«L’Amore è l’essere dello Spirito».
L’enunciazione di Massimo Scaligero è straordinariamente potente: lega assieme due universi apparentemente inconciliabili: quello cosmico e quello umano. Con estrema semplicità afferma che la loro evoluzione si dà in corrispondenza biunivoca, e solo l’assidua reciproca collaborazione porterà a compimento il disegno cui entrambe appartengono.
L’atteggiamento delle opinioni umane, anche quando dichiara il contrario, svolazza qua e là secondo il capriccio dei venti, assoggettandosi a forze naturali e non, piú prepotenti di lui; rendendo cosí il suo andare un’ulteriore «nave senza nocchiere in gran tempesta…».
Un po’ orchestrato dai media, un po’ disorchestrato di suo, detto atteggiamento insorge di fronte a problematiche collettive, quelle cioè che, direttamente o indirettamente, investono tutti. Ed è sempre stato un fatto sorprendente; lo si può studiare, svolgervi delle analisi comparative e stilare elaborate statistiche (là dove è possibile); ma alla fine ci si deve arrendere e ammettere che l’iperbolico, l’assurdo e l’instabilità di grado elevato sono le sue componenti caratteriali; quindi ogni considerazione atta a tirare le somme, invece di giungere a un risultato stabile, finisce per moltiplicare le soluzioni, rendendole tutte teoricamente possibili seppure altrettanto improbabili in fatto di realizzazione.
Per lo meno io, trovo una notevole difficoltà a rintracciarvi un senso che assomigli ai criteri della logica, il che mi alimenta di continuo il sospetto che l’uno e l’altra manchino del tutto. Per cui le ondate di correnti opinionistiche che si susseguono accavallandosi, scontrandosi salaci e schiumanti di velleità divergenti, costringono spesso i miei nascenti giudizi ad annaspare, tentando di non venir sommersi da un mare d’incomprensibilità.
Non che affogare in acque conosciute dia maggior soddisfazione; tuttavia ignorare il perché di quanto capita viene comunemente riconosciuto come un’aggravante. Il che dimostra che la regola è sempre scritta dai superstiti.
Non ho l’abitudine di adoperare una particolare cautela nell’esprimere un pensiero su quel che sta succedendo; neppure mi sento portato ad assumere posizioni istintive da catastrofista, mettendo in allarme i pochi che mi ascoltano, con l’agitare scenari da Sodoma e Gomorra e predire la fine della civiltà. Anche se da piú parti si lavora sodo per stimolare quest’ultima ipotesi.
Riporto piuttosto la poco simpatica sensazione che la gente ami lasciarsi sbilanciare ora a destra ora a sinistra, perdendo completamente di vista il fatto che la virtú splende a mezzogiorno, quando il Sole è piú alto, quando sta perpendicolare sopra le cose del mondo, e illuminandole, riduce le ombre quasi allo zero.
Ma come si fa a convincere le tifoserie avverse che il risultato piú eclatante di ogni partita di pallone sta nel pareggio? Che la bellezza e la fantasia del gioco espresso dalle squadre costituisca l’unica ragione degna dell’esser scesi in campo, di là dal tabellino finale? Troppo difficile. La brama del risultato, ancorché strappato coi denti, o peggio, è entrata di diritto nel nostro modo di concepire la partita della vita.
Cosí mi sono imposto un principio; prima di parlare, devo valutare bene quanto ho da dire, tono e modo compresi. Prima di valutare, devo comprendere la situazione in cui mi trovo assieme agli altri, e se voglio comprendere bene tale situazione, mi obbligo a rifletterci sopra con un pensare che sia il piú lontano possibile da quello d’ordinanza. Dopodiché può anche darsi che me ne stia zitto.
È accettabile il fatto che si possa dire quel che si vuole su qualunque tema e argomento?
Dipende da come si impostano le cose. A me, per esempio, piacerebbe parlare dello Spirito. Non lo farei mai in pubblico, né in una cerchia privata di amici, né in una conferenza dedicata a vari interessati. Ma non trovo nulla che vieti di svolgere le mie riflessioni ed affidarle alle pagine di una sorta di diario minimo. Se dopo, queste pagine gireranno per il mondo e saranno lette da altri, mi resterà la nozione di non averlo fatto appositamente, anche se una tenue speranza in tal senso non me la voglio negare.
Quante volte nel nostro parlare abbiamo menzionato lo Spirito? Tante, sicuramente; ma per amor del vero, è giusto domandarci di quale spirito abbiamo voluto parlare e soprattutto cosa abbiamo inteso dire ogni volta che adoperiamo l’espressione verbale per designarlo.
Ci sono molti spiriti, e di conseguenza, se non si acquisisce una certa dimestichezza con il tema, c’è il rischio concreto di smarrirsi nei labirinti della dialettica, per cui si può passare con una certa indulgenza dal rappresentarsi lo spirito come fondamento di prodotti alcolici, a quello, meno prosaico e piú educativo, indicante un carattere bizzarro ed estroso, un po’ ribelle ma tutto sommato meritevole.
Eppure la nostra esperienza di vita ci fa comprendere, talvolta con gentilezza talvolta senza, che se è facile confondersi, è altrettanto facile capire quale sia lo spirito cui la nostra evoluzione importi poco o niente, e quale invece sia quello che costantemente ce ne indica la direzione.
Cercare una Divinità, cercare un’Entità sovrumana, cercare un obiettivo sul quale riversare il nostro sentimento di fede, è tutto un darsi da fare per avere un punto di partenza. Trovarlo non è infatti l’arrivo: la presenza del divino in noi inizia quando si accoglie l’idea di un proprio divenire sempre piú commisurato ai segreti dell’universo. Richiede pertanto, da parte dell’uomo, la disponibilità a un mutamento interiore che, da stato di coscienza in stato di coscienza, prosegua fino alla completa spersonalizzazione.
In questo caso, spersonalizzazione significa trarsi fuori dalle incrostazioni dell’ego. Il che non è facile, né rapido, e neppure indolore.
Orientato da Massimo Scaligero, da molti anni il mio punto d’osservazione (osservazione del punto di partenza) è rimasto fermo all’incipit del libro Dell’Amore Immortale, in cui il Maestro del Pensiero ha riposto un significato – a mio vedere – nobile ed essenziale, il primo di molti altri, che tuttavia gli succedono in sequenza: «L’Amore è l’essere dello Spirito». Preciso subito che nel libro di cui sopra i termini “amore” e “spirito” stanno scritti con l’iniziale minuscola. Io invece li riporto qui con la maiuscola, non certo pensando di correggere Massimo Scaligero, ma per far capire a chi legge, che ai quei due sostantivi ci si arriva per molti gradi, e se uno, per scriverli, deve risalire da un livello piuttosto basso (che è il solito) ad uno piú alto (costituente un tentativo saltuario e sporadico), allora è bene adoperare una grafia che esalti il distinguo.
Riprendo: dire di essere rimasto fermo non corrisponde del tutto alla mia esperienza; in realtà non si resta fermi mai, ma si può girare in tondo all’infinito e contemporaneamente essere convinti di andare avanti, di progredire. Per quanti manchino di riferimenti, una curva sufficientemente ampia e lenta può apparire simile ad una retta.
Ad ogni buon conto, arriva il giorno in cui ci si accorge di dover ritornare sui propri passi, retrocedendo fino all’inizio del cammino, e lí rimetter mano su quel che aveva in qualche modo motivato l’impresa, quel che aveva dato il primo impulso, e che, magari, nell’esuberanza allora prospettatasi, era stato prima trascurato e poi perduto di vista.
Le rivelazioni che vengono da oltre i confini dello spazio e del tempo portano le stimmate della vera universalità; la cui interpretazione, se e quando c’è, deve fare i conti con i limiti restrittivi di una individualità umana entrata da poco nella fase del suo perfezionamento e non ancora uscita.
Le parole di Scaligero possono quindi apparire scarne, asciutte, indialettiche; un inciso didattico mormorato a fior di labbra, di incontestabile apertura ma, sull’istante, nemmeno valutabile come elemento da conservare. L’anima dell’uomo necessitata dall’esperienza terrestre ha imparato ad accogliere le cose solo “a condizione che”. A prima vista, non riesce ancora a distinguere un viatico da un accessorio. Eppure, la rivelazione di Massimo Scaligero si affaccia al piú nascosto dei nostri intimi balconcini, cosí come un fiore strano, misterioso, spuntato splendidamente dal nulla, può sorgere in un campo di rape, imbarazzando anche i botanici piú esperti. Il suo sorgere essendo libero da ogni condizione. Questa è la novità.
Se la stagione di chi lo ospita è quella giusta, allora il nulla (campo di rape compreso) si trasforma a poco a poco in un giardino di meraviglie, talmente grande da non riuscire a coglierne con i sensi ordinari tutti i colori, i profumi, le sfumature, né vederne i confini.
Ma per l’uomo d’oggi una frase del genere, ancorché intelligibile, corretta sotto ogni profilo in quanto pulita, priva d’ombre e d’incertezze, rimane pur sempre una frase composta di parole, e queste, per quanto udite, ripetute, studiate e meditate, vengono poi risucchiate nel turbinío dei venti che nel frattempo hanno invaso e dominano l’interiorità umana, facendola apparire a se stessa povera, fragile, inutile. Non idonea quindi ad indagare il suo possibile sviluppo.
Accade molte volte cosí con il Divino: che la Sua segreta, limpida grandezza si scontri con la mediocrità del provvisorio in cui si dibatte l’attuale fase evolutiva degli uomini, suscitando disagio, timore reverenziale ed altre forme di fobie psicotiche, sulla cui derivazione la scientificità ufficiale meglio orientata avrebbe potuto indagare da tempo.
Non è certamente questo l’impedimento piú forte; se il contatto con il mondo dello Spirito si è dissolto, almeno a livello percettivo, un altro ostacolo, molto diverso ma altrettanto greve, si pone allorquando entriamo, a passi quasi baldanzosi, nel mondo dell’Amore e, secondo le moderne correnti del sapere, vi argomentiamo svolgendo i nostri ragionamenti.
Chi si dichiarerebbe totalmente digiuno sull’argomento amore? Mentre sul Divino le difficoltà conoscitive sono considerate lievi e un outing in tal senso potrebbe addirittura venir valorizzato quale privilegio di un nichilismo disinvolto, in bella tendenza col materialismo epocale, col vantaggio di non costar nulla e di produrre un certo effetto sulle corali sudditanze; una sfacciata amissione d’inesperienza sull’amore renderebbe il malcapitato autore bersaglio d’ironie gratuite e di compatimento spregiativo ancorché larvato o sottinteso.
Volendo riesaminare i punti descritti in una visuale conforme all’ottica antroposofica, risulta agevolmente comprensibile come il primo dei due casi riguardi l’opera di Lucifero ed il secondo invece sia completamente preda dell’azione di Ahrimane.
L’obiettivo di Lucifero è sempre stato quello di distogliere l’attenzione della coscienza umana dal fatto che esiste in concreto la possibilità di annientare la distanza supponibile tra il mondo sovrasensibile e quello sensibile. Anziché favorire l’umano nell’apprendere ad abitare questa distanza, affidando al pensare il compito di raccorciarla sempre piú, l’Ostacolatore gioca la carta di protrarla all’infinito, proiettandola nell’utopia di un distacco, dato per incolmabile, con tutte le conseguenze del genere. Per cui, anche l’esistere piú devoto e pio, colmo di sacrifici e dedizioni, diventa vano, ove manchi del tutto la fiducia nel rapporto diretto e immediato tra l’Uomo e il suo Dio. Che può realizzarsi in qualsiasi momento, indipendentemente da credenze, circostanze, voti e trascorsi soggettivi.
Dall’altra parte l’azione ahrimanica non è meno devastante: i figli del tempo e della cultura corrente, assoggettati a forze telluriche, animali, vegetali e minerali ancora non del tutto elaborate, altro non possono che credere fermamente in ciò che confermi loro la forza del dato biologico. E questa conferma, lungi dal venir resa oggetto di ricerca spassionata e compito etico-intellettivo, continua ad imporsi in ogni settore della vita, suggerendo, mischiando, a volte subissando le coscienze, portandole, o meglio trascinandole di peso per cui emozioni e sensazioni reagiscono in via automatica; oppure, qualunque altra cosa sia, non deve né può chiamarsi amore.
Un’affermazione di questo tipo, al giorno d’oggi, sembra non trovare oppositori; ma la sua esattezza vale quanto quella con cui si vorrebbe dimostrare che la presenza dell’uomo sulla terra e nell’universo si fonda su respirazione, alimentazione, espulsione di scorie organiche e alternanza tra stati di veglia e di sonno. Credo che mai una sentenza piú lacunosa e parziale di questa sia stata spacciata per principio apodittico e come tale divulgata. Ma si motiva con il fatto che il senso della comparsa dell’uomo è stato “semplificato” nel tempo, da parte di quanti hanno avuto l’ interesse a farlo, con la giustificazione di rendere maggiormente agevole e moderno il significato. Il Ministero della Pubblica Istruzione potrà, al momento, ritenersi soddisfatto.
Dobbiamo fare molta attenzione quando decidiamo di semplificare. La semplicità non ha nulla da coprire, mai. La semplificazione invece spesso viene cercata e programmata per nascondere quel che conviene non mostrare. Come chiunque sa, tener celato qualcosa quando sono maturi i tempi della manifestazione, è inutile e ridicolo quanto rivestire un figlio ventenne con gli abiti smessi dieci anni prima.
Massimo Scaligero, potendo attingere alla compresenza dell’eternità, ci offre quel che serve alla coscienza attuale per cominciare finalmente un dialogo con se stessa. Un dialogo che si svolge nell’interiorità, ha sempre come protagonisti la mente e il cuore, ma in questo caso c’è qualche cosa di piú. Molto di piú. C’è un regista che, ascoltando i due, nasce, cresce e consolida le sue radici in un terreno tutto da rinverdire. Si fa avanti silenzioso nel corso della vicenda; nutre di Spirito lo spirito del meditante che la vive e che la rivive, conoscendola magari a memoria, eppure avendone fin qui ignorato i perché e i percome.
In Dell’Amore Immortale, il primo capitolo reca come inizio una sorta di nota monocorde; una struttura talmente semplice da potersi considerare disarmante. Ma come già lo strumento a corda unica del dio Apollo, dal cui phonos Pitagora fu indotto a cogliere le leggi delle vibrazioni melodiche, essa contiene in sé i presupposti che di seguito svolgeranno quel suono iniziale dapprima in un preludio e poi in una sinfonia sempre piú vasta; simile alla carezza amorevole di un sapiente educatore, si espande soave e possente, confortando le incertezze umane; inscritta nel pentagramma della terra, trova la via tanto al calore dei cuori quanto all’incipiente luce degli intelletti; giacché conosce per intero le loro vicende. Che sono numericamente infinite ma sempre uguali per tutti.
Anche se dell’amore conosciamo troppo poco, quel tanto bastevole a non destabilizzare l’equilibrio sociogenetico e garantire il succedersi piú o meno regolare della specie umana, sappiamo ora, grazie a Massimo, che l’Amore è l’essere dello Spirito, e questa conoscenza approfondita in serena dedizione a livello individuale, diventa di ugual valore a ciò che Rudolf Steiner volle, per far nascere la sua Antroposofia nel tempo e nella storia: una Pietra di Fondazione per ogni anima anelante lo spirituale. [Il rimando è alla Pietra di Fondazione che il 20 settembre 1913 fu posta sotto il primo Goetheanum, e che dopo la distruzione dell’edificio per un incendio fu posta sotto l’attuale secondo Goetheanum. È formata da due dodecaedri in rame saldati insieme. In essi furono inseriti dei cristalli di pirite, tagliati anche essi in forma di dodecaedro. La pietra di pirite piccola è stata inserita all’interno del dodecaedro piú grande, mentre quella grande dentro il dodecaedro piú piccolo. La Pietra di Fondazione è stata concepita, realizzata e poi posta a base dell’edificio secondo leggi cosmiche note a Rudolf Steiner].
Per essere entrambi due livelli, due differenti tipi di accesso al sovrasensibile, la loro finalità non può che coincidere. Quella di Scaligero riguarda prevalentemente la formazione del singolo discepolo; quella di Rudolf Steiner si rivolge ad una umanità coralmente eletta da siffatti componenti. Questo è il rapporto da rammentare tutte le volte che attraverso le misteriose disposizioni del destino, attuantesi nel – e con – l’intreccio del concorso umano, i segni che appaiono all’orizzonte ci sembrano sconfortanti se non avversi.
Abbiamo dunque detto e sostenuto che l’Amore è l’essere dello Spirito. Ma per quale ragione un essere umano, incontrando simile proposizione, dovrebbe prenderla come un mantra, figgersela ben bene nella mente e nel cuore, e portarsela dentro in tutti i momenti della propria vita?
C’è forse nell’insieme di questa evenienza un senso che non sia soltanto mosso da slancio fiducioso, da cieca credulità in un assioma estraneo, personalizzatosi in autoconvincimento? Qualunque forma di training autogeno in fondo è capace di altrettanto. E allora, per quale recondito motivo assegnare il primato ad un pensiero di Massimo Scaligero, scegliendolo in mezzo a mille altri, forse anche piú aulici e corroboranti?
Cosí dovetti pensare io molto tempo fa, quando trovandomi nel frangente, mi comportavo come un naufrago che, salvatosi dalle acque, messo piede sulla terraferma comincia a chiedersi se questa gli sarà piú o meno propizia e incline alle sue necessità.
Un naufrago tratto in salvo, piace comunemente credere, potrebbe fermarsi un attimo, e, non dico inginocchiarsi sulla spiaggia sconosciuta, ma quanto meno accennare un breve ringraziamento a chi di dovere per lo scampato pericolo. Niente di tutto questo; il mio mare non era in burrasca, il mio cielo non era tempestoso, eppure a me non passò per la testa l’ombra di una eventuale riconoscenza al pensiero di Massimo Scaligero, che pure, date le circostanze, ebbe per me la medesima funzione della terra solida percepita sotto i piedi di uno sfortunato marinaio.
Oggi tuttavia ritengo che quella ingratitudine abbia avuto una ragione specifica. Ho visto e sentito di molti che, ricevuto dall’alto un aiuto o un conforto nel momento della difficoltà, sono rimasti talmente impigliati nella pania del sentimentalismo, che in seguito, per anni e passa, la loro anima ha vissuto di rendita, se cosí si può dire, beandosi di quel che è stato, senza desiderio di indagare come la tal cosa sia potuta accadere; se in questa vi fosse una motivazione capace di sdoganare, dal premio ricevuto, l’assunzione di un compito futuro non ancora individuato ma estremamente importante da individuare.
Mancando la suddetta intima posizione, ciò che rimane, o diventa parte di un fideismo primitivo senza pretesa di conoscenza, oppure viene contrassegnato dalla casualità; da quella terribile casualità che ci siamo inventati per anticipare i tempi moderni; come una colata di cemento spiana, sí, la scabrosità del terreno, ma ne uccide per sempre la riproduttività fecondatrice, pure in tal caso, ma per ben diverso fine viene soppresso ab origine l’impulso squisitamente umano a voler capire qualcosa di piú. Costi quel che costi.
L’Amore è l’essere dello Spirito conferisce propriamente al coltivatore del pensiero scaligeriano, sempre che riesca a porsi in un punto di mezzo tra il modesto e il tenace, questo semplice, nitido, preciso impulso.
Diventa ora interessante dar spazio alla domanda che sorge in conseguenza di quanto detto fin qui: anzi, le domande sono apparentemente due: con la prima ci si chiede di sapere perché le cose debbano presentarsi in questo dato modo, dopo opposte difficoltà e nel mezzo di tanti chiaroscuri; la seconda invece, molto piú pratica, vien posta per spiegarsi la ragione dell’aver dovuto attendere un periodo di tempo tanto lungo, prima di poter afferrare con l’anima l’assolutezza di una verità cosí elementare, cosí disadorna, cosí protagonistica, dalla quale tutto procede e sulla quale non v’è neppure una ragione per sostare.
I quadri sono completi quando i colori sposano la cornice; prima di allora possono venire ugualmente ammirati, ma non stanno mai fermi, si muovono, si alzano in volo, ballano contorcendosi secondo ritmi imprevedibili e si portano a spasso lo spettatore; anche nell’arte lo Spirito è incontenibile; quello dell’uomo invece è caratterizzato dal dover procedere da inquadratura ad inquadratura, con cui gli necessita sviluppare un ben determinato rapporto.
Tutto nasce da quella fonte perenne di esperienze che chiamiamo vita e che normalmente compiamo senza conseguire una vera esperienza. Detto in questo modo suona male; sembra un gioco di parole, ma se, grazie alla Scienza dello Spirito, andiamo ad analizzare le modalità dell’esperienza fisico-sensibile fin qui acquisita, non possiamo ignorare come e quanto essa si sia formata al di fuori delle nostre coscienze, che, in molti casi, l’avevano voluta, cercata e sostenuta.
Questo vivere inesistenziale fuori dalla coscienza, o comunque fuori da quel che la coscienza avrebbe voluto essere in fatto di presenza interiore, testimone del processo esperienziale, ha la medesima impronta di omissività, con la quale, nell’atto conoscitivo, anziché concedere alla percezione lo spazio ed il valore intrinseco a lei precostituiti, nel pensare, da essa richiamato, ce la confezioniamo come rappresentazione, e andiamo in seguito a subirla come tale.
In tal caso diremo che l’artista ha ritenuto opportuno incorniciare un quadro mai eseguito, per poi rimanere male o risentirsi se qualche osservatore, senza peli sulla lingua, gli confessa candidamente di non aver capito nulla del dipinto perché nulla c’era in esso da vedere.
L’arte del pensiero astratto è un’arte necessaria, temporalmente necessaria; ma crederla arte per il semplice fatto di stare all’avanguardia e ricamare sogni belli ad occhi aperti per moltitudini affascinate, non ci ripaga dello sforzo di averla prodotta né tanto meno della speranza di trasformare l’esistere odierno in un grande drive in planetario, ove su maxischermi giganti si racconta tutto quello che già sappiamo di sapere.
Pochi giorni or sono mi è giunta notizia di una qualche società informatica la quale ha messo a punto un programma da vendersi quale “stimolatore progettuale”. Al momento mi sono messo a ridere, ma ripensandoci ho smesso di colpo. Non concedo a nessuno il diritto di esortare il mio pensiero astratto a essere ancora piú astratto.
Come la rappresentazione deve essere una fase transitoria all’interno del processo conoscitivo, e non deve venir elevata a rango superiore di ciò che oggettivamente è, ovvero trait-d’union tra il dato percettivo e il pensiero occorrente, in simile modo il pensiero astratto deve venir riportato alla sua realtà di base, in quanto termine di passaggio tra il pensiero razionale e quello cosciente-intuitivo che lo attende al varco quando, esaurita una prima carica esplicativa, l’astratto non saprà piú come proseguire il corso prosciugato della sua discorsività descrittiva, restandogli del tutto ignoto il dinamismo spirituale che lo ha accompagnato dopo avergli concesso la forza di manifestarsi.
In buona sostanza, quel che manca è la coscienza di chi si è e di ciò che stiamo facendo nel momento in cui decidiamo di agire. Che è la coscienza del perché siamo qui, del cosa ci stiamo a fare, di cosa sarà possibile fare e di quello di cui – per ora – non dobbiamo preoccuparci troppo, perché il sovraccarico dei compiti produce sempre l’effetto indesiderato del non portarli a termine.
L’omissione non deve venire giustificata; quando però si tratti di cosa rientrante tra quelle possibili. Se mi addolorassi di non riuscire a saltare in alto oltre la misura del primato mondiale, il mio soffrire sarebbe ridicolo e inappropriato. Ma ciò non toglie che esistendo una determinata prova, pur a stento ascrivibile tra le mie possibilità d’esecuzione, il non tentarla dandomene per vinto graverà la mia coscienza di un peso sempre maggiore, e col tempo diventerà eccipiente di avvenimenti karmici compensativi.
Possiamo eseguire un piccolo esperimento: ripetiamo il pensiero di Massimo Scaligero (l’Amore è l’essere dello Spirito) assaporiamolo bene ancora una volta e poi chiediamoci: è questo un pensiero astratto?
In effetti, basandoci su una lettura ordinaria, e con una pretesa di lucidità obiettiva, tipica dei lettori di quotidiani, notizie flash e messaggi social, la frase in esame rischia l’enigmaticità. Si nasconde nel profondo mistero di se stessa. Mistero che l’uomo d’oggi non solo non cerca, ma detesta con tutte le sue forze (quelle che gli restano) per respingere via da sé quanto non gli si presenti puntualmente allineato con i crismi di un a-spirituale, confezionato secondo una pari visione materialistica del mondo e della vita. Insomma, per gli storditi à la page è una questione di sicurezza.
Ma la sicurezza, per lo meno questa sicurezza, nata un po’ per desiderio di autogaranzia e un altro po’ per vittimismo opportunistico, non c’è; non sta proprio da nessuna parte. Se in una situazione, generalizzatasi quanto un contagio epidemico, è possibile o utile comprendere la causa determinante, questa è riscontrabile, in modo diretto e senza mediazione alcuna, nell’esercizio incondizionato e scriteriato del pensiero astratto, giudicato unanimemente la piú qualificata espressione della nostra attuale facoltà intellettiva; mentre, come si è detto, rappresenta soltanto una fase di un lungo percorso il cui senso resta per i piú avvolto nel buio dell’insipienza.
Ogni prodotto mentale di quest’epoca, semplice o complesso che sia, è un prodotto dell’angoscia, di un sistema nervoso turbato, del disagio psichico da cui deriva; la sua immanenza non manifesta è tuttavia notabile, da chi sappia seguirne il solco, quanto un intervallo di quiete in mezzo ad un baccano assordante.
Che il silenzio assoluto sia un adeguato antidoto alle forme di nervosismo aggressivo oggi imperanti e scatenate, viene evidenziato dal fatto che l’anima sofferente tale situazione critica, rifugge ogni proposta di pace, di serenità, di calma interiore, e viceversa si spinge il piú a lungo possibile ad esporsi nella sarabanda frenetica dell’agitarsi endogeno. Ove la full immersion non basti, il mondo moderno è attrezzatissimo per offrire una vasta gamma di passatempi e svaghi alla portata dei bisognosi.
Qualunque cosa possa sembrarle proporre un senso di compostezza e di serenità, è scambiata per demoniaca; versi come «…e Pan l’eterno / che su l’erme alture / a quell’ora / e nei pian / solingo va…» o «…tra le rossastre nubi / stormi d’uccelli neri / com’esuli pensieri / nel vespero migrar» risuonano terrificanti e minacciosi a quanti si siano ridotti a collegarsi al cervello tramite password, e a farsi sfondare i timpani nelle sedi predisposte.
Si può quindi comprendere come voler porre l’Amore è l’essere dello Spirito al centro della nostra attenzione, onde risalire al livello del suo valore, risulti alla fine, per un mondo come questo e in una tal epoca, un’azione di un estremismo imperdonabile, non dico rivoluzionaria, ma certamente, da un punto di vista consolidato e ufficiale, seriamente eversiva.
Dove sparisce il rumore vive il silenzio; dove scompare la chiassosa dinamica del sensibile subentra la tacita potenza dello Spirito. Essere umani significa non soltanto imparare ad abitare i due diversi àmbiti, ma decidere piuttosto di percorrere entrambi nel rispetto delle loro specifiche nature, ricavando dall’uno quel che si rende necessario a sviluppare le forze per l’altro, e compenetrare cosí la propria storia individuale di quell’alimento conoscitivo, che è alfine la vera sostanza di vita comune alla terra e al cielo.
Colui che ha saputo pensare e scrivere l’Amore è l’essere dello Spirito ha compiuto un lungo cammino, difficilmente concepibile secondo i valori attualmente in uso. Se n’è fatto carico già in partenza, afferrando la sacralità di un’opera, che è anzitutto la sacralità stessa dell’esistere cui si è convenuti; ma è ad un tempo l’espressione di fedeltà assoluta per questa partecipazione cooperata, la quale varca i limiti imposti dal contingente fisico-sensibile agli spiriti che, in quanto entità incarnanti e incarnate, lo penetrano nascendo.
Ogni sua voce proferita o scritta viene cosí rescissa da fini mondani o speculativi o accademici; né questi potrebbero trovarvi alcun senso. Per i presunti traguardi dell’ego, per le sue ambizioni spiritualeggianti sognate e invidiate, ci sono stati secoli, millenni di tempo in cui dare sfogo, quali pulsioni culturali, fideistiche o scientifiche; a volte senza controllo, a volte senza ritegno.
Come accade nei sistemi circolatori dell’organismo vivente, questi canali si sono ora induriti; vene e arterie si sono sclerotizzate, direbbe un angiologo; non possono quindi venire utilizzate ulteriormente come “vasi di comunicazione”. Necessita un diverso arguire la circolazione del sangue come necessita un pensare che non rimanga impigliato nella orgogliosa celebrazione di se stesso.
Tra un Io metafisico che cerca la sua affermazione nel fisico e un ego caduco, infantile, sedotto da complimenti e lusinghe, deve nascere un tipo di coscienza umana capace di capire, studiare e disporre di un disegno suo, in grado di convincere l’ultimo a non schivare pretestuosamente la meta superiore, sprezzata dal volgo ma agognata in segreto.
Come l’Amore è (e deve essere) l’essere dello Spirito, cosí lo Spirito è (e deve essere) l’essere dell’Amore. I due termini si cercano l’un l’altro; ciascun uomo risulta onerato e investito da questa ricerca, che nei secoli ha avuto molti nomi e molti interpreti. Oggi la ricerca continua, anche se le coscienze dell’epoca sembrano impegnarsi solo nelle numerose artificiose varianti che la nascondono alle cronache, ma ne confermano le tracce.
Con ciò nulla viene garantito, ma da questo incipit che abbiamo oramai ripetuto piú volte, tutto può cominciare; e comincia bene chi non pone se stesso come riferimento principale del viaggio appena intrapreso, ma volge al Divino la consonanza su cui forgiare la propria interiorità giorno per giorno.
Se l’impresa consiste nella riunificazione di Spirito e Amore in una coscienza umana ridestatasi dal letargo, essa riprenderà slancio anche in questo mondo attuale che la vorrebbe annientata ed esclusa dal ricordo.
Ma di contro al fatto che l’Amore è l’essere dello Spirito, il mondo non può fare piú nulla.
Fintanto che un’anima piangerà un incompleto Amore, fintanto che una sola coscienza patirà un irraggiungibile Spirito, ci sarà energia propellente perché la storia dell’uomo continui.
Non è un conforto: è una consolazione. Da sempre e per sempre.
Angelo Lombroni