Vigilia

Il racconto

Vigilia

L’avrebbero mai piú ripreso il bandolo di quella matassa, e il mondo, il loro, sarebbe ritornato come prima?

 

I pensieri affollavano la mente di Nina intenta a sgombrare la fornace della cucina dai detriti del fuoco precedente. Con la paletta di ferro tirò via i tizzoni combusti e parte della cenere che si era depositata sul fondo: l’avrebbe poi utilizzata per la lisciva di dopo Natale, che si preannunciava colossale. Sistemò in basso i rametti ben secchi a fare da miccia, poi i ciocchi piú grossi, e infine, al di sopra della grata, la carbonella che tolse da un sacchetto di juta. Sollevò un polverío scuro che le irritò la gola, facendola tossire piú volte. Diede rapidamente fuoco a un cartoccio allungato, introducendolo alla base dei legnetti sottili. Da questi si sarebbe sviluppata la fiamma che avrebbe fatto ardere i ceppi e poi la carbonella in cima. Un fumo prima esile poi fitto e acre si sprigionò dalla pira, invadendo il locale. Nina fu svelta nel chinarsi e soffiare inizialmente con la bocca, poi agitando freneticamente la ventola di paglia. Non poté comunque impedire che il fumo le finisse nelle narici e negli occhi. Tossí e pianse copiosamente, mentre una densa coltre biancastra si diffondeva, cercando orifizi per filtrare all’aperto.

 

«Nina, che fate, state piangendo?».

 

Fernanda, la vicina di casa, era entrata senza bussare dalla porta socchiusa, come usavano del resto fare tutti nel caseggiato, e ora stava lí a studiare stupefatta Nina che uscendo dalla nebbia spiegò: «Non vi preoccupate… è a causa di questo carbone cotto male. Il legno doveva essere ancora fresco. Quando ripassa il venditore, mi sente!».

 

«Che volete farci – la consolò la vicina, compiacente. – La roba non è piú quella di una volta, e i venditori sono tutti senza scrupoli, degli approfittatori. E che, l’olio è piú saporito? Chissà cosa ci mettono dentro, adesso! Che volete, ci vuole pazienza!».

 

«Eh, bastasse la pazienza…» soggiunse accorata Nina. Poi interrogò con gli occhi Fernanda.

 

«Sono venuta a chiedervi se vi trovate in casa dello spirito. Devo smacchiare camicia e calzoni di mio marito e tutta la biancheria sporca che aveva nella borsa. È tornato ieri sera da Avellino, dove sperava di concludere un affare. Non ha combinato niente, ma prima di ripartire gli è venuto in mente di comprare un chilo di copeta, perché lí le nocelle sono buone e il torrone lo sanno fare. Nella corriera, al ritorno, per il calore del motore, cosí pensa mio marito, o perché gli ingredienti della pasta usata per la copeta non erano di qualità, cosí penso io, è successo il pasticcio: si è squagliato tutto, e non vi dico in che condizioni erano ridotti la biancheria di ricambio e gli oggetti personali nella borsa… Quando mai il torrone di una volta, confezionato a regola d’arte, avrebbe fatto una riuscita del genere!».

 

«Adesso vi do l’alcol» disse Nina.

 

Servita la comare, tornò al suo fuoco. Con sollievo, notò che la carbonella si era accesa e stava diventando incandescente.

 

Francesco entrò spingendo il battente, senza far rumore, quasi furtivamente, ma Nina aveva già avvertito la sua presenza dall’ansito greve, penato, del respiro su per le scale dal cortile.

 

L’uomo le rivolse uno sguardo inquisitivo, al quale fece seguito la domanda: «Cosa è successo? Vedo che hai pianto».

 

«No, è semplicemente il carbone fatto con la legna non stagionata. Dovrò reclamare col carbonaio quando viene dopo Natale».

 

L’uomo si lavò le mani nella bacinella di ferro smaltato: ogni suo movimento veniva sottolineato dal respiro forzato. E colpi di tosse intervallati, stizzosi, insistenti.

 

«Sei stato alla bottega?» chiese Nina dopo una breve pausa. Francesco annuí, incupendosi in volto. Andò a sedersi presso la finestra in fondo alla cucina e lí rimase, assorto, un po’ scrutando gli alberi nel giardino sottostante, i cui rami lambivano i vetri, un po’ esaminandosi le mani che teneva protese in avanti, a palme distese e dita divaricate. E ripeteva quel controllo con determinazione ossessiva, a mascelle serrate, scuotendo la testa. Infine, sollevava in alto lo sguardo obliquamente, come a cercare un interlocutore assente ma in qualche modo responsabile delle sue condizioni.

 

«Non butti via l’acqua dalla bacinella?» chiese ritornando alla realtà dalla sua alienazione.

 

Nina senza fare commenti, eseguí la pulizia del recipiente. «Se invece di andare in quel buco umido e freddo te ne fossi andato in chiesa, sarebbe stato meglio» disse poi la donna in tono di rimprovero.

 

«In chiesa… e a far che? – fu la risposta quasi sprezzante. – A chiedere che le cose s’aggiustino, per te, per noi tutti? Non serve a niente!».

 

«Serve, serve…» ribatté la donna, ostinata.

 

Una smorfia di fastidio contrasse la bocca di Francesco: «A me no di certo. Guarda come sono ridotto. Non riesco neppure a reggere la pialla, e non posso baciare mio figlio per paura di infettarlo!».

 

«Non devi parlare cosí – reagí lei con foga risentita – tu sei guarito. Lo ha garantito il professore: clinicamente guarito. E poi, consíderati fortunato: in paese ne sono ritornati a decine come te e peggio di te. Tu almeno puoi camminare, parlare. Pensa al povero Matteo, senza le gambe, e a Giovanni, completamente scimunito!».

 

«Certo, fortunato! – replicò con sarcasmo Francesco alla perorazione della moglie. – Del resto, non servono le preghiere a far guarire me e a ridare le gambe a Matteo. E se anche io guarissi e Matteo potesse camminare di nuovo, nessuno potrebbe togliere quello che abbiamo visto fare e abbiamo fatto noi stessi. È rimasto qui dentro – e nel dire cosí poggiò con rabbia il pugno sul petto – e brucia. Nessuno lo può capire se non lo prova di persona, neppure tu!».

 

Adesso le lacrime, vere, inumidirono gli occhi di Nina. Il cinismo di suo marito la feriva in maniera estrema. Era un’aggressione alla quale non sapeva opporre difesa. Una violenza che la sconvolgeva, disarmandola fino alla totale inibizione. L’uomo si era richiuso nel suo mutismo tormentato.

 

Irruppero dopo qualche istante i bambini: i tre della famiglia uniti allo stuolo degli altri del vicinato. «Abbiamo fatto il moschetto: guarda!» gridavano, e Alduccio, il piú grande del gruppo, passò alla subitanea dimostrazione del portentoso aggeggio. Un grosso chiodo appuntito e una chiave vuota legati alle due estremità di uno spago. Il ragazzo infilò nel cavo del metallo un petardo, staccandolo dalla banda di carta, e dopo l’esplosivo il chiodo, badando a farne combaciare strettamente la punta col petardo, proprio come un cecchino ottocentesco si sarebbe comportato con uno schioppo ad avancarica. Armato cosí l’ordigno, Alduccio lo fece oscillare fino ad imprimergli una buona forza d’urto. Quando il movimento a pendolo gli parve gagliardo abbastanza, mandò ad urtare il “moschetto” contro lo stipite della porta. Il petardo esplose, provocando un rimbombo che intronò l’androne sfociando nel cortile, dopo aver sprigionato un vapore azzurrognolo odoroso di zolfo e pirite. Grida di eccitazione accolsero lo scoppio.

 

«Bambini, è ora di provare il Te Deum. Venite!» Chi aveva parlato era nonna Maria, apparsa nel riquadro della porta proprio mentre Alduccio raccoglieva il plauso dei bambini per il suo exploit pirotecnico. Cosí, gaiamente trafelato come era venuto, il gruppo dei piccoli sciamò via dalla cucina seguendo la donna.

 

«Beata lei che ci crede!» commentò ironico dal suo angolo Francesco all’indirizzo della madre di Nina.

 

La vecchia si occupava degli adempimenti rituali della famiglia. Era lei che interpretava i sogni, lei che sapeva esattamente le funzioni e i poteri taumaturgici dei vari santi, lei infine che conosceva a memoria suppliche, litanie e invocazioni utili alle necessità piú disparate. Ma come per tutto il resto, anche la sapienza liturgica della vecchia sembrava aver perso il suo potere, cosí le sue virtú sensitive. Nel mese di aprile, il Vesuvio si era congedato dal suo regno e dai suoi sudditi, impazziti nella frenesia bellica, offrendo uno spettacolo irripetibile e fantasmagorico: lapilli grossi come noci erano caduti per ore dal cielo sul paese. La gente, abituata ad emergenze del genere, specie con le sfuriate piroclastiche della Montagna, era uscita di casa ugualmente, proteggendosi con pentole di rame a mo’ di scudo, come aveva sempre fatto per secoli. Pochi si erano resi conto che il Nume Tutelare prendeva commiato in forma definitiva da una realtà stravolta.

 

Mentre durava l’eruzione, le vecchie donne di casa avevano cinto le corde di penitenza, indossato gli scapolari benedetti e, spalancata la grande finestra che dava a meridione, si erano date ad espletare tutte le pratiche esorcistiche, chiamando in causa l’intero pantheon di santi protettori affinché il flagello avesse termine. Tridui, litanie, giaculatorie non erano valsi a diradare la cappa di ceneri sospesa nell’atmosfera e a frenare la doccia di basalto rovente.

 

«Sono i nostri peccati – aveva concluso nonna Maria, togliendosi i paramenti apotropaici e richiudendo la finestra – i santi non ci vogliono piú esaudire!».

 

«Secondo me se ne sono proprio andati!» aveva sentenziato un’altra officiante categoricamente, senza specificare dove si fossero rifugiate le entità celesti deluse dal genere umano.

 

Nel mese di ottobre, piogge torrenziali avevano fatto straripare il fiume e provocato frane lungo le pendici delle colline. Strade e vicoli, come accadeva in quei casi, diventavano alvei precari e inadeguati a contenere la massa di acqua e fango che tentava furiosamente di trovare uno sbocco al mare. Anche allora, riti propiziatori e scongiuri da parte delle vestali domestiche erano stati praticati contro l’emergenza. Nella fiumara limacciosa e violenta le pie mani avevano lasciato cadere immagini benedette di santi e beati, anacoreti e taumaturghi celebrati: niente! Si era ripetuto lo stesso fiasco dell’eruzione. E si ebbe la conferma che la divinità voleva a modo suo manifestare il proprio risentimento nei confronti degli umani, abbandonandoli al loro destino.

 

Ma i vecchi non mollavano. Un’ostinazione sorda, nutrita nel proprio intimo, li conservava vigili, affidati al volere divino, caparbi, fedeli al loro modo di vivere e credere.

 

«Quest’anno, invece che il 31, lo canteremo a Natale il Te Deum! – aveva stabilito qualche giorno prima di Natale nonna Maria. – Forse cosí i santi si ricorderanno di noi e ci faranno la grazia».

 

Da parte sua, nonno Filippo aveva ripulito la bacheca a muro del presepe, risistemando le ali degli angeli, zampe, corna e code dei vari animali, e preteso che le donne di casa ricucissero e rattoppassero con pezze e filo gli abiti lisi dei personaggi piú ragguardevoli, costumi di broccato e seta che avevano vissuto stagioni gloriose ma che accusavano adesso le ingiurie del tempo.

 

«Devono fare la loro figura – aveva aggiunto il nonno – altrimenti che devozione è la nostra?».

 

E poi, nonna Maria aveva tirato fuori dalla scatola delle sue reliquie, nascosta in fondo all’ar­madio della camera da letto, la cartolina che suo figlio Antonio, unico maschio, fratello di Nina, aveva spedito dal fronte russo il Natale di due anni prima. Sul cartoncino del frontespizio il soldato aveva disegnato a pastello un paesaggio invernale mediterraneo, dai toni ingenui, surreali: una casetta col camino che emetteva una voluta sottile di fumo, un albero protettivo accanto, colline dolci, ricoperte di verde tenero nonostante l’ambientazione notturna, e infine, al sommo del dipinto, una stella con un lungo strascico dorato. L’astro sovrastava con la sua luce vittoriosa i contorni di un mondo sbiadito, indefinibile, come i paesaggi che si vedono in sogno. La vecchia aveva messo la cartolina in un angolo della vetrina.

 

«Chissà, forse la Madonna lo farà tornare!» queste erano state le sue parole.

 

Anche se l’anno prima il figlio le era apparso in sogno e sorridendo aveva esclamato: «Si vola, madre, si vola…» segno questo interpretato come una conferma che Antonio faceva ormai parte della dimensione soprannaturale. Ma le speranze nei vecchi erano tenaci, nonostante la realtà.

 

I giovani invece non possedevano le stesse risorse di perseveranza e di fede. Alla rassegnazione e alla fiducia nel trascendente opponevano la rabbia e l’istinto di rivolta.

 

Chiara, la moglie di Antonio, era andata in giro per mesi seguendo l’illusione di notizie sulla sorte del marito che le provenivano dalle fonti piú disparate.

 

«È tornato un militare dalla Russia, su a Poggio Vetere».

 

E lei, trafelata, a raggiungere la casa del reduce per ricevere immancabilmente l’identica vaga e frustrante dichiarazione: «Che volete, lí è stato un tale inferno, una Babilonia! Chi ha avuto fortuna si è salvato, ma gli altri…».

 

Ogni giorno, la giovane donna si era prostrata in ginocchio davanti al sarcofago della Santa patrona del paese: implorazioni straziate, pretese reiterate di miracoli, dialoghi a tu per tu, crudi fino all’irriverenza. Finché durò dentro di lei la fede nel simulacro, l’abbandono al sacro. Poi, fu come se un meccanismo si rompesse: uno schianto interiore e le lacrime, le preghiere, si erano interrotte, e lei inaridita, spenta. «Neppure Tu mi vuoi aiutare» aveva detto rivolta al sacello muto.

 

Pochi giorni prima di Natale, Chiara aveva mandato da Napoli un pacco con i regali per i due figli e per il nipotino. Non sarebbe potuta venire a casa per le feste. I padroni dove prestava servizio ospitavano persone di riguardo, organizzavano balli e ricevimenti, occorreva tutto il personale. Dopo Capodanno, forse, avrebbe fatto una scappata.

 

Nonno Filippo mostrava con fierezza un mazzo di carote pastenache: «Sono riuscito ad averle da Gaetano, l’organista: mi sono costate due messe cantate nella congrega. Fresche dal suo orto. Possiamo farle in agro col prezzemolo. In giro non si trova nulla, e quel poco che c’è non è per le nostre tasche!».

 

«Per forza – intervenne ironico Francesco dalla sua postazione in fondo alla cucina – nessuno lavora piú la terra. Tutti a fare il contrabbando e il mercato nero!».

 

«Papà – s’intromise Nina cercando di stornare l’attenzione del vecchio dalle frecciate polemiche di suo marito – questa farina si aggruma tutta. Ma che tipo di grano macinate adesso tu e il Sordo giú al mulino?».

 

«Quello che cresce di questi tempi!» rispose pacato nonno Filippo. Poi aggiunse «Ringraziamo il Signore che lo abbiamo rimediato. Tante famiglie quest’anno non riusciranno a mettere in tavola neppure il primo!».

 

La farina contenuta in un sacchetto costituiva il compenso per il lavoro del vecchio al mulino di Catello, detto il Sordo, come le carote erano state il termine di baratto con Gaetano per le prestazioni canore nel Coro della Congrega.

 

«Non dimenticare di mettere da parte qualche zeppola per le carole di stasera» disse nonno Filippo, osservando la figlia che rimestava con energia la pastella nella grande terrina di maiolica bianca.

 

«Ci ho già pensato – rispose la donna, e indicò in un angolo del tavolo d’appoggio un mucchietto di frutta secca e mandarini – non andranno via a mani vuote».

 

«Fosse per me! – commentò amaro dal suo cantuccio Francesco. – Tutte queste cerimonie che senso hanno?».

 

Nonno Filippo gli rivolse un’occhiata dispiaciuta, ma non replicò. Come prendersela con uno che nel fiore della gioventú aveva visto la morte in faccia per giorni di seguito, che forse aveva ucciso, e che portava nel corpo e nel cuore il marchio di tutto il male che aveva fatto e subíto? Spesso si chiedeva, osservando Francesco, se anche suo figlio Antonio, una volta ritornato, si sarebbe comportato cosí.

 

«Papà – intervenne nuovamente Nina – noi abbiamo invitato Immacolata, la nostra vicina, per la cena di questa sera. Cosí non dovrà fare la fila alla Cucina Economica per un piatto di minestra. Tutti i giorni va lí, e mi fa una gran pena. Alla sua età…».

 

«E me lo chiedi? Avete fatto benissimo – rispose il padre – piú siamo a tavola e piú allegri ci sentiremo».

 

Si riaffacciarono i bambini al colmo dell’eccitazione, per riferire che Menicuccio, il vinaio, aveva messo a punto una batteria di fuochi d’artificio usando grossi barattoli di latta, tinozze e barili vecchi, incastrati uno a fianco dell’altro. Percuotendo quei rudimentali tamburi con doghe di legno secco, in un certo modo da lui stesso escogitato e sperimentato, avrebbe ottenuto un effetto sonoro tale e quale ai veri botti. Dosando poi i colpi e variando il ritmo e la velocità di percussione, era in grado di ricavare dal suo marchingegno autarchico l’intera gamma dei rumori tipici della pirotecnica tradizionale: mortaretti, petardi, castagnole, bombe.

 

«Avete imparato bene il Te Deum?» interrogò nonno Filippo rivolto alla schiera euforizzata. Gli rispose l’unisono squillante di tanti “sí”. Il vecchio aggiunse il monito: «Fate attenzione a non sbagliare, perché se il Te Deum viene interrotto sulla terra, gli Angeli sono costretti a riprenderlo in Cielo per noi».

 

Quel sacchetto di farina si era rivelato un’autentica benedizione. Con orgoglio e stupore Nina faceva l’inventario delle cose che era riuscita a farci: fusilli per il primo, le zeppole ai vari gusti, con miele e anicini, ripiene di cavolfiore, poi gli strufoli, e ne era avanzata per le orecchiette e i dolci delle feste dopo Natale, fino alla Befana. Non ci fosse stata quella farina, una ben magra vigilia avrebbero celebrato! Una teglia delle carote di nonno Filippo contornava un paio di anguille filiformi che solo il miracolo di Tiberiade avrebbe potuto moltiplicare per renderle sufficienti a contentare tutta la tavolata. Pure, tagliate con sapienza in tocchi ridottissimi, parte era finita in padella fritta dorata, parte in umido, e il restante con l’agro d’aceto. Ma si trattava in definitiva di simboli piuttosto che di cibo vero e proprio, metafore gastronomiche da consumare condite con l’impagabile spezia della fantasia.

 

In compenso, la famiglia era tirata a lucido, come i pastori del presepe dopo ingegnosi rammendi e rattoppi, laddove non si era potuto attingere dai capi estrosi giunti con i pacchi dall’America. Anche la vicina ospite, Immacolata, si era tutta agghindata per l’occasione. Nonno Filippo, gran cerimoniere, aveva indossato il completo col gilè, non perché ci tenesse oltremodo all’eleganza di quella mise, ma piuttosto per il panciotto che gli consentiva finalmente di poter esibire il suo cipollone da taschino recuperato dall’oblio del comò. Il cronometro, vecchio di decenni, caricato al tramonto prometteva di poter raggiungere con una certa dose di fedeltà la mezzanotte, e forse di superarla senza registrare grossi scompensi temporali.

 

Su insistenza di Nina, anche Francesco si era messo il vestito buono conservato nell’armadio per tutta la durata della guerra, tenuto pulito e stirato come il mantello del Principe Azzurro.

 

L’uomo si era schermito a tutta quella messinscena, pure aveva finito col cedere, persino consentendo al suocero di aiutarlo nella rasatura.

 

«Brava, Nina!» si complimentò la vecchia Immacolata. A confronto del vitto militaresco dispensato dall’assistenza pubblica alla Cucina Economica gestita dall’oste Alfonsino, l’austero buffet allestito dalla giovane donna appariva sontuoso. Tutti si unirono al plauso.

 

Alle finestre già brillavano le prime fiammelle, si udivano spari disseminati nella conca montuosa alle spalle del paese. Tutta l’aria si era fatta tersa, sospesa nella vibrante attesa dell’ora magica e fatale, quando il cielo si sarebbe aperto per riversare sull’umanità le grazie di un avvento portentoso. Tutto era infatti possibile in quella notte arcana, e Nina, mentre accudiva come sempre a quella smarrita compagine di esseri a lei cari, si augurava che una particola di celeste misericordia toccasse anche a loro, un segno, una luce che indicasse, nel buio seguíto alle violenze della guerra, la via da percorrere per giungere alla serenità del cuore. Perché era lí che il male aveva subdolamente nidificato, mettendo radici. Da lí occorreva estirparlo prima che fosse troppo tardi.

 

Dopo cena passarono le carole di porta in porta, raccolsero i doni, sciolsero al centro del cortile le loro melodie sommesse, ripartirono nel riverbero oscillante dei loro tenui lumi.

 

La mezzanotte si avvicinava, annunziata dall’alito freddo che veniva dalle gole dei monti: un soffio che già conteneva il fermento di semi prossimi a germinare, del risveglio in atto nel grembo della terra.

 

In casa maturava intanto un piccolo dramma: non si riusciva a mettere d’accordo i bambini su chi dovesse portare il Redentore dalla camera da letto fino alla bacheca del presepe. L’onore era grande, e quindi anche la gara per aggiudicarselo veemente. Per tradizione il compito spettava ai membri piú piccoli della famiglia, sia per la loro innocenza, sia perché si riteneva che il contatto con il Bambinello appena nato accordasse salute e saggezza.

 

«Lo porterà Angelino, che è il piú piccolo!» decise ad un certo punto nonna Maria, ponendo cosí fine alla competizione. Le mani del prescelto si tesero incerte, trepide, una accostata all’altra per offrire un sostegno il piú spazioso possibile. La vecchia vi adagiò il pupo di creta rosata che le dita di Angelino si affrettarono a cingere protettive.

 

Francesco fissava suo figlio mentre a piccoli passi prudenti avanzava verso il presepe: il bambino incontrò con i suoi occhi tranquilli e miti lo sguardo aspro e dolente del padre. Tra i due corse un messaggio, indecifrabile agli altri.

 

Quando furono vicini, Angelino protese il prezioso carico verso l’uomo, confuso: «Portalo tu!» gli disse con voce ferma, insospettata.

 

Tutti s’irrigidirono nell’imbarazzo. Nonna Maria fece per intervenire, ma Nina la fermò. «Lasciatelo stare – sussurrò ispirata – lasciatelo…».

 

Francesco prima si ritrasse all’invito del figlio, poi si guardò intorno vergognoso e irritato. Il bambino tese di nuovo le braccia, insistente, quasi imperioso. L’uomo fu costretto a difendersi: «Ma io non posso» e sollevò le mani.

 

«Prova!» esclamò a mezza voce Nina, supplicando.

 

E quelle mani si mossero al comando, prima tremanti, titubanti, poi ferme. Rilevarono da quelle morbide del piccolo la statuina, trasportandola fino alla mangiatoia nella capanna, ponendola sullo strame sotto la tutela degli Angeli e della Sacra Famiglia, nel fiato caldo del bue e dell’asino.

 

Fu a quel punto esatto che nonno Filippo, dopo aver consultato il suo orologio, intonò il Te Deum. Fuori fecero eco immediata i fuochi succedanei di Menicuccio, le campane, gli spari dalle colline. E canti si levarono dalle case, dai tetti e i bassi, dalle dimore umili o solenni che fossero. In Paradiso gli Angeli si tenevano pronti, nell’eventualità che i cantori piú distratti e maldestri sbagliassero. Ma ciò non avvenne. L’inno usci dalla stanza, dal paese, volò dritto e sicuro alla porta del Cielo, bussò implorando il perdono dal Padre, e Questi, toccato dal dolore umano che aveva colmato ogni misura, ebbe pietà. Aprí.

 

Per questo, forse, Nina avvertí una strana pace mentre cantava con gli altri. Vide una Luce diversa negli occhi di tutti.

 

Dopo quella notte, si disse, sarebbe stato piú facile riprendere il bandolo della matassa, ricomporre il mondo che la violenza e la morte avevano tentato di distruggere.

 

Fulvio Di Lieto  (da: Terra in cielo)

 



Te Deum

Te Deum Laudamus

Noi ti lodiamo,

ti proclamiamo Signore.

O eterno Padre,

tutta la terra ti adora.

A te cantano gli angeli

e tutte le potenze dei cieli:

Santo, Santo, Santo

il Signore Dio dell’universo.

I cieli e la terra

sono pieni della tua gloria.

Ti acclama il coro degli apostoli

e la candida schiera dei martiri;

le voci dei profeti

si uniscono nella tua lode;

la santa Chiesa

proclama la tua gloria,

adora il tuo unico figlio,

e lo Spirito Santo Paraclito.

O Cristo, re della gloria,

eterno Figlio del Padre,

tu nascesti dalla Vergine Madre

per la salvezza dell’uomo.

Vincitore della morte,

hai aperto ai credenti

il regno dei cieli.

Tu siedi alla destra di Dio,

nella gloria del Padre.

Verrai a giudicare il mondo

alla fine dei tempi.

Soccorri i tuoi figli, Signore,

che hai redento

col tuo sangue prezioso.

Accoglici nella tua gloria

nell’assemblea dei santi.

Salva il tuo popolo, Signore,

guida e proteggi i tuoi figli.

Ogni giorno ti benediciamo,

lodiamo il tuo nome

per sempre.

Degnati oggi, Signore,

di custodirci senza peccato.

Sia sempre con noi

la tua misericordia:

in te abbiamo sperato.

Pietà di noi, Signore,

pietà di noi.

Tu sei la nostra speranza,

non saremo confusi in eterno.