Secondo la profezia di Giovanni il Battista, il Cristo sarebbe venuto a battezzare «in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3, 11).
Una profezia che il Cristo conferma dicendo: «Io sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra e voglio solo che esso arda» (Luca 12, 49). Questo dono del Fuoco si realizzerà con la Pentecoste, ovvero 50 giorni dopo la Pasqua. Quel Cristo che apparve a Mosè sotto forma di Roveto ardente, a Isaia sotto forma di Serafino, ricomparirà ai primi cristiani durante la Pentecoste.
«[1] Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. [2] Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempí tutta la casa dove si trovavano. [3] Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; [4] ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi» (Atti 2, 1-4).
Anticamente la Pentecoste era la festa della mietitura ed era detta “festa delle settimane” (hag ha-šavu’ot) o “festa delle primizie” (bikkurim). Era la festa delle primizie del frumento e si contava cosí: nel secondo giorno di Péssah (Pasqua delle massot, delle azzime) si faceva al Tempio l’offerta di una misura d’orzo (il cereale piú precoce) pari a un ‘omer (3 litri), letteralmente “un manipolo di cereali in spiga”; da quel giorno – la sera del 16 nissàn, dopo lo spuntare delle stelle – si contavano 7 settimane, e il 50° giorno si offriva un prodotto derivante dal nuovo raccolto di frumento: l’offerta consisteva in 2 pani fatti con 2 decimi di fior di farina cotti e lievitati.
Prima simbologia. Interpretando la simbologia della Pentecoste alla luce del sacrificio del Cristo, possiamo dire che gli undici apostoli sono la primizia dell’umanità scelta dal Cristo. La Pentecoste è un’anticipazione del futuro dono del Paraclito, perché la vera Pentecoste dell’umanità deve ancora venire: sarà l’aurora sofianica della nuova Terra, descritta in Apocalisse 21. La Pentecoste è dimensione del futuro, eppure il Mondo spirituale può concederla come esperienza interiore a rari esseri, accordando loro i doni dello Spirito: quello Spirito Santo che accese gli apostoli. Se infatti nel sesto giorno della creazione Dio diede all’uomo un alito dello Spirito, un solo alito della ruach di vita, successivamente ha donato questo alito ai profeti, agli eletti dal Signore; il Cristo ora dà potenzialmente a tutti gli uomini, con la Pentecoste, lo Spirito Santo, la ruach qodeš. Ciò che nell’Antico Testamento viene dato a pochi eletti, a un solo popolo, grazie al Cristo viene elargito virtualmente a tutti, secondo un nuovo ideale universalistico. Per questo viene detto che è reo di colpa eterna colui che bestemmia contro lo Spirito Santo (Mc 3, 29). L’uomo che riceve lo Spirito Santo della Pentecoste è perciò potenzialmente anch’esso un nuovo Adamo, proprio come il Cristo. Infatti «le tradizioni popolari bizantine associate alla Pentecoste fanno pensare che l’effusione dello Spirito è realmente un’anticipazione della trasfigurazione cosmica; la decorazione tradizionale delle chiese con verde e fiori in quel giorno riflette l’esperienza della nuova creazione [J. Meyendorff, La teologia bizantina, Casale Monferrato, 1984]. Nicola Cabasilas (1320-1390) sottolinea questo aspetto della Pentecoste come nuova creazione in De vita Christo (iv, 6): «Dio non ci ricrea della stessa materia con la quale ci ha creati; infatti fece il primo uomo prendendo il fango della terra, ma per la seconda creazione dà il proprio corpo, e per rianimare la vita non si limita a fare l’anima piú bella lasciandola però alla sua natura, ma versa il Suo sangue nel cuore degli Iniziati, facendo sorgere in essi la Sua vita. Allora egli inspirò un alito di vita, ora ci comunica il Suo Spirito».
Il verde è il colore dello Spirito Santo perché grazie ad Esso, grazie al dono del Paraclito annunciato dal Cristo in coena Domini, anche l’uomo risorge in un giardino.
Seconda simbologia. Dopo l’esilio babilonese, l’antica festa della Pentecoste fu vista in connessione con la rivelazione del Sinai, in quanto in Esodo 19, 1 si dice che gli Ebrei arrivarono al Sinai il terzo mese dopo l’uscita dall’Egitto: dopo l’esilio, la Pentecoste fu sentita come commemorazione dell’Alleanza e del Decalogo. Anche se gli Atti non accennano alla Pentecoste cristiana come nuova Alleanza, è innegabile che nello sviluppo del cristianesimo essa è divenuta il giorno del Nuovo Patto, della fondazione dell’Ecclesia.
Insegna Rudolf Steiner (Il quinto Vangelo, O.O. N° 148): «A partire dalla Pentecoste, l’entità del Cristo è sulla Terra presso le anime umane, prima non era presso le anime umane sulla Terra. Ciò che l’entità del Cristo percorse tra il battesimo di Giovanni e la Pentecoste avvenne affinché la dimora di un Dio nei mondi spirituali potesse venir scambiata con la dimora nella sfera terrena». Il Cristo elegge la Terra a sua dimora.
La Pentecoste nella mistica cristiana. Nel libro La Gerarchia celeste, Dionigi l’Areopagita, il capostipite del misticismo esoterico cristiano, attribuisce al fuoco il piú alto valore di simbolo spirituale. Che cosa si cela dietro il simbolismo del fuoco, secondo l’Areopagita? In quanto immagine spirituale, il fuoco non ha nel sistema dionisiano soltanto un valore catartico e illuminativo, ma proprio valore iniziatico, sia perché – viene detto – questo elemento è ciò che in natura è piú simile al Divino, sia perché esso è l’attributo specifico dei Serafini, la piú alta Gerarchia. Il fuoco («luminoso e occulto» si legge nella Gerarchia celeste) dunque è il simbolo mistico con cui si rivela, ma sotto cui si cela anche quella Iniziazione, che sotto il segno del fuoco si era compiuta per i discepoli del Cristo con l’evento della Pentecoste. Va infatti detto che nel linguaggio dionisiano mystikòs, al contrario dell’accezione moderna che vi vede qualcosa di attinente a un moto emozionale o a un rifiuto del mondo, conserva ancora il significato di “misterico, iniziatico”. E cosí spiegava anche il medievale Roberto Grossatesta nel suo commento alla Teologia mistica: «Le realtà piú segrete e piú occulte, e per noi piú oscure e nascoste, sono le piú spirituali, e perciò quando ci vengono rivelate e insegnate, noi le chiamiamo mistiche» [Secretiora enim et occultiora et nobis obscuriora et clausa magis sunt spiritaliora et ideo cum per nobis manifestiora significantur et edocentur, dicuntur communiter mystica].
Come massima espressione mistica della simbologia del fuoco Dionigi suggerisce la visione di Isaia (cap. 6) del Serafino dalle sei ali, tanto che possiamo supporre che la meditazione sul Fuoco cristico, nella forma di contemplazione del Serafino dalle sei ali, fosse la piú alta meditazione insegnata dalla scuola esoterica cristiana di Dionigi l’Areopagita.
Il Fuoco è infatti per Dionigi l’elemento che meglio simboleggia il Logos: «…è invincibile, puro, inalterabile, teso in alto, libero da ogni basso cedimento, abbraccia senza essere afferrato …Ben consci di ciò, i conoscitori del Divino hanno rappresentato le entità celesti sotto la specie del fuoco, per dimostrare che la loro natura è fatta il piú possibile a somiglianza e ad imitazione del Divino» (Gerarchia celeste, XII, 2).
Questa particolare immagine simbolica del Serafino dalle sei ali infuocate, che possiamo chiamare l’icona del Fuoco-Cristo, dovette essere per la scuola esoterica cristiana, la scuola dell’Areopagita, la meditazione fondamentale. Essa ritorna infatti in un testo del ciclo del Graal. Nell’Estoire del Saint Graal, opera in lingua d’oil di un anonimo del XIII secolo (Genova 1981) si legge: «Iosefo [figlio di Giuseppe d’Arimatea]… vide all’interno dell’arca [che conteneva la Sacra Coppa] un uomo che indossava una veste piú rossa del fuoco vivo e i cui piedi, le cui mani e il cui viso erano del medesimo colore. Attorno a lui stavano cinque angeli, ognuno con sei ali, essi pure rossi come il fuoco» [gli Angeli recavano i simboli della Passione]. Ora quel ch’è singolare è che una visione analoga a quella di Isaia la ebbe San Francesco d’Assisi sulla Verna, al momento di ricevere le Sante Stimmate. Nel caso di Francesco d’Assisi, l’immagine del fuoco suggella il momento piú alto, e pentecostale, della Sequela Christi sperimentata dal santo italiano. Rileggiamone il racconto.
Terza Considerazione delle sacre sante Istimate. «Santo Francesco …comincia a contemplare divotissimamente la passione di Cristo e la sua infinita carità. E crescea tanto il fervore in lui della divozione, che tutto sí, si trasformava in Gesú, e per amore e per compassione. E istando cosí infiammandosi in questa contemplazione, in quella medesima mattina e’ vide venire dal cielo uno Serafino con sei ali risplendenti e affocate; il quale Serafino con veloce volare appressandosi a santo Francesco, sí ch’egli il potea discernere, e’ conobbe chiaramente che avea in sé l’immagine d’uomo crocifisso, e le sue alie erano cosí disposte, che due alie si distendeano sopra il capo, due se ne distendeano a volare e l’altre due sí copriano tutto il corpo. Veggendo questo, santo Francesco fu fortemente ispaventato e insieme fu pieno d’allegrezza e di dolore con ammirazione. Avea grandissima allegrezza del grazioso aspetto di Cristo, il quale gli apparía cosí dimesticamente e guatavalo cosí graziosamente: ma d’altra parte veggendolo crocifisso in croce, aveva smisurato dolore di compassione. Appresso si maravigliava molto di cosí istupenda e disusata visione, sapendo bene che la infermità della passione non si confà colla immortalità dello ispirito serafico. E istando in questa ammirazione, gli fu rivelato da colui che gli apparía, che per divina provvidenza quella visione gli era mostrata in cotale forma, acciò ch’egli intendesse che, non per martirio corporale, ma per incendio mentale egli doveva essere tutto trasformato in nella espressa similitudine di Cristo crocifisso. …E nella detta apparizione serafica Cristo, il quale apparía, sí parlò a santo Francesco certe cose secrete ed alte, le quali santo Francesco in vita sua non volle rivelare a persona, ma dopo la sua vita il rivelò …e le parole furono queste: “Sai tu – disse Cristo – quello ch’io t’ho fatto?
Io t’ho donato le Stimate, che sono i segnali della mia passione, acciò che tu sia il mio gonfaloniere”. …Disparendo dunque questa visione mirabile, dopo grande spazio e segreto parlare, lasciò nel cuore di santo Francesco uno ardore eccessivo e fiamma d’amore divino, e nella sua carne lasciò una meravigliosa immagine ed orma delle passioni di Cristo. …Gesú Cristo crocifisso …gli era apparito in ispezie di Serafino» (Tommaso da Celano, Le Fonti Francescane).
Il dono del Cristo-Fuoco fatto a Francesco d’Assisi era la mèta ideale ricercata dalla scuola dionisiana dei primi secoli del cristianesimo, oltre che un motivo artistico assai presente nell’iconografia medievale e nell’angelologia cristiana. Questa nozione spirituale risuonerà fino alla soglia dell’età moderna presso un autore che si pone sulla stessa linea della teologia apofatica di Dionigi l’Areopagita, il cardinale tedesco Niccolò Cusano (1401-1464). Questo autore, che ormai è alle soglie dell’epoca dell’anima cosciente, scriverà ne La dotta ignoranza: «Cristo è come fuoco purissimo, inseparabile dalla luce e sussistente non in sé, ma nella luce; è quel fuoco spirituale della vita e dell’intelletto che, consumando tutte le cose e tutte accogliendole in sé, tutte le sottopone a prova e a giudizio, come fosse il giudizio del fuoco materiale che tutto sottomette ad esame» (III, 233).
L’esperienza biblica del Fuoco – sia mosaica sia profetica – fu in fondo una grandissima esperienza del Divino sotto le sembianze del Fuoco; ma il popolo ebraico la visse come Fuoco-Padre, immagine ignea e abbagliante del Trono di Dio (Merkavà). Questo Trono è maestoso, incommensurabilmente lontano dall’uomo, trascendente. Ad esso si possono riferire le parole di Dt 4, 24: «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore». In questa fase della civiltà il sentimento religioso che si è giovato dell’esperienza spirituale del Fuoco, l’ha elaborata dalla volontà, dalle forze del volere.
Quando quel principio-Fuoco contemplato da Mosè nel Roveto ardente sul monte Sinai si fa uomo, allora l’esperienza del Divino come Fuoco si trasfigura nella percezione delle “lingue di fuoco” della Pentecoste: il nuovo uomo, rinato grazie al Cristo, sente – come dice Rudolf Steiner nella seconda conferenza de Il Quinto Vangelo (O.O. N° 148) – di essere fecondato dall’Amore onnioperante, dall’Amore cosmico: «Gli apostoli apparvero alla gente come trasformati, come uomini che avessero acquisito un nuovo atteggiamento, una nuova disposizione d’animo, come uomini che avessero perduto nella vita ogni ristrettezza d’animo e ogni egoismo».
Successivamente, da Dionigi fino a Niccolò Cusano, l’esperienza del Cristo-Fuoco vissuta dai mistici si presenta sotto forma di immagine del Serafino dalle sei ali infuocate e in Francesco – per la tipica via del sentire francescana – sotto forma di Serafino crocifisso. Questa esperienza medievale coincide tutta con una lunga parabola che parte con l’Areopagita e culmina in Francesco, grazie al quale l’esperienza del Fuoco si presenta come frutto di una disciplina interiore gravitante sul sentire.
Nei secoli successivi alla Controriforma, la mistica cattolica ridusse quest’esperienza interiore del Cristo-Fuoco a struggente venerazione del Cuore sanguinante e infiammato di Gesú, sempre piú visto come “uomo del dolore”. L’antica esperienza trasfigurante del Fuoco ormai si smarriva nell’estremo soggettivismo dei sentimenti.
Eppure qualche traccia dell’originaria esperienza del Cristo-Fuoco si conservò nell’Europa del ‘500 grazie al cristianesimo esoterico e giovannita caro agli alchimisti. Lo attesta la Lettera sul Fuoco filosofico, attribuita all’umanista italiano Giovanni Pontano (1426-1503). Gli alchimisti distinguevano perlopiú tre tipi di fuoco, come dire tre tipi di Io: un fuoco naturale, diremmo saturnio, che nell’essere umano è espresso dagli istinti, quindi dal volere (anima senziente); un fuoco «antinaturale», detto anche “Vulcano lunatico” (Fulcanelli, Les Demeures philosophales, Parigi 1965), identificabile con l’incostante fiamma del sentire (anima razionale-affettiva); e un Fuoco soprannaturale o filosofico, identificabile con l’anima cosciente, la pienezza dell’Io.
Su questo Fuoco puramente immateriale dell’Io Pontano scrive: «Questo Fuoco filosofico è segreto, non brucia la materia, niente separa dalla materia, né divide le parti pure dalle impure, come dicono tutti i filosofi, ma converte in purità tutto il soggetto. …Non proviene dalla materia …non s’infiamma, non si consuma. …È insieme un fuoco naturale, antinaturale e soprannaturale …soltanto per mezzo di una profonda riflessione si riesce a trovare quel fuoco. …Se tu indagherai bene e profondamente le cose sante, conoscerai la proprietà del fuoco. …Il fuoco non si trasmuta insieme alla materia, perché non è materia».
Alla fine della Lettera Pontano suggerisce una meditazione alchemica: «Prima fatti padrone assoluto delle tue passioni, dei tuoi vizi, delle tue virtú; devi essere il dominatore del tuo corpo e dei tuoi pensieri, poi [ci vogliono anni] accendi o sveglia, per meglio dire, nel tuo cuore, per immaginazione, il centro del Fuoco; cerca di sentire dapprima una specie di caloricità lieve, poi piú forte. Fissa tale sensazione nel tuo cuore. Dapprima ti parrà difficile; la sensazione ti sfuggirà; ma cerca di mantenerla nel cuore; rievocala, ingrandiscila, diminuiscila a piacere; sottomettila al tuo potere; fissala e rievocala a volontà. Prova e riprova. Impadronisciti di questa forza e conoscerai il Fuoco sacro o filosofico».
Anche noi nel nostro tempo possiamo vivere l’esperienza del Fuoco spirituale e lo possiamo fare in modo sempre piú interiore, in un modo piú attinente alla sfera del pensare. Parlando del significato della Pasqua dirà infatti Rudolf Steiner in una conferenza dell’11 aprile 1909 (O.O. N° 109), che «il cristianesimo ha aggiunto agli antichi Misteri i Misteri del sangue, i Misteri del fuoco umano». Questo mistero del sangue e del Fuoco ritorna nella meditazione centrale insegnata da Steiner nella Scienza occulta (O.O. N° 13). Ciò che per il cristianesimo mistico dei primi secoli fu la contemplazione del Cristo-Fuoco, ciò che per il ciclo del Graal e l’esperienza mistica dei grandi santi fu l’esperienza del Serafino dalle sei ali infuocate, nel cristianesimo michaelita del futuro sarà la meditazione data da Rudolf Steiner sulla Rosacroce. Perché il principio-Fuoco penetrato in ogni uomo è divenuto Io umano, anzi sangue, che è il veicolo dell’Io, promessa di Resurrezione per ciascuno di noi. Non soltanto come semplice momento individuale, bensí come momento comunitario, come unione delle volontà, come fraternità spirituale: questo è il segreto della Pentecoste.
Dopo il processo dinamico che verte sul vegetale e sul confronto di esso con l’uomo, Rudolf Steiner scrive: «Ci si rappresenti una croce nera. Questa dev’essere il simbolo per i distrutti elementi inferiori di istinti e passioni, mentre là dove le braccia della croce si incrociano, bisogna raffigurarsi sette rose raggianti, ordinate in circolo. Queste rose saranno il simbolo del sangue che esprime le passioni e gli istinti purificati».
Il ciclo del 7 x 7 = 49. Il ciclo 7 x 7, che si corona nella Pentecoste, avvenuta il 50° giorno, non ha soltanto un significato storico, connesso allo specifico evento del dono dello Spirito Santo agli apostoli. Questo ciclo ha anche un valore universale, cosmico: come se il tempo impiegato dal Cristo per effondere il Fuoco pentecostale sugli apostoli dovesse anche essere ripercorso dalla Terra nel suo cammino evolutivo.
Questa verità fu intuita profeticamente da una grande personalità spirituale del Medioevo, ancora in buona parte sconosciuta: Gioacchino da Fiore. Questo monaco calabrese (1145-1205) suddivideva, nella Concordanza dei due Testamenti e nel Libro delle Figure, la storia dello Spirito in età del Padre (storia biblica = Antico Testamento), età del Figlio (Nuovo Testamento = gli anni della cristianità), età dello Spirito Santo (età della spiritualità monastica): alla Chiesa di Pietro, dominante nella seconda età, farà seguito la Chiesa di Giovanni, che irradierà la terza età dello Spirito attraverso la predicazione di sette ordini monastici, che corrisponderebbero, secondo l’abate calabrese, alle sette Chiese destinatarie delle sette lettere dell’Apocalisse. Sono sette tappe temporali e spaziali della spiritualità della terza epoca – pari ai sette giorni della creazione. In realtà, mentre le prime cinque si riferiscono a Ordini religiosi già esistenti nell’età del Figlio (la quinta è l’Ordine benedettino), le ultime due tappe – ovvero Filadelfia e Laodicea – dice Gioacchino «sono già nel trapasso al terzo status»: si tratta di due Ordini futuri. Per Gioacchino infatti l’età dello Spirito si sarebbe aperta intorno al 1260: questa data proviene da 42 generazioni per 30 ciascuna.
Potrà apparire strano, ma nel Medioevo un’altra corrente spirituale condivideva questo punto di vista sul simbolismo del 7 x 7: la Qabbalah medievale. Il Libro della Figura (Sefer ha Temunah), un’opera anonima, composta all’inizio del xiii secolo, in Provenza o in Catalogna (circolo ‘Iyyun) sostiene che, nel quadro della concezione emanazionistica delle sefirot, ciascuna delle sette sefirot inferiori (corrispondenti ai primi sette giorni della creazione) dà vita, di volta in volta, a una creazione a sé stante, a un mondo vero e proprio. Nel senso che ogni singola sefirah anima del proprio contenuto un mondo destinato a durare 7.000 anni, ovvero un’intera «Settimana cosmica», in base al fatto che mille anni della creazione equivalgono a un giorno di Dio (Sal 90, 4). Una volta trascorso il Sabato cosmico, ogni mondo ritorna nella condizione di iniziale “informità” (tohu, Gen 1, 2). A quel punto subentra la successiva sefirah che dà vita a una nuova Settimana cosmica. «Dopo sei millenni, la sefirah che contiene la forza del sabato e del riposo fa sentire la sua azione, e il mondo festeggia un sabato per ritornare, alla fine del settimo millennio, al caos» (Scholem 7). Il concetto che sostiene questa concezione è, in fondo, quello esposto nel cap. 15 del Dt sotto il nome di šemittah, che vuol dire “remissione dei debiti, anno sabbatico”: secondo questa norma, ogni creditore cancellerà nel settimo anno il suo debito, ogni padrone dopo sei anni darà la libertà ai suoi servi, perché «a causa di ciò l’Eterno ti benedirà in tutte le tue opere e in tutto ciò cui porrai mano» (Dt 15, 10). Oltre all’anno sabbatico, la Scrittura considera un altro aspetto del principio del settenario: l’anno giubilare (yovel), detto cosí perché la sua apertura veniva annunciata dal suono di un corno (yovel) ogni cinquantesimo anno (Lv 25, 8-11).
Ora, come al ciclo di 7 anni (settennio) corrisponde il settennio cosmico («settimana cosmica»), cosí all’anno sabbatico corrisponde il giubileo cosmico, per cui dopo 49.000 anni la creazione ritorna alla Madre dei mondi, cioè a Binah (base della Trinità).
Anche la Scienza dello Spirito offre un insegnamento molto simile sul piano tipologico, sebbene diverso per i contenuti. Nel ciclo di conferenze sull’Apocalisse (decima conferenza) Rudolf Steiner offre un quadro dell’evoluzione tutto basato sul sette: l’uno inscritto nell’altro, ci sono sette epoche di civiltà (siamo alla 5a), sette ère (polare, iperborea, lemurica, atlantidea, postatlantidea), 7 sigilli, 7 trombe, 7 stati di forma, 7 stati di vita, 7 stati di coscienza (Saturno, Sole, Luna, Terra, Giove, Venere, Vulcano). Vengono le vertigini a immaginare realtà spirituali cosí lontane da noi: come se ancora dovessimo aspettare che lo Spirito scenda sulla Terra, quasi che anche noi dovessimo aspettare il Messia. Ma il Messia è già venuto: è sempre presente sulla Terra e lo possiamo sperimentare anche, nei nostri pensieri e nel nostro sentire, con le immagini di Fuoco.
Nel Calendario dell’anima l’ultima strofa del periodo di primavera – compresa fra la Pentecoste e San Giovanni (13ma settimana) – ci richiama a queste immagini di Fuoco:
«Quando sono al colmo della vita dei sensi,
dagli infuocati mondi dello Spirito
sento fiammeggiare in fondo all’anima
questa divina parola di verità:
“Nelle profondità spirituali
consapevolmente cerca
di ritrovare te stesso simile allo Spirito”».
Gabriele Burrini (13. Fine)