Primi Anni Sessanta, a Roma un fallito colpo di stato, mancato per un banale “spaghetti meeting” dei congiurati. Il fatto è che serpeggia e addolcisce l’aria della capitale il nepente della Dolce Vita. E certi gesti e propositi ispirati a modelli e personaggi in fuga dalla realtà delle cose si stemperano inevitabilmente. Via Veneto vede sfilare camionette e cingolati, e un grande sbadiglio commenta l’impatto revanscista del golpe, che vorrebbe richiamare il rombo di eroici, ipercompressi natanti dannunziani. I valori e gli ideali vacillano, sgomitati da temperamenti e propositi di lega profana e venale. Nuovi modelli epici ed etici si affermano. nella scia dello spettacolare impatto sugli usi e i costumi correnti, in particolare del cinema.
Lavorando di fantasia, immaginiamo un giovane in coda al botteghino di un cinema popolare, pronto a pagare il corrispettivo di un dollaro per assistere a uno di quegli spaghetti western che da qualche tempo – non molto, per la verità, ché i cambiamenti e le novità, specie nello spettacolo si avvicendano con frenesia – avevano sostituito con inatteso successo i pepli romani: poco piú di un’ora di pugni ben assestati in vicende dalla trama inconsistente.
Erano finiti i polpettoni mitici e biblici, con i Sansoni e i Davide a dividersi plauso e palanche di un pubblico sempre meno sedotto dai temi edificanti, di cui il pieno fallimento è palmare in ogni aspetto della società mondiale. Gli ori, gli stucchi, i mantelli e gli abiti setosi avevano ceduto lo schermo agli happy days di una gioventú eternamente adolescenziale, che però, ipernutrita dal riscatto consumistico della ripresa postbellica, assumevano come modello di evasione I magnifici sette, Superman e il patinato James Bond, da ammirare in fumose – ancora al cinema si fumava – sale di prima e seconda visione, o nelle salette parrocchiali di periferia.
La violenza brutale e letale, esecrata col ripudio collettivo della guerra testé archiviata, acquisiva un che di diritto morale, una variante dell’eterno gioco del sopravvivere ad ogni costo e con qualunque mezzo e strumento, materiale, legale e morale, aggiustato agli eventi e agli interpreti del grande gioco.
È stato Rudyard Kipling, nel suo Kim e in altri scritti riguardanti i giochi strategici messi in atto dalle potenze espansionistiche europee – Russia, Germania e Gran Bretagna soprattutto – a parlare del Grande Gioco, che si svolgeva in particolare nello scacchiere afgano sul finire dell’Ottocento: posta in palio era il ruolo egemone nella condotta del Gioco, la cui onda lunga, per vie e azioni mirate, tuttora regola la geopolitica dell’area, alla quale partecipano oggi anche nuovi Paesi come Turchia, India e Cina. E il Gioco da complesso si fa ingestibile, se nelle strategie entrano elementi e strumenti anomali, come la diffusione di morbi patogeni.
Un gioco che si fa sporco, volto alla malizia piú che all’astuzia. Ecco allora i cosiddetti operatori sanitari infagottati in armature antivirus che li fanno assomigliare a tanti robusti formaggi silani. È l’aspetto ludico, da “ fuori il buffone”, il pagliaccio che stempera col frizzo plateale, farsesco, il dramma. Un espediente antico quanto il mondo con le sue stragi e i suoi autodafé. Meglio il ghigno che la gogna.
I cazzotti di Marlon Brando in “Fronte del porto”, o di John Wayne in “L’uomo tranquillo” agirono. Ma non nel senso che ci si poteva aspettare dal modo in cui la violenza rissosa veniva mostrata. Ben presto venne coniato il termine “ americanata” per indicare le risse collettive nei saloon, con grandi rotture di specchi e pianoforti, il bersaglio finale di barilotti di gin e sifoni di seltz.
Nasceva anche il western comico, un modo liberatorio per esorcizzare lo spettro della guerra, il bisogno di finirla con l’odio e la carneficina, con le deportazioni e le stragi, di cui quella piú tremenda e irreversibile, l’armageddon nucleare di cui il Giappone aveva già fatto esperienza con le due atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Si respirava comunque e dovunque un’aria da “chi ha avuto ha avuto” e adesso “volemose bene”, hai visto mai che da qualche parte si voglia ricominciare, e questa volta senza alcuna chance di recupero. Intanto, del nemico si studiavano le possibilità di accesso ai segreti scientifici e militari, e senza andare molto lontano i segreti piú spiccioli e remunerativi dei comparti artistici e creativi, tra cui, data l’epoca, la decima Musa, il cinema, rappresentava la punta di diamante in fatto di possibilità creativa e redditizia, le due facce di una medaglia che andava sempre piú rivelando opportunità che, partendo da ambiti squisitamente espressivi, tracimavano in quelli della politica e della finanza.
Si formavano importanti gruppi di produzione cinematografica e di editoria specialistica. Il cinema con la ‘C’ maiuscola non disdegnava joint venture azzardate con avanguardie innovative. Un fermento nuovo, o semplicemente riesumato in seguito a recuperi ideologici e rappresentativi, connotava le produzioni, fecondava talenti cui le acquisite libertà espressive davano autorità e genio. Una spregiudicatezza nelle scelte dei programmi e degli artisti accordava genialità dismesse.
Si osarono vie e metodi inusitati, e l’America, gli USA del cinema, ormai sonoro e splendido per colori e nuance metafisiche, furono l’orto dei miracoli per una cinematografia, quella nostrana, condizionata da una cultura teatrale accademica, dal costume irretito in schemi soggetti ad una atavica mai questionata tentazione filetista, dal marcato moralismo umanitario. Vie inimmaginabili si aprivano, e non solo nella sfera creativa ma anche in quella legata al puro interesse remunerativo, senza il quale le idee forti, le rese figurative, i fermenti ideali e il nuovo, fecondo di strappi immaginativi, non prendono mai il via.
Le “americanate” fracassone e tutto sommato a zero vittime, entrarono di colpo nel vissuto del cinema, che, autentica spugna di modi e tic geniali, se ne appropriò con esiti felici. Cinecittà, il plesso voluto dal Ventennio, vissuta fino a quel momento con il neorealismo di De Sica, quello cacio e pepe della Ninchi e di Fabrizi, dei poveri ma belli Arena e Salvatori, con le maschere sempre disponibili del teatro di Govi e De Filippo, insomma quanto di meglio la cultura in maschera nostrana sapeva dare, trovò un felice innesto con il cinema americano. Del quale, ai nostri connazionali, piú che la gonna ventilata di Marylin Monroe di “Quando la moglie è in vacanza”, piacevano i pistoleri come l’Alan Ladd della Valle Solitaria.
Ma soprattutto piaceva lui, Clint Eastwood, l’uomo con due sole espressioni sul viso, “con o senza sigaro”, l’asciutto cowboy itinerante, all’occasione poliziotto con la cravatta di cuoio. Lo annunciava sullo schermo un’arietta con tromba e fischio, poi uno sbuffo di vento scopriva la Colt. Il Cavaliere Pallido, freddo, implacabile, compiva la sua nemesi di giustizia e onore. Guai ai reprobi…
I quali reprobi venivano quasi tutti dall’Accademia d’arte drammatica, ma non faticarono molto ad integrarsi al sistema americano, che oltre ai cazzotti e alle risse da saloon (https://www.youtube.com/watch?v=wX3CcQwdSmg) faceva piovere sulle produzioni locate a Roma e dintorni una pioggia di dollari e royalties faraoniche. E il giovane in coda al botteghino, con il suo dollaro intendeva pagarsi l’equivalente in pugni, sedie fracassate sui tavoli da gioco, quando non direttamente sui crani degli avventori ubriachi di whisky e gin. Insomma, contava di scambiare le sue svalutate lire con i dollari sonanti delle taglie, rapine e truffe da Casino Royal.
Presto, il paesaggio della Via Pontina, che era servito da set alle storie bibliche e mitiche delle grandi produzioni, si trasformò in un Far West de Noantri, con nuovi tipi di protagonisti, come quello che “Lo chiamavano Trinità”, e che trascinato da un cavallo, con i pantaloni di cuoio e sombrero, si faceva in quattro per dare allo spettatore, pagante uno o piú dollari, l’emozione di trovarsi a El Paso o a Tombstone in compagnia di Henry Fonda e Maureen O’ Hara.
Nel vortice del dollaro facile caddero anche i grossi nomi della cultura e dello spettacolo di casa nostra. Recitazione accademica, cultura classica piegata a fornire racconti per lo schermo conditi di quella sanguigna intemperanza per cui la cultura yankee andava colonizzando il mondo. Molte belle anime e ingegni creativi vennero risucchiati nel vortice della nuova cultura, anche se non tutti furono conquistati da quel credo di violenza che premiava la legge del piú forte, fatta passare per valenza di merito.
Ci fu infatti chi, nel campo dello spettacolo cinematografico, come Charlie Chaplin nel suo film “Un re a New York”, stigmatizzò la deriva di gusto e di morale che il cinema d’Oltreatlantico aveva preso, proprio per quella compiacenza che il mondo di Hollywood avallava persino con i grossi nomi dell’Actors Studio e con gli intellettuali che fornivano impegno promozionale e avallo di temi della politica. La crudezza della pellicola di Chaplin costò al grande comico l’interdizione a visitare gli States vita natural durante, ciò che egli fece, nonostante il suo amore per NewYork e la vita americana, quando era intesa però a conquistare i traguardi dell’arte creativa e dell’emancipazione.
Non tutti se la sentirono di pagare un prezzo cosí alto per una presa di coscienza e tenuta di valori. E certamente non fu per solo mercimonio o per libido di titoli che molti appozzarono al calderone degli spaghetti western, le cui ricette gioiose, e mai noiose, arricchirono gli operatori nostrani, dagli attori alle maestranze tecniche e strumentali. La voglia di esperienza di temi e mezzi suggerí l’azzardo, che in vari casi nel tempo si doveva dimostrare vincente nel fornire alla cultura e alla resa creativa il raggiungimento di alcuni traguardi, che contarono allora, e contano vieppiú adesso che il melting pot globale richiede cooperazione, scambio, univocità di scopi e azioni per il fine comune. Tali assunti mossero gli intellettuali di casa nostra a mitigare, se non a cancellare, le posizioni critiche, accettando di fare joint-venture, o meglio avventura, con gli operatori statunitensi del cinema cosiddetto di cassetta, e fu il loro contributo di valore che quotò di genialità operante molte iniziative.
Un’avventura che sarebbe naufragata sugli scogli dell’autogestione tetragona senza aprirsi allo scambio proficuo per temi svolti e intuizioni da sviluppare. La civiltà si fa con simili abnegazioni o muore. La musica ha per ciò un ruolo determinante per l’amalgama perfetto, il supremo algoritmo.
Lunedí 6 luglio, si è spento a Roma, all’età di 91 anni, Ennio Morricone, Maestro di musica, trombista (preferiva questo appellativo rispetto a trombettista, per cui era diplomato), autore della quasi totalità delle colonne sonore del cinema italiano, nei felici anni Sessanta-Settanta, meno quella de “Il Padrino”, per la quale persino gli addetti ai lavori gli attribuivano erroneamente la paternità, che è del pur bravissimo Nino Rota, autore caro a Fellini.
Alle attribuzioni errate, come quella di aver musicato “ Parla piú piano”, refrain della saga dei Corleone, si aggiunge quella, ignorata dai piú, del vero capolavoro di Morricone, autore della colonna sonora di quel “Mission”, in cui la profonda fede cristiana del compositore riluce e vibra nel pianto e nella gioia dei nativi indios del Paraguay delle reduciones dei Gesuiti (https://www.youtube.com/watch?v=oag1Dfa1e_E).
Il “trombista col riportino da ragioniere” credeva fermamente che la musica sacra e il canto gregoriano abbiano dato origine a tutto. Il tutto era rappresentato dall’invisibile spartito dell’idealismo magico panteista in cui il compositore, o il poeta, sanno trasformare in note un ululato o una goccia che cade allo stesso modo di arrangiare “Abbronzatissima”, “Sapore di Sale”, “C’era una volta in America”, “Se telefonando”, sul cui valore bitonale Mina esercita le sue acrobazie vocali. E dire che Morricone aveva ricavato lo spunto di quella cadenzata sonorità, a suo dire, dalle sirene della polizia di Marsiglia! Che sia anche questa una via per arrivare a Dio, quale premio all’uomo che della creazione si fa coautore, nonché solerte, devoto artefice?
Non dobbiamo tuttavia minimizzare il rischio che corre ogni artista se avalla con la sua genialità e il suo impegno operativo e creativo certe cause e realtà umane e sociali che da quell’avallo dato in buona fede, per i piú sani e santi propositi, dal quale possono derivare malintesi di adesione e connivenza, e nascere lo stravolgimento di un ideale, di un pensiero e di un definitivo, convinto appoggio a una causa che non merita in definitiva alcuna adesione o coinvolgimento ideale o materiale che sia.
Il giovane che s’incamminava verso il botteghino per soddisfare il desiderio che lo spingeva a barattare il suo dollaro con qualche pugno cinematografico, non sapeva forse che nell’andare avrebbe potuto incontrare un Viandante che già in quegli anni percorreva le strade del mondo. A lui, come ad ogni altro, era stato promesso l’Incontro. Non ne conosciamo la data né l’occasione, ma non dobbiamo farci trovare impreparati. L’Incontro farà sciogliere quegli impulsi aggressivi come neve al sole: il Sole del Logos.
Come tutte le altre arti, anche quella del cinema dovrà essere trasformata, come ci conferma Arturo Onofri nel suo Nuovo Rinascimento: «Nell’arte futura ogni uomo-artista ritroverà, come rivelazioni mondiali e come creazione di esseri nuovi, altri cànoni tecnici ancora, ma interamente suoi; e attingerà dall’universo spirituale gli archetipi spirituali delle sue opere, in virtú della sua coscienza di Individuo; li attingerà direttamente da quel mondo, al quale egli si sarà auto-iniziato cristicamente come individualità umana assoluta, divenuta tutt’uno col Cosmo. Un’età di grandissimi artisti deve sorgere ancora sulla terra».
Ovidio Tufelli