un altro miracolo: picchia per due volte con il bastone contro la roccia e ne sgorga l’acqua.
La fame è il secondo grande pericolo. Gli Israeliti, che si trovano nel deserto di Šin, mormorano contro Mosè e contro Aronne: «Ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine» (Es 16, 2). E anche qui Dio compie il miracolo della manna (man hû’, «che cos’è?»). Ancora nel deserto di Šin, dopo l’episodio di Merivà e la morte di Aronne, gli Ebrei protestano: «Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è pane né acqua e siamo nauseati da questo cibo cosí leggero» (Num 21, 5). Anche dopo la caduta della manna, a Tabera, nel deserto di Šin, gli Ebrei protestano per la fame (Num 11, 4-6) e sognano pesci, frutta, spezie.
La paura della morte è il terzo grande pericolo, strettamente legato ai pericoli precedenti, perché il deserto è il luogo dell’orrido: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi 40 anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Dio …ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua» (Dt 8, 2-15). Il deserto del Sinai è cruda materia, materia nella sua povertà e nel suo silenzio che solo il vento, unica voce del deserto, interrompe: il vento è l’anima del deserto: né animali né piante sembrano essere viventi.
Ma la traversata del Sinai non è solo tempo della prova, della paura e della sopportazione; è anche esperienza numinosa, pietra di fondazione della Legge mosaica: luogo dell’alleanza di Dio con il suo popolo (Es 3,19-20), luogo della rivelazione dell’“Io sono”, dell’ascolto della parola. «Io non ho parlato in segreto», dice infatti Dio al profeta Isaia (45, 19). Potremmo commentare questo versetto con alcune parole di Solomon Schechter, che toccano il delicato problema dell’elezione: «Per dare la Torah, Dio non ha atteso che Israele fosse entrato in Terra Santa, affinché Israele non potesse reclamarla per sé solo e pretendere che le altre nazioni non ne condividessero la proprietà. In altri termini, Dio non aveva intenzione di fare della Torah una religione nazionale. Egli ha dato la Torah in un luogo aperto a tutti, in un deserto senza proprietario, in modo che ogni uomo che ne senta il desiderio possa riceverla» (La pensée religieuse d’Israël, Parigi 1966).
Lo stesso concetto esprime A. Abécassis (op. cit.): «La vita nel deserto è una prova. …Il passaggio attraverso il deserto è la condizione essenziale della scoperta dell’umanità in ciascuno di noi, e della responsabilità collettiva del gruppo di fronte all’individuo e all’umanità intera. …Il Sinai è in realtà un luogo che non appartiene né all’Egitto né a Israele e dove però YHWH scelse di rivelarsi, come per significare la dimensione universale del particolare incontro che egli fa con il suo popolo».
L’esperienza mosaica del deserto, in cui il vissuto del profeta e il vissuto del popolo coincidono, si conclude con quell’ultima visione di Mosé, che dall’alto del monte Nebo guarda oltre il deserto di Giuda, e i suoi occhi vedono la luce e i colori del giardino della terra promessa che brillano lontani: è la prima visione della terra in cui scorrono latte e miele (Es 3, 17).
L’arrivo nella terra promessa coincide con il passaggio dal deserto al giardino, dalla vita nomade all’agricoltura: la terra diviene allora «terra di frumento, orzo, viti, fichi, melograni» (Dt 8, 8; 11, 11). Ma la paura dell’immaginario ebraico resta pur sempre il deserto: ricorda infatti il Levitico (cap. 26) che se Israele osserverà la Legge donata da Dio, allora egli darà le giuste piogge e «la terra darà prodotti e gli alberi della campagna daranno frutti. La trebbiatura durerà per voi fino alla vendemmia e la vendemmia durerà fino alla semina» (Lv 26, 5); ma se Israele contravverrà alla Legge, allora la minaccia di Dio è il deserto: «Ridurrò le vostre città a deserti …il vostro paese sarà desolato e le vostre città saranno deserte» (Lv 26, 31-33).
Nell’ebraismo moderno questo aspetto del giardino come controimmagine del deserto è ancora presente e attualizzato nella festività delle Capanne o Sukkòt (15 tishrí = ottobre). È una traccia della vocazione agricola, campestre, stanziale dell’antico Israele. «Profumo di cose lontane, ricordo di campi e di messi che conosciamo dai libri», sospira Dante Lattes (Nel solco della Bibbia, Bari 1953). La festa di Sukkòt si commemora con la costruzione di capanne coperte di frasche e decorate con fiori e frutta; dura sette giorni, ma solo il primo è festivo (i primi due giorni per la diaspora). È una festa di ringraziamento per il raccolto, la cui origine la Torah collega ai ripari temporanei che gli Ebrei si facevano durante le peregrinazioni nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto. Non solo, il rito di Sukkòt, ovvero la benedizione del lulàv, è in stretta connessione con la stagione delle piogge, che inizia in Israele dopo la fine di Sukkòt. Il lulàv è un fascio di arbusti, formato da un ramo di palma, di mirto e di salice (cfr. Lv 23, 40), che durante Sukkòt viene agitato dal rabbi e dai fedeli nelle varie direzioni, tenendo nell’altra mano un cedro (etròg). Si recitano i salmi dell’Hallel (113-118) e si fa il giro della sinagoga con il lulàv e l’etròg. Il settimo giorno di festa questa processione viene ripetuta per sette volte. Scrive ancora D. Lattes: «La capanna non dà il senso del nomadismo, dell’incerta e momentanea stazione lungo le strade del mondo, nei campi non tuoi; ma dà il senso – piú sereno e dolce – del rifugio tranquillo dopo il viaggio o l’esilio, della sede sicura anche nelle vaste solitudini. …Ciò che dà alla Sukkah valore e significato è il suo carattere positivo: cioè il voler essere antitesi alla schiavitú e al deserto …la letizia che viene al popolo dalla fecondità della terra benedetta da Dio: letizia sognata nel vagabondaggio del deserto. … Sukkòt è la festa per eccellenza, con cui poveri e ricchi rendono grazie a Dio per i doni del suolo dei quali tutti sono partecipi, per il sole e la pioggia che hanno fecondato i campi a favore di tutti».
Nella festa di Sukkòt si compiva la libagione delle acque, tanto che nella haftarah (brano profetico) di questa festa si ripeteva in relazione ai tempi messianici: «In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme» (Zc 14, 8). Il Cristo interiorizza, come meglio vedremo, questo ideale anelito verso il giardino, tanto che, secondo il racconto di Gv (cap. 7): «Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesú, levatosi in piedi, esclamò ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva, e chi crede in me, come dice la scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. Questo Egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui». La simbologia delle acque fecondatrici, l’ideale del giardino presente a Sukkòt sono rivissuti dal Cristo in chiave interiore, come dono dello Spirito, pienezza dell’Io.
L’esperienza profetica e sapienziale del deserto/giardino
Dopo il crollo della monarchia israelitica l’idea del deserto ritorna con forza nell’immaginario ebraico. Ma questa volta tale esperienza non è un vissuto collettivo, non è un’esperienza di popolo, ma un’esperienza individuale e profetica.
A viverla per primo fu Elia, che dapprima si reca nel deserto arido e roccioso di Giuda, per sfuggire ai nemici. Nella vicenda di Elia il deserto è innanzitutto il luogo archetipico del dialogo con Dio, luogo dell’Ascolto. Elia, infatti, cammina per 40 giorni e 40 notti e giunge al monte Oreb (Sinai): «Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco», gli dice infine Dio, ordinandogli di ungere Ieu come nuovo re ed Eliseo (Elisa‛ ben Safat) come nuovo profeta.
Ecco come il deserto, nell’esperienza profetica, torna a essere luogo della Parola, ma per chi è lontano da Dio esso è invece sinonimo di incombente punizione divina. Al re Acab (874-853), che aveva introdotto fra gli Israeliti il culto di Baal, Elia predice infatti un lungo periodo di siccità: «Per la vita del Signore, Dio d’Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada (Cfr. Is 26, 14, ove l’acqua è definita rugiada di luce) né pioggia, se non quando lo dirò io» (1 Re 17, 1). Elia vaticina il deserto, punisce i sacerdoti di Baal e sale in cima al monte Carmelo (il nome deriva da kerem, “frutteto, vigna”), dove invoca la pioggia, che non tarda a venire. Il monte diviene un giardino in miniatura: su questa collina, ricca d’acqua e alta appena 650 metri, crescono infatti viti, ulivi, pini e querce.
Ancora piú profonda e coinvolgente è la dialettica deserto-giardino nel testo del profeta Isaia (765-687?). Per Isaia il deserto è dimora di gufi, struzzi, iene, sciacalli, ricci, vipere e leoni (13, 21; 14, 23; 30, 6). Il bestiario è tutto un simbolo dei popoli che minacciano e deprèdano Israele. Isaia vive infatti nei tempi critici della minaccia dell’Assiria sui regni di Israele e Giuda, del sopravvento degli Assiri sulla Galilea e sulla Samaria, della tutela assira sul regno di Giuda, infine dell’assedio di Gerusalemme (701 a.C.) a opera di Sennacherib. La realtà politica, sociale, religiosa che Isaia vede è già un deserto; perciò la forza che Isaia rivela è tutta nella speranza profetica che lo induce a conformare immagini di metamorfosi di quel deserto in un futuro giardino, di quella terra di conflitti in un nuovo Eden. Da dove trae il profeta la forza di questa trasfigurazione? Dalla voce del deserto: «Voce di uno che grida nel deserto: raddrizzate le vie del Signore» (Is 40, 3). La voce del profeta si confonde con la voce dello šarav o del simún, il vento di Sud-Est che solleva turbini di sabbia e li sbatte con violenza contro le rocce.
Questa voce suscita in Isaia la visione del “deserto fiorito”, vera icona dei tempi messianici: «Si rallegrino il deserto e la terra arida (ziyah), esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sí, canti con gioia e con giubilo …scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa» (35, 1-2.6).
«Cambierò il deserto in un lago d’acqua, la terra arida in sorgenti. Pianterò cedri nel deserto, acacie, mirti e ulivi, porrò nella steppa cipressi, olmi insieme con abeti» (41, 18-19).
«Davvero il Signore ha pietà di Sion, ha pietà di tutte le sue rovine, rende il suo deserto come l’Eden, la sua steppa come il giardino del Signore» (51, 3).
«Ma infine in noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva. Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza. Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri, anche se la selva cadrà e la città sarà sprofondata» (32, 15-18).
«Poiché come la terra produce la vegetazione e come un giardino fa germogliare i semi, cosí il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutti i popoli» (61, 11).
Anche i successivi profeti tradurranno nell’immagine di un torrido e desolato paesaggio la sottomissione di Israele agli Assiri e Babilonesi. Geremia (4, 20-26) dice: «Guardai ed ecco la terra fertile era un deserto e tutte le sue città erano state distrutte»: è il tempo in cui Nabucodonosor occupa Gerusalemme e deporta a Babilonia il popolo ebraico.
Per Ezechiele, sacerdote e profeta deportato in terra babilonese, il deserto è l’emblema della diaspora: non paesaggio geografico, roccioso e selvaggio, ma momento aspro del giudizio, in quanto deserto dei popoli, dove la società è inospitale per lo straniero e dove questi vive appartato: «Poi vi farò uscire di mezzo ai popoli e vi radunerò da quei territori dove foste dispersi con mano forte, con braccio possente e con la mia ira traboccante vi condurrò nel deserto dei popoli e lí, faccia a faccia, vi giudicherò. Come giudicai i vostri padri nel deserto del paese di Egitto, cosí giudicherò voi, dice il Signore Dio» (Ez 20, 34-36).
Ma la speranza profetica, l’ideale del giardino infine trionfa: «Mi fu rivolta questa parola del Signore …: “Quella terra desolata, che agli occhi di ogni viandante appariva un deserto, sarà ricoltivata” e si dirà: “La terra che era desolata è diventata ora come il giardino dell’Eden”» (Ez 36, 35).
A partire da queste grandi esperienze profetiche si apre, per cosí dire, nella letteratura ebraica, il varco a un’esperienza piú interiore, piú personale della dialettica deserto-giardino.
Questo si riflette nella letteratura sapienziale, in special modo nel libro di Giobbe. Il deserto per Giobbe non corrisponde piú alla minaccia di un evento storico, ma è l’immagine della delusione, della solitudine, dello sconforto personale: è un deserto introiettato, tanto che Dio gli dice: «Chi ha scavato canali agli acquazzoni e una strada alla nube tonante, per far piovere sopra una terra senza uomini, su un deserto dove non c’è nessuno, per dissetare regioni desolate e squallide e far germogliare erbe nella steppa?» (38, 25-26).
La stessa immagine di deserto come aridità dell’anima, stato di abbattimento interiore ritorna nei Salmi, dove peraltro diviene la tipica condizione a partire dalla quale l’essere umano innalza la sua preghiera: «Sono simile al pellicano del deserto, sono come un gufo tra le rovine» (Sal 102, 7). Non c’è forse immagine biblica piú bella sul giardino, augurio piú ricco di quello contenuto nel salmo 92, un cantico del Giusto per il giorno del sabato, che cosí si conclude:
«Il Giusto fiorirà come la palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantàti nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio.
Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno vegeti e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore:
mia roccia, in lui non c’è ingiustizia»
(Sal vv. 13-16).
L’esperienza apocalittica del deserto: Qumrân
Quanto piú ci avviciniamo all’evento del Golgotha, tanto piú la condizione del deserto diventa prova ineludibile, necessità dello Spirito, tempo e spazio interiore in cui riaprire il dialogo con Dio.
L’invito del profeta Osea a far ritorno nel deserto, per cercare nelle sue solitudini il volto di Dio (2, 16; salmo 63) diventa realtà, grazie alla comunità essenica di Qumrân. Il centro essenico si trovava di fronte al monte Nebo, connesso alla morte di Mosè. Dalla catena montuosa del Nebo, Mosè contemplò la Terra promessa.
Ai solitari Esseni che vivevano sulla riva occidentale del mar Morto e che si consideravano il vero Israele, quel loro ritiro in una zona desertica e rocciosa doveva ricordare la peregrinazione dei loro padri nel deserto e accentuare il senso della liberazione messianica. Avevano scelto il deserto come i recabiti (Ger 35, 1-10; 2 Re 10, 15 ss), che rifacendosi all’antica religione del deserto avevano scelto di non bere vino, di non costruire case, di non possedere vigne o campi o sementi: «Noi abitiamo nelle tende».
La forza stessa di Qumrân è in questa frase: i solitari di Qumrân «saranno separati di mezzo al soggiorno degli uomini dell’ingiustizia per andare nel deserto a prepararsi la via di lui [Yahweh], come sta scritto (Isaia 40, 3): “Nel deserto preparate la via …appianate nella steppa una strada per il nostro Dio”» (IQS VIII, 13-14). Che il Messia sarebbe giunto dal deserto era credenza diffusa anche al tempo di Gesú, se è vero il detto di Mt 24, 26: «Se dunque vi diranno: “Ecco [il Messia] è nel deserto, non ci andate”». E altrove: «…i figli della luce porranno mano all’attacco contro il partito dei figli delle tenebre …gli esuli del deserto combatteranno contro di essi; …contro tutte le milizie, allorché gli esuli dei figli della luce ritorneranno dal deserto dei popoli (midbar ha ‘ammim) per accamparsi nel deserto di Gerusalemme» (IQM I, 3, Rotolo della guerra).
L’inno VIII (I manoscritti di Qumrân, Torino 1971) è tutta una poetica metafora intessuta del deserto e del giardino per illustrare il ruolo e il destino della comunità. L’autore ringrazia Dio perché, seppur nella terra arida del deserto, lo ha posto presso una sorgente, «presso acque irriganti un giardino nel deserto». Nel giardino crescono alberi acquatici (i peccatori), che però non riusciranno a emettere radici fino al ruscello; ma ci sono anche “alberi di vita”, dai quali sorgerà «un virgulto (neser) per la piantagione eterna»: la comunità stessa di Qumrân o il Maestro di giustizia.
«Gli alberi acquatici affonderanno come piombo, in acque impetuose, diverranno preda del fuoco e si seccheranno, ma la piantagione fruttifera crescerà e vivrà presso la fonte eterna per essere un Eden glorioso che fruttificherà per sempre». L’autore è cosciente che se coltiverà la piantagione, essa vivrà; «ma se ritraggo la mia mano», scrive, «diventerà come un cespuglio nella steppa e il suo tronco come ortiche in una salina…».
L’esperienza cristica del deserto e del giardino
Il Cristo rivive tutta l’esperienza biblica del deserto e del giardino. Se la traversata del deserto del Sinai durò 40 anni, Cristo la interiorizza rivivendola nei 40 giorni del deserto. Si ritira per 40 giorni nel deserto di Giuda per pregare, come i profeti (Mc 1, 35), e nel deserto sperimenta su di sé le tre tentazioni vissute dal popolo eletto nel Sinai: supera la sete di vita e di potere, la sfida a Dio di fronte alla morte, il ricorso al miracolo per placare la fame.
Il primo incontro avviene con Lucifero: è il terzo di Mt (4, 8) e il secondo di Lc (4, 5). [8] Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: [9]«Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». [10] Ma Gesú gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto». [11] Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano.
Nel secondo incontro (il secondo di Mt e il terzo di Lc) vede comparire Lucifero insieme con Ahrimane: «Non tenterai il Signore Dio tuo». [5] Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio [6] e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, gettati giú, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede». [7] Gesú gli rispose: «Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo».
Nel terzo incontro compare Ahrimane da solo, che sfida il Cristo a compiere ciò cui è costretto l’uomo sulla Terra: trasformare la materia in mezzo di sussistenza, la materia in denaro e quindi in pane. [1] Allora Gesú fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. [2] E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. [3] Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane». [4] Ma Egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
Il cristianesimo ricorda questa esperienza nel periodo della Quaresima (da quadragesima), i 40 giorni che vanno dal giorno successivo al Mercoledí delle Ceneri al tramonto del Giovedí santo, prima della messa in coena Domini e che anticamente coincidevano con il lungo periodo di preparazione dei catecumeni al battesimo o dei penitenti alla riconciliazione. La Quaresima fu adottata nel 384 e durava 6 settimane: in realtà 36 giorni perché nelle 6 domeniche non si digiunava. Quaranta giorni è un periodo altamente significativo spiritualmente: 40 giorni durò il diluvio universale; 40 giorni digiunarono Mosè, Elia, Cristo; 40 giorni intercorrono fra Pasqua e l’Ascensione; ma soprattutto 40 giorni, nei riti funebri di un gran numero di popoli, è il tempo massimo in cui l’anima (corpo astrale) si spoglia del corpo eterico; soltanto dopo 40 giorni comincia pertanto il suo vero viaggio nel Kamaloka (nel calendario ortodosso 3, 8, 40 sono infatti le date in cui si commemora il defunto recente).
Nella biografia umana 40 giorni è un periodo ideale di purificazione, di prova, durante il quale il nostro corpo astrale si distacca dalle impressioni veicolate dai corpi eterico e fisico: il corpo astrale si ritira in se stesso, si prepara a ricevere la Parola dal mondo dell’Ispirazione, la Pasqua. Oggi un tale significato è rimasto nella quarantena, il periodo di massima incubazione di una malattia.
Tutti nel nostro vivere quotidiano sperimentiamo prima o poi l’ahrimanicità del deserto, i 40 giorni trascorsi dal Cristo nel deserto: ogni giorno sentiamo la fame come bisogno di avere; sentiamo la paura della morte, non tanto della morte personale quanto della morte di ciò che è in nostro possesso, di ciò che ci appartiene; sentiamo la sete come desiderio della vita o dello Spirito. Sperimentiamo il deserto pietroso e riarso di Ahrimane sotto forma di materialismo, sperimentiamo l’isolamento dell’egoismo come l’indemoniato di Gerasa che vive in luoghi deserti (Lc 8, 29). Eppure, in ogni punto della nostra traversata quotidiana del deserto, possiamo trovare il Cristo, sotto forma di immagine del giardino.
La vicenda terrena del Cristo è infatti tutto un anelito al compimento del giardino, il cui primo scorcio compare – a voler seguire la fantasia del Beato Angelico – nella scena dell’Annunciazione: accanto alla casa di Maria si scorge un verde giardino con piante di rose e palmizi, e un cielo terso fa da sfondo al gesto dell’arcangelo.
Scrive infatti Giuseppe Flavio in La guerra giudaica (III, 10) che lungo il lago di Tiberiade «il clima è cosí temperato che si adatta alle piante piú svariate. I noci …vi crescono innumerevoli accanto alle palme …e vicino a loro fichi e ulivi. Si direbbe che la natura si sia compiaciuta di un simile sforzo per raccogliere sullo stesso suolo le specie piú diverse e che le stagioni si siano affrontate in benefica gara, cercando di imporsi ognuna in tale contrada. …L’uva e i fichi, delizie da re, li porta ininterrottamente per dieci mesi».
Ma è soprattutto al termine della vicenda umana del Cristo che troviamo il giardino. «Ora nel luogo ove era stato crocifisso vi era un giardino (kêpos) e nel giardino vi era un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto. Là dunque deposero Gesú» (Gv 19, 41-42). E come kepouròs, giardiniere, il Cristo appare a Maria di Màgdala. La prima sembianza del Risorto è quella di giardiniere: la stessa sembianza del Dio del Genesi che crea un giardino in Eden e vi pone l’uomo. Il Cristo è risorto in un giardino per compiere tutta la speranza millenaria di Israele, ma soprattutto perché, come nuovo giardiniere, come il Dio biblico, giardiniere dell’Eden, ricrea e rimodella l’uomo daccapo, donando a lui l’Io Sono, innestando un uomo nuovo sull’uomo vecchio. Scrive infatti Paolo: «Qui non c’è piú greco o giudeo, barbaro o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Colossesi 3, 11).
Nella sera del Giovedí Egli aveva dato l’addio ai discepoli promettendo la pace (Gv 14, 27: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace»); la sera della Resurrezione giunge fra gli undici e annuncia la pace dicendo šalom: non la pace cercata dal mondo con la forza, dopo ogni atto di forza, ma una nuova pace sorta dal sacrificio. Con il mantra della pace, šalom, il Cristo guarisce la mérimna, la sollecitudine ansiosa, l’affanno che ci viene dal mondo. La pace del Cristo è pace riconciliatrice fra Israele e gli altri popoli, fra via del Giusto e via dell’Iniziato (Ef 2, 14-21).
L’immagine del giardino del Cristo si concretizza talvolta in un frutto: la vite. I profeti avevano visto nella vite (assieme all’ulivo o al fico) un simbolo messianico: dice infatti Michea: «Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico e piú nessuno li spaventerà» (Mi 4, 4), oppure Zaccaria: «In quel giorno – oracolo del Signore degli eserciti – ogni uomo inviterà il suo vicino sotto la sua vite e sotto il suo fico» (Zc 3, 10). Oppure secondo la bella immagine poetica di Isaia: «Il popolo d’Israele è la vigna del Signore degli eserciti e gli uomini di Giuda la piantagione preferita» (5, 1-7); se questa vigna non produce, Dio minaccia che ne farà un deserto.
In ambito cristiano il simbolismo della vigna ritorna come metafora dei tempi futuri: il Regno dei Cieli in Terra, come nella parabola dei vignaioli di Matteo (21, 28-46); ma soprattutto raggiunge il suo acme in un loghion del Cristo: «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti piú frutto» (Gv 15, 1-2).
La Scienza dello Spirito insegna che dopo la morte fisica il corpo eterico si distacca in tre giorni dall’unità Io-corpo astrale e impiega 40 giorni per disperdersi nella sua sfera: il Sole. Cosí sarebbe dovuto avvenire anche per il Cristo: il suo corpo fisico, come sappiamo, dopo il Golgotha era penetrato nelle viscere della Terra, a causa del terremoto, mentre il corpo eterico avrebbe dovuto seguire il suo cursus naturale. Ma, se cosí fosse avvenuto, per la condizione di decadenza raggiunta già prima del Golgotha, la Terra si sarebbe gradualmente trasformata in deserto, luogo vuoto e inospitale, dal quale la vita umana sarebbe definitivamente fuggita, quasi andata in esilio, per trovare nuova sede sul Sole, l’antica patria della vita eterica. Allora ha luogo un fatto straordinario, che completa l’evento del Golgotha sul piano cosmico: «Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme …Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo» (Atti 1, 4-9).
Quando 40 giorni dopo la Resurrezione il corpo eterico del Cristo Gesú sarebbe dovuto ascendere definitivamente verso la sfera del Sole, dall’alto il Cristo trattiene le forze eteriche sulla Terra: unisce per sempre le sue forze eteriche, vitali, solari a quelle dell’umanità. E i piú vicini discepoli del Cristo, che si erano abituati in quei 40 giorni a contemplare le apparizioni del Risorto, scorgono questo fenomeno e ne parlano come se si trattasse di una Ascensione. L’Ascensione è uno dei tanti segni per esprimere che il Cristo ha preso su di sé non solo l’anima umana, ma tutto il destino della Terra, affinché la Terra possa vincere la tentazione di diventare orrido deserto di Ahrimane e scegliere invece di essere il giardino di Cristo.
Gabriele Burrini (11. continua)
In India: giungla/Himalaya = percorso di liberazione
In Israele: deserto/giardino = percorso di resurrezione