Anche restando nei limiti della stretta ragione, si può descrivere che cosa sia la Patria e che cosa voglia dire l’averne una. Ma piú che narrare e descrivere non si può. A chi non la conosce, a chi non l’ha mai conosciuta, si può trasmettere l’astratta nozione di Patria, si può far capire che cosa si prova quando si ha una Patria e che cosa si perde non avendone o non avendone piú una, si può suscitare nostalgia o rimpianto in chi l’ha perduta, o desiderio di intravederne il volto in chi non l’ha mai conosciuta, cosí come si può, con un racconto colorito e vivace, con una pagina intensa e poetica, far sorgere in qualcuno un sentimento d’amore per una terra in cui non è mai stato, o per una città che non ha mai visitato.
Ma non si può dare a nessuno la percezione della Patria, quando la Patria non c’è; e non si può evocarne la rappresentazione in un’anima che non ne ha mai albergata l’immagine. Cosí – per fare un esempio tra i tanti possibili – si può descrivere a un cieco il mondo luminoso e colorito che anche lui ha intorno; gli si può parlare dell’effetto rivelatore di un raggio di luce che entra in una stanza, descrivergli gli oggetti che uno dopo l’altro appaiono emergendo dal buio, provare persino a fargli intendere che quegli oggetti si distinguono perché hanno colori diversi, ma non si potrà mai portarlo a cogliere la dimensione e la profondità di quella stanza e la varietà del suo contenuto, né si potrà comunicargli la sensazione viva che producono il rosso e l’azzurro, il giallo e il verde se non ha organi per vedere né immagina che questi esistano.
Riguardo alla Patria, gli italiani di questo secolo sono quasi tutti ciechi, e – ormai per ragioni anagrafiche – in larga misura ciechi nati. È ben vero che non è la loro insensibilità a privarli della Patria, che si è allontanata e poi dissolta per proprio conto, ma avviene a loro come a certe specie animali che, vivendo in caverne da alcune generazioni, non hanno piú gli organi di senso che un tempo avevano, e restano quindi in un buio che è oggettivo e soggettivo, generato in egual misura dalla mancanza di luce e dalla loro cecità acquisita.
Cosí gli italiani d’oggi non hanno intorno a loro la concreta realtà della Patria, ma non hanno nemmeno piú l’organo con cui potrebbero percepirla se ci fosse. Da tanto sono privi dell’una e dell’altro, che non ne sentono la mancanza. E non credono nemmeno piú che potrebbero – o dovrebbero – fare qualcosa per riguadagnarsi una Patria, o per rivitalizzare l’organo necessario a vederla.
Il problema …dell’identità nazionale italiana nella sua nascita e nella sua formazione si traduce quindi necessariamente in quello delle origini e cause della sua attuale inconsistenza e impercepibilità. Su questi due caratteri – o non-caratteri – non è necessario insistere, perché a comprovarli bastano le ultime annate di qualsiasi quotidiano. …La ricerca si dirige naturalmente a risalire per molti secoli, fino a cogliere il momento in cui altre identità emersero intorno all’Italia, trovando la capacità o la possibilità – che all’Italia mancò – di consistere in uno Stato nazionale.
Un punto di partenza diviene quindi nettamente visibile, e chiare ne sono anche le conseguenze, perché Francia, Inghilterra e Spagna, che hanno avuto il tempo di svilupparsi e maturare all’interno di un edificio statale, e sotto il segno unificatore e orientatore di un potere regio, non devono andare di volta in volta a cercarsi un’identità nazionale che già possiedono, e che le mette in grado di riemergere intatte dalle prove piú dure e dalle piú devastanti tempeste.
Ma questi dettagli non sono decisivi. Molto piú importante è l’opposta polarità che si manifesta in Italia tra la tendenza verso l’Occidente e l’appartenenza centroeuropea. Questa polarità si presenta inizialmente proprio nel momento in cui a Occidente – e solo a Occidente – si enucleano i grandi Stati nazionali, mentre nella fascia centrale che va dal Baltico al Mediterraneo, e che aveva costituito la base e la sostanza dell’Impero medievale, non si distaccano e si modellano in grandi unità storico-politiche le Nazioni che ne fanno parte.
È come il segno di un destino e di una missione comune, che riemerge quando infine e nello stesso tempo Italia e Germania avviano e conducono il processo unitario che non avevano compiuto sei secoli prima, e assumono a loro volta la caratteristica forma degli Stati nazionali. La forma, ma non la sostanza, perché in quella che era stata l’antica terra dell’Impero si innestano ormai impulsi di diversa natura, che inducono i popoli a premere per trasferirsi all’interno delle strutture pubbliche, diversificandole quindi organicamente e qualitativamente da quelle sorte e stabilizzate a Occidente. Origine prima, questa, del successivo processo che, di nuovo in singolare contemporaneità, fa sorgere in Italia e in Germania i due regimi destinati a stringersi insieme e a sfidare il mondo.
Ci troviamo quindi di fronte, come si vede, a una originale concezione storica di vasto respiro, che abbraccia lungo i secoli il corso della vicenda italiana, seguendola mentre dispiega i suoi tratti specifici, pur tenendosi all’interno del complesso sviluppo della storia europea e non soltanto europea di cui essa fa parte. In questa prospettiva emerge con grande rilievo il persistere della polarità originaria che, dopo aver orientato e infine determinato – come abbiamo visto – gli eventi italiani all’uscita dal Medio Evo, torna in scena nel XIX secolo a incidere su quelli unitari e post-unitari. Si delinea qui il duplice carattere della Nazione italiana, perennemente oscillante tra Occidente e Centro-Europa, con l’estrema difficoltà delle sue scelte, le cadute in cui incorre dopo averle compiute, la differenza con il risoluto e compatto contegno della Germania, a lei tanto simile nelle svolte e nelle avventure storiche, ma profondamente diversa nell’intima struttura, perché interamente e soltanto Centro-Europa, senza commistioni e incertezze.
…In realtà, lungo il primo cinquantennio post-risorgimentale non si poté capire perché mai – e per fare che cosa – gli italiani avessero voluto riunirsi, quasi a dispetto della storia, dopo aver trascorso divisi tanto tempo da non ricordare di aver mai vissuto in una condizione diversa. L’unità per l’unità, senza un motivo per stare insieme, senza una parola da dire alle altre Nazioni per presentare e giustificare la nuova venuta, senza un’impresa comune da compiere, era davvero “un assurdo miracolo”, un transito di fantasmi sulla scena della storia.
Il “significato ideale” apparve, maturò e si impose rapidamente all’inizio degli anni ‘20, quando l’Italia, dopo essere vittoriosamente intervenuta nella Grande Guerra, si distaccò dalle altre potenze vincitrici, modificò al suo interno il regime democratico-parlamentare che quelle potenze cercavano di imporre al mondo, e sostenne per prima la necessità di rivedere i trattati di pace che avevano mutilato geograficamente e umiliata politicamente l’Europa Centrale. Fu questo doppio movimento, seguito dieci anni dopo dalla Germania con l’affermazione del nazionalsocialismo e la nascita del suo regime, a generare il moto di avvicinamento tra le due Nazioni, e a guidarle nell’impresa comune in cui si impegnarono.
Qui la sorte dell’Italia toccò il suo punto cruciale, perché i nodi della sua storia vennero tutti al pettine, non solo e non tanto per la sconfitta militare, ma per la palese incapacità a reggere un ruolo, al quale non poteva tuttavia sottrarsi, per le circostanze stesse che l’avevano condotta a unità. L’Italia non poteva non assumere un “significato ideale nel mondo”, ma non ebbe la forza di reggerlo dopo averlo assunto. Questa incapacità derivò certamente, almeno in parte, dal lunghissimo periodo in cui la Nazione non era potuta consistere in uno Stato nazionale, e dall’eccessiva brevità del periodo in cui questo Stato era esistito e aveva potuto svolgere la sua opera di fusione e di consolidamento. Vi è tuttavia un motivo, piú profondo e forse piú importante, che traspare proprio dalla doppia tendenza verso l’Occidente e verso il Centro-Europa.
È abbastanza evidente infatti, che l’Italia resse la prova con il pieno impegno della sua classe dirigente militare, industriale e finanziaria nella Grande Guerra, quando si trovò a combattere insieme all’Occidente contro l’Europa Centrale, mentre quella stessa classe dirigente non sostenne con eguale volontà lo sforzo bellico nella Seconda Guerra Mondiale, quando si trattò di combattere con l’Europa Centrale contro l’Occidente. Il fiacco, disincantato e in qualche caso persino reticente contegno degli alti comandi italiani in tutte le fasi della guerra (l’Esercito non vinse mai da solo una battaglia, e non un colpo di cannone sparato da una corazzata italiana colpí mai una corazzata nemica), è stato molte volte esaminato dalla parte piú onesta e responsabile della storiografia moderna, tanto che sussistono ormai tutti gli elementi per concludere che l’armistizio dell’8 settembre non fu un improvviso voltafaccia, ma il tentativo disordinato e catastrofico dello Stato Maggiore italiano di trasferirsi dalla parte dove aveva sempre potenzialmente militato.
…Con questa diagnosi si chiarisce un primo aspetto del problema, quello della scomparsa oggettiva della Patria, ma non si esaurisce quello della soggettiva incapacità degli italiani di percepirla se ci fosse, e persino di desiderare che ci sia. Qui i contorni sono molto piú sfumati, perché nel buio prodotto dall’assenza della Patria, il processo di atrofizzazione degli occhi con cui prima si poteva vederla non è stato istantaneo, e si è protratto per alcuni decenni. È piú difficile, quindi, coglierne le cause e gli sviluppi. È abbastanza evidente, tuttavia, che mentre fin dall’immediato dopoguerra la politica e l’alta cultura – o meglio i cascami intellettuali che ne presero il posto – si adeguarono al livello di una Nazione non solo sconfitta, ma ben felice di aver perduto e che mai avrebbe voluto vincere, un certo tono di fierezza, o almeno di vitalità continuò a risuonare piú o meno in sordina nella narrativa, in alcuni filoni del cinema, persino nei ritmi non ancora depressi e sconsolati della musica leggera. Certo, ricordarsi di aver avuto una Patria quando persino la parola era bandita dal linguaggio ufficiale non era facile, e tuttavia, nel sottofondo della loro psicologia collettiva, gli italiani continuarono malgrado tutto a sentirsi italiani.
Naturalmente non poteva durare, e infatti gli ultimi fuochi gradualmente si spensero. Molto operò, anche in questa fase, la tendenza filo-occidentale, uscita vittoriosa dalla prova bellica, e dominatrice incontrastata del dopoguerra. La dicotomia iniziale ormai non sussisteva piú: l’Italia era Occidente e null’altro che Occidente, nell’accezione anglosassone che il termine aveva assunto, e non solo per la sua integrazione negli strumenti internazionali – ONU, NATO, UE – in cui il predominio occidentale si concreta e di cui si serve, ma nel modo di vivere, nei valori che accetta, e persino ormai nelle espressioni artistiche o pseudoartistiche di cui si è detto – narrativa, cinema, musica – dove ogni parvenza di italianità si è spenta, o si è rovesciata nel suo opposto, in caratteri di volgarità plebea che rendono i prodotti italiani immediatamente riconoscibili.
…Una via di redenzione e di rinascita sociale che l’Italia potrebbe impersonare e far propria, ritrovando e realizzando in essa la sua ragion d’essere, e quindi la sua identità, è la via che fu indicata da Rudolf Steiner nel suo Memorandum alle Potenze Centrali nel pieno della Grande Guerra come unico modo per vincerla, scuotendo quella che fin da allora appariva come una forma micidiale di subordinazione all’Occidente, e venne poi ripresa e sviluppata in Italia da Massimo Scaligero. È la via di una nuova concezione della vita sociale, e di un rinnovamento integrale del suo organismo, fondato sul principio della triarticolazione, e sull’autonomia della sfera politica, di quella economica e di quella spirituale.
Questa concezione è per sua natura incompatibile con quella oggi dominante non solo in Italia ma in tutto il mondo occidentalizzato e – come oggi si dice – “globalizzato”. Per ritrovare se stessa, l’Italia dovrebbe riconoscere i suoi propri caratteri ed enuclearli da quelli indistinti e mondialistici in cui essi sono sprofondati fino a smarrirsi. La via della triarticolazione dell’organismo sociale, proprio per la sua incompatibilità con la concezione occidentale della vita, della politica e dell’economia, comporta di fatto e produce spontaneamente questa individuazione e rigenerazione. Perseguendola, l’Italia può liberarsi dall’identificazione con l’Occidente, e avviarsi a ritrovare se stessa. Operazione non facile, anche perché quello che fu il Centro-Europa ha smarrito a sua volta se stesso, e si è occidentalizzato non meno dell’Italia, anche se ha come retaggio storico la lotta che, a differenza dell’Italia, condusse fino all’estremo, prima di piegarsi alla tellurica legge della forza. Se l’Italia vorrà intraprendere la via della triarticolazione, potrà fare da punto di riferimento per il Centro-Europa, da cui quella via ebbe origine. Un nuovo collegamento dal Mare del Nord al Mediterraneo si potrà ristabilire …facendone rinascere su nuovi princípi la spirituale solidarietà.
Certo, nella realtà oggettiva di oggi mancano non solo le condizioni ma anche i minimi appigli per un’impresa del genere, che può quindi apparire superiore alle forze umane. Ma per fortuna gli uomini non dispongono solo delle loro specifiche forze, e se avessero dovuto contare solo su quelle non avrebbero mai acceso un fuoco o fabbricato una ruota. Nello spirito umano vive una scintilla dello spirito divino, che può evocare e stabilire il contatto con realtà e con esseri superiori. Fra di essi è l’Ente che sovrasta l’Italia e la permea, che può rigenerar ne l’anima e rischiararne il futuro. Richiamandolo in sé, e aprendosi al suo superiore intervento, nessuna impresa è impossibile.
Enzo Erra
Selezione dalla Prefazione del libro di Gaetano Colonna La Resurrezione della patria –
Per una storia d’Italia – Editrice Tilopa, Roma 2004.