La Meccanica Quantistica
e le Oche del Campidoglio
C’è un rapporto fra noi e le vicissitudini che intessono le nostre esistenze? C’è una relazione tra gli accadimenti e la vita di ogni uomo? E per rapporto-relazione intendo dire un legame saldo, preciso; una vera e propria funzione matematica.
Oggi tale domanda sorge quasi spontanea; è diventata di dominio pubblico; studi, ricerche ma anche circoli di opinionismo salottiero se la contendono; rientra nei temi aulici, anche se ci si accontenta di richiamarla accompagnata da un sospiro. Ma fino a ieri erano in pochi a permettersi di esprimerla e meno ancora in grado di capirne la portata. Eppure, al suo primo apparire, la questione sembra semplice; questo tuttavia non ci deve trarre in inganno.
Se la strada per giungere alla piena inquadratura di un interrogativo essenziale è stata fin qui lunga, temo allora che anche la ricerca di una risposta, non dico esaustiva ma almeno adeguata, non sarà rapida.
Per qualcuno la seduzione intellettualistica di coglierla potrebbe costituire una fatica o peggio, un peccato di temerarietà, ma io preferisco prenderla come una sfida sportiva nella quale provo piacere cimentarmi, tenendo ben presente l’assunto di Pierre de Coubertin.
Per svolgere degnamente la ricerca sento di aver bisogno di un rinnovo identitario; il soggetto in cui mi ritrovo, il mio ineffabile “me medesimo”, non mi sembra del tutto adatto allo scopo: troppo incostante, un po’ vanesio e discontinuo in quanto a volontà. Perciò mi calerò nei panni dello Straniero di Elea che, a suo tempo, dette filo da torcere agli interpreti del Sofista di Platone; in pratica un rompiscatole ante litteram, armato di buona dialettica e specializzato nell’arte di rilevare le discrepanze logiche nelle argomentazioni altrui, dopo esservisi intrufolato con o senza invito.
Nel corso dello scritto, userò frequentemente il personaggio platonico; gli farò fare cose inaudite, come attraversare i limiti temporali e rovistare tra le correnti di pensiero che si sono alternate nelle varie epoche, fino ai giorni nostri, dove dovrà vedersela con la “meccanica dei quanti”. Sono convinto di fargli un piacere; son cose in cui lui ci sguazza. Poi con Platone dovrò vedermela io, ma sono sicuro che per questa mia licenza non farà il sofista.
Dunque: ci siamo noi, ci sono le cose, gli oggetti, il mondo, l’immensità dell’universo e poi ci sono le varie rappresentazioni che possiamo farci su tutte queste belle cose. Esse stanno racchiuse in un’unica totalità, ma spesso per facilitare l’apprendimento didattico (ora, pure a distanza), dividiamo quel mondo in tre sotto-mondi: quello della nostra interiorità, quello che sembra star fuori da noi e che chiamiamo esterno e per ultimo quel mondo di mezzo che fa da ponte tra i due e che sostanzialmente è formato da pensieri, sentimenti, sensazioni e giudizi elaborati o comunque prodotti dalla reciproca relazione tra i suddetti protagonisti, agenti uno dal di dentro e l’altro dal di fuori.
Non di rado però ci scordiamo d’aver compiuto una suddivisione ternaria di un insieme, la cui integrità consiste per l’appunto nell’essere un unico indivisibile, e continuiamo a studiare le tre parti separatamente, chiedendoci quali potrebbero essere le interferenze scambievoli, sempre che ci siano, e le modalità con cui si stabiliscano.
Anticamente la Filosofia fu la prima ad occuparsene, anzi, per dir meglio, la corrente di pensieri che se ne occupò per prima venne chiamata Filosofia. Il suo proposito era quello di dare una risposta ai vari perché e percome della vita e dell’essere. Quando si accorse che ogni cosa studiata si apriva su un mondo nuovo tutto da indagare, accettò la dicotomia; mantenne per sé l’indagine squisitamente metafisica e rivolse alla natura dell’uomo e delle cose un’attenzione che esulava dalla provenienza, dallo status e da una eventuale finalità, concentrandosi piuttosto sul come accadessero i fenomeni e quali fossero le regole che ne governavano i corrispondenti aspetti.
L’obiettività del rapporto tra soggetto e oggetto ad un tratto (si fa per dire, perché ci vollero secoli) s’era fatta fiacca e dispersiva; tentò pertanto di rinnovarsi cedendo una parte di sé – e scambiandolo per un rimedio – alla ricerca di una obiettività diversa, derivante direttamente dagli stessi oggetti: visto che le avevano fornito il titolo, adesso bastava aggiungerci un ruolo. Ma come insegna Pinocchio, una cosa è scoprire la forza che da un primo oggetto ne fa derivare un secondo, un’altra è credere che tale forza si racchiuda ora nell’uno ora nell’altro per grazia ricevuta: una specie di prerogativa, una proprietà esclusiva da non spartire con nessuno.
Chiede lo Straniero di Elea: «Non è che avete forse sottovalutato il carattere del provvisorio? Lo scorrere dell’acqua non è discontinuo come l’andatura a balzelloni di un coniglio, ma rappresentano entrambi un modo di procedere».
Bisognava porvi un riparo: il “Panta Rei” di Eraclito aveva fatto il suo tempo. Poi che tutto scorreva nell’incessante mar del divenire, bisognava comprendere perché lo facesse e dove stesse andando. I pareri fioccavano, sí, ma discordi e inconclusivi.
«Io dico – interviene lo Straniero di Elea – che prima di stabilire un pronunciamento circa la natura dei fenomeni che osserviamo, è necessario avere un certo riguardo per l’osservatore stesso, dal momento che, cosí almeno sembra, tutti sappiamo che due piú due fa quattro e possiamo affermarlo in ogni situazione; quando però siamo ammalati, o feriti, o abbiamo una grossa preoccupazione che ci attanaglia l’anima, l’operazione diventa difficile, e se il calcolo da eseguire è per giunta piú complicato di una banale addizione, allora non dobbiamo aver paura di ammettere il disagio dei nostri risultati, e da qui, l’errore. Il che dovrebbe far pensare».
E qui si ripresenta l’antico dilemma, che al tempo di Platone non era ancora antico, ma oggi sicuramente sí: la realtà è marcatamente soggettiva, oppure è oggettiva senza eccezioni e noi impariamo dal mondo quel che crediamo di conoscere attraverso il lavorío mentale ed intellettualistico?
Per risolvere il quesito basterebbe ammettere che quel mondo che noi osserviamo fuori di noi, sta pure dentro di noi, che gli apparteniamo piú di quanto esso sembra appartenerci. Tuttavia un simile concetto per molto tempo non ha riscosso il successo che si sarebbe meritato; forse veniva considerato come una specie di aggiustamento, un “veniamoci incontro” troppo concessivo che filosofi e scienziati in genere evitano, preferendo lasciarlo ai politicanti in cerca di voti e ai mestieranti di concertazione.
Lo Straniero di Elea poteva dire che un accordo fra due parti contendenti non era poi una cosa di cui doversi vergognare; anche un coro o un’orchestra, pur partendo da differenti timbri e suoni, poteva, se ben guidata, produrre effetti sonori unici e mirabolanti. Ma per l’appunto in quel settore di disputa accademica, come filosofia e scienza, pur fra tanti esperti ed insigni suonatori, mancava un direttore d’orchestra capace di collegare armoniosamente tra loro atomi e monadi, molecole e intuizioni, ammassi stellari e impulsi neuronici.
Se la Filosofia metteva in campo una sua teoria, qualunque essa fosse, ecco la Scienza insorgere contro e negare ogni validità perché tutto ciò che non viene costruito su fatti rigorosamente oggettivi e sperimentabili non può (leggi: non deve) considerarsi piú d’una semplice ipotesi.
Dall’altra parte, quando la Scienza reclamava il diritto di aver svelato qualche nuovo arcano nascosto tra le pieghe della natura, la Filosofia non batteva ciglio, come fa un professore severo con un allievo impertinente; con un silenzio gelido di offesa maestà, lasciava intendere che alla fin dei conti solo il giudizio togato sarebbe passato alla storia e che pure la scoperta piú prodigiosa sarebbe stata niente se l’uomo continuava ad ignorarsi nel suo divenire cogliendo della vita solo gli aspetti piú grami e utilitaristici.
Anche gli starnazzi delle Oche del Campidoglio ebbero la loro funzione di utilità; bisognava però che vi fosse un nemico, un intruso malintenzionato o un clandestino che le mettesse in azione. Se i mali della cittadella venivano dall’interno, e nascevano per dissensi intestini della popolazione, le oche avrebbero taciuto. Di questo, non si dice mai abbastanza, non se ne parla nemmeno, ma meriterebbe un approfondimento.
Oppure lo Straniero di Elea era il Clandestino per antonomasia? Quindi le oche, pardòn, i filosofi e gli scienziati, nonché tutti coloro che in qualche modo ne dipendevano, facevano bene a starnazzare avvertendo la restante società di svegliarsi perché un pericolo comune stava avanzando e penetrava nel territorio.
Infatti il pericolo era il Dubbio Critico. Un nemico implacabile per quanti attribuendo a sé la facoltà di arrivare al giusto usando la ragione, credono che tutte le loro ragioni debbano essere giuste dal momento che erano arrivate. Troppo spesso ci si scorda del Manzoni che avverte: «Per avere ragione non basta essere nel giusto, bisogna anche che sia l’altro a stare nel torto».
Un’ingegnosa contesa di cervelli ed il relativo contenzioso formatosi dall’intreccio sovente maldestro delle opinioni prodotte dai medesimi, ha caratterizzato fin qui la storia dell’uomo. Tuttavia oggi si può dire che qualcosa di veramente nuovo sta ribollendo nel gran calderone della scienza spiegata ai popoli. Detta cosí sembra una cosa brutta, ma anche la divulgazione ha i suoi limiti; non sempre osserva i criteri estetici e a volte neanche quelli etici, che poi sono facili da confondere perché i primi suonano come un extended dei secondi.
Tutto cominciò, come ebbe a scrivere il fisico teorico Carlo Rovelli nel suo ottimo libro Helgoland, sull’omonima isola, piuttosto brulla, del Mare del Nord, nel 1925, e che ebbe come protagonista un giovane Werner Heisenberg in vena di scoperte tanto poderose quanto inquietanti. Da allora, attraverso una serie di scienziati e matematici d’alto livello (si parla di Einstein, Bohr, Schroedinger, Plank ecc.) si arrivò ad elaborare la Teoria del Quanti, o Meccanica Quantistica, che in ultima analisi – per ora – è un nuovo modo di riaccostare quello che abbiamo fin qui incontrato, osservato e compreso, ma rivoluzionandolo ad un punto tale che nulla di esso potrà mai piú essere incontrato, osservato e compreso secondo i criteri trasmessici dai nostri antenati, e da noi diligentemente assimilati fin dai periodi piú delicati del nostro sviluppo.
Molto onestamente Carlo Rovelli precisa che nel lontano passato ci furono delle avvisaglie in questo senso; in fondo ogni novità sembra tale e può oggi sorprendere e giganteggiare, anche se qualche suo antesignano alfiere è stato ignorato e “scartato” dalla cultura epocale, senza mai venir riabilitato nel seguito del tempo né dalle generazioni successive. Pure questo succede.
Due nomi per tutti: il saggio Nāgārjuna e lo Straniero di Elea di Platone, dal quale ho preso a prestito il litote per aiutarmi nel presente articolo. Ovviamente avrei gradito che ai nomi sopra indicati fossero stati aggiunti altri due, ma se il professor Rovelli ha inteso indicare i suoi, senza quelli che avrei voluto metterci io, non gliene posso fare una colpa; tutto sommato sono contento per lui perché questo significa che avrà ancora delle cose bellissime da scoprire, leggendo la Filosofia della Libertà e il Trattato del Pensiero Vivente.
Lo Straniero di Elea e il saggio Nagarjuna hanno poco da spartire: tra una figura retorica della filosofia ellenica del IV sec. a.C. e un monaco buddista indú vissuto nel II Secolo d.C. generalmente parlando non corre un gran numero di addentellati; eppure entrambi indicano la stessa via di conoscenza; fatta di relazioni, di comunicazioni, di interferenze e di interazioni o scambi di forze, di contatti in sospeso (ricordiamoci gli entaglement, per esempio) e di intenzionalità, nel senso che quanto accade, accade sempre per un dato motivo.
Di regola consideriamo la realtà come l’insieme dei motivi individuabili; per tutto il resto dobbiamo ricorrere all’aggettivo “oscuro” o a circonlocuzioni del tipo “una nuvola di probabilità”.
Visto che oramai l’ho cooptato in usufrutto, sarà meglio che adesso lasci per un po’ la parola allo Straniero. Egli terrà un discorso al posto mio, dirà delle cose che io non avrei saputo dire, e comunque saranno piú interessanti. I suoi limiti sono logicamente i miei, ma mentre io, stando in me, li patisco, egli invece non se cura proprio; li rispetta questo sí, ma come si fa con i cani del vicino: se richiesto nel modo dovuto, non sdegna a volte portarseli in giro per una passeggiatina.
Riserverò in finale per me alcune brevi riflessioni sulle Oche del Campidoglio: sono state evocate in complemento al titolo, hanno fatto capolino qua e là in queste pagine e hanno diritto di dar corpo alla conclusione.
Racconta lo Straniero:
«In questo periodo per molti aspetti travagliato e pieno d’incertezze, la visione del mondo offerta dalla meccanica quantistica può far paura. È un prezzo che tutte le grosse novità comportano. Perché le novità, quando lo sono per davvero, sono sempre sconvolgenti, sembra che ti tolgano il terreno da sotto i piedi e non sai piú come ritrovare il vecchio equilibrio; ti senti inerme, confuso, sbalestrato. Magari anche inutile. Tuttavia per un avvio alla ricerca è un buon momento.
Fino a poco fa, le posizioni della coscienza umana di fronte al generale problema del conoscere potevano appartenere ad uno di tre orientamenti fondamentali: Spiritualismo, Idealismo, o Materialismo. Ma il primo non rispose alle precise esigenze delle scienze, il secondo si macchiò di relativismo soggettivo e il terzo spiegò poco o nulla circa l’interiorità dell’uomo.
Oggi con la Teoria dei Quanti, abbiamo una bella novità, ma non illudiamoci troppo, perché comunque sarà una gatta tutta da pelare nell’immediato futuro. Come sono iniziate queste pagine? Chiedendoci se l’uomo dipenda dagli eventi. Il primo passo cui ci porta la visione quantica è questo: non ci sono eventi e non ci siamo neppure noi: ci sono invece azioni di forza che attuano presenze e queste presenze sono tali solo in quanto derivanti da scambi di forze reciproche.
La domanda se la vita dell’uomo sia collegabile o meno agli accadimenti è una domanda superata, rafferma. del tutto inutile. È chiedersi se tra i pesci e il mare ci sia una relazione stabile ed essenziale; se il cielo debba venir studiato assieme all’esistenza dei volatili, e se i corpi celesti abbiano una qualche interdipendenza con lo spazio che li avvolge e nel quale sembrano galleggiare. In tali interrogativi si mostra un pensare accartocciato, asfittico, evidentemente impossibilitato a superare i limiti subiti nell’esperienza fisico-sensibile.
Siamo noi gli eventi; siamo noi ad accadere, sempre e comunque. Lo facciamo in mezzo ad infiniti altri accadimenti d’ogni ordine e tipo, che possono apparire terribili, superflui o mirabolanti solo per una coscienza pensante ancora acerba, la quale crede di potersi estraniare dalle onde del divenire per giudicare a destra e a manca le realtà delle percezioni che le passano davanti, senza sospettare nemmeno lontanamente che se si tratta di un relitto, si tratta sempre del proprio naufragio, se si tratta di nettare e ambrosia, si tratta comunque della nostra personale eco edenica.
Pur ritenendoci desti, noi ancora sogniamo, ed il sogno è sempre uguale a se stesso; le modalità con le quali ci compare di volta in volta, dal di dentro e dal di fuori, sono invece diverse, ricche di variazioni e di sfumature. Solo il disperato aggrapparsi al fortino dell’ego ci permette una visione (parzialmente) ordinata e (parzialmente) intelligibile dell’esistenza: ma rimane ordinata e intelligibile fin quando i tempi individuali di maturazione lo consentono. Poi – è inevitabile – arriva il crollo. Crolla perché deve crollare.
Soggettività e oggettività scompaiono, in quanto scompare la necessità del loro imporsi. Restano solo le forze interagenti; dal loro interagire nascono gli enti, i mondi, gli universi; nasce l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. La Vita spiega le vele ai venti della fantasia del Cosmo Creatore; disegna microrganismi, dinosauri, galassie e supernove, apre nuovi mondi, s’inventa forme viventi, innesti, trapianti, rinnovi, li sopprime e li rigenera, studiando gli ambienti migliori in cui collocarli e in cui possano favorire ulteriori sviluppi, secondo un estro ed una intenzionalità dei quali ancora ci manca la chiave. Il tutto per sparire, prima o poi, a seguito di altre interazioni. Poiché la Vita continua, e con essa, se davvero lo vorremo, anche noi.
Vi sono dei giochi enigmistici nei quali, congiungendo con un tratto di penna dei numeri sparsi in uno spazio bianco, se ne trae fuori un disegno; oppure in un altro gioco sempre della serie “Svaghi & Passatempi” bisogna annerire alcune parti di un groviglio irriconoscibile, per poi far balzare all’evidenza una figura nascosta e confusa dentro la trama del gioco.
I giochi ermetici dell’enignistica moderna, con l’avvento della Quantistica, si dilatano invece all’infinito, continuano a correre su uno spazio bianco privo argini e di riferimenti. Dobbiamo congiungere con un tratto di penna i numeri prefissi dai puntolini, ma le cifre indicate non sono quelle che noi conosciamo. Dobbiamo annerire un numero iperbolico di caselle, ma nessuno ci indica quelle che devono essere lasciate scolorate. Quale disegno, quale configurazione potrà sortir fuori? Anche ammesso che impiegassimo le nostre intere esistenze nel tentativo, non avremmo finito mai, e i risultati ottenuti, quand’anche qualcuno li ammirasse come successi del genio umano, oltre a restare indeterminati ex tempore, sarebbero tanti quanti gli intelletti concorrenti».
Basta cosí. Lo Straniero ha parlato e ci ha detto delle cose interessanti che non siamo in grado di controllare né di smentire. La Meccanica dei Quanti c’è, e con essa l’astrofisica con le scienze d’appoggio proseguirà le sue ricerche sulla natura dell’universo e di quel che vi è contenuto.
Tuttavia un discorso di questo tipo suona preoccupante; eppure, per quanto strano, è l’unico aspetto offerto dalla quantistica che possiamo affrontare serenamente, perché – non è forse vero? – lo stiamo già facendo con le nostre vite. Ogni esistenza cessata è, per gli uomini del Terzo Millennio, un meccanismo interrotto che si aggiunge ad un ammasso di meccanismi interrotti; sembra di stare dallo sfasciacarrozze e che l’universo altro non sappia che comprimere a casaccio le parti inerti e smembrate di coloro che lo hanno in qualche modo abitato, per farle poi rinascere quali composizioni rimodellate piú lucide e sagomate di prima. Ma è una visione che esclude l’uomo. Non lo vede, né lo vuole protagonista.
Nell’esporci le sue ragioni su una possibile visione – e revisione – del mondo in chiave quantistica, il nostro amico di Elea ci ha descritto a malapena, e in termini poco metafisici, quel campo di forze interattive (forse meglio “plasmatrici eteriche”?) che i cultori della Scienza dello Spirito sono abituati a chiamare Mondo Eterico da piú di cento anni, e da prima che il giovane Heisenberg sbarcasse a Helgoland.
Questa è però una cosa sbalorditiva e meravigliosa! Per la prima volta la Scienza, quella ufficiale, (stavolta non si scappa!) ci viene a parlare di una via conoscitiva che sconvolge ogni sua precedente edizione. Ne avevamo proprio bisogno. Anche perché qualcuno l’aveva già fatto da un bel pezzo; aveva dedicato la vita terrena a spiegarlo in tutti i modi possibili ed immaginabili ai suoi contemporanei. compresi coloro che delle scienze esatte non sapevano che farsene, ma in compenso continuavano a stringersi al cuore le figurine di Santi ed altre reliquie taumaturgiche.
L’eccezionalità di poter leggere la vita e il cosmo attraverso un’indagine innovativa è una prospettiva che fa sperar bene. Anche se rimangono ancora le oche del Campidoglio con le quali chiudere i conti. Che ne sarebbe di questi volatili da cortile infatti se non ci fosse stato il Campidoglio a renderli storicamente famosi? Sarebbero rimasti oche senza speranza, ovvero animali utilissimi all’uomo, specie in certe epoche e in certe zone della terra. Tuttavia nessun testo scolastico o cronacense le avrebbe mai nominate.
Per diventare importanti e far parte dell’aneddotica di tradizione, ci voleva un Campidoglio, con tutto quello che esso rappresentò al cuore dei coevi urbani, e in parte rappresenta ancora ai giorni nostri.
Intendo dire che da ogni percezione può derivare una rappresentazione, e tutto potrebbe finire qui. A sua volta dalle rappresentazioni si può, usando una certa determinazione e un po’ d’impegno personale, passare ai concetti: in particolare ad un preciso concetto. Ma i vari passaggi non avrebbero potuto svolgersi, se prima d’ogni altra cosa non ci fosse stato un pensiero extraumano che, là, si presentasse quale percezione, e poi, in me, come potere elaborante d’immagine mentale capace di farsi rappresentazione. Dallo studio di quest’ultima in alcuni casi può scattare – simile ad un guizzo intuitivo – il concetto, o l’idea. In altre parole, un ricongiungimento con l’Origine.
Come si vede, dopo una partenza tutta oggettiva l’apporto della coscienza pensante diventa indispensabile per una progressione del conoscere, di modo che non è troppo difficile capire che il vero atto conoscitivo necessita dell’azione dell’uomo. E questa azione deve essere la piú libera possibile, perché altrimenti non c’è intuizione, non ci sono concetti o idee, ma si resta nel territorio delle rappresentazioni, credendole vere e proprie idee e usandole di conseguenza per carburare l’autoinganno e alimentare le scelte sbagliate.
Come le oche capitoline, per passare alla leggenda delle curiosità e spigolature storiche hanno avuto bisogno di un Campidoglio, altrettanto i gradi del pensiero umano sollecitato dalla percezione, per innalzarsi sempre piú, fino a sfiorare l’Iperuranio, hanno bisogno dello Spirito.
Uno Spirito umano individuale talmente desto da imparare la grammatica con la quale lo Spirito dell’Universo crea incessantemente le oche di qua e i campidogli di là.
Da quando l’uomo ha cominciato ad indagare sulla realtà, non ha fatto altro che spostarsi da un rebus all’altro, col risultato che un dubbio di fondo permane costantemente irrisolto: tutti i giochi dell’enigmistica hanno un autore, ma se la natura (universo, mondo, uomo; tanto per capirci) ci ha permesso fin qui di risolvere un’infinità di giochini, piú o meno difficili (dall’uso della ruota alla scoperta dell’acqua calda, dall’energia nucleare agli aerei supersonici, e tutto ci fa capire che non finisce qui ma prosegue a tamburo battente) allora anche il tecnocrate piú incallito sente il dovere di chiedersi se c’è da qualche parte un Autore, un Demiurgo, capace di creare incessantemente realtà su realtà, divertendosi a farcele scoprire a centellini.
Molti sostengono che la natura possa venir paragonata ad un libro da leggere e studiare con amore a attenzione, ma un libro dev’esser stato prima pensato e scritto da qualcuno con almeno pari amore e attenzione; da un qualcuno che in particolare desiderava venir letto da occhi altrui e da coscienze diversamente strutturate ma comunque in grado (almeno a livello potenziale) di comprendere.
Mentre tutto è sempre discutibile, su questo preciso argomento dobbiamo concordare al cento per cento; chi leggendo nel libro della natura ne trae significati e svolge di conseguenza azioni che entrano nella realtà corrente diventandone parte integrante, deve convincersi di aver conosciuto – a priori, e quindi riconosciuto a posteriori – la lingua, la grammatica e la sintassi con le quali quel testo venne concepito e scritto.
Basterebbe questo pensiero per riportare l’essere umano nella centralità della sua vicenda, in asse alla sua collocazione prioritaria nell’assetto cosmico e spirituale.
Ma c’è ancora qualcosa da dire.
La Scienza dei Quanti, pur stando ancora ai propri albori, afferma che l’antichissima disputa sul soggettivo e oggettivo, fonte di incredibili lotte tra sostenitori e seguaci, può finalmente venire deposta: siamo tutti forme transeunti di un divenire che pare alla ricerca di se stesso attraverso una serie infinita di immedesimazioni altrui. Detto cosí, si deve convenire che la soggettività come l’oggettività perdono i loro significati. Ma ricordo, non solo agli amici che percorrono la via antroposofica, che Rudolf Steiner risolse proprio tale quesito già nel lontano – e neanche troppo – 1894, quando pubblicò la sua Filosofia della Libertà. Egli convenne che qualsiasi fosse l’argomento in predicato, esso poteva venir valutato sia sotto il profilo soggettivo sia sotto quello oggettivo.
Solamente su un punto cessava la diatriba: la posizione di una coscienza umana pensante di fronte al proprio pensiero. Qui non ci sono mediazioni. Nella frase “Io penso” ci siamo solo io e il mio pensiero. Non mi sento autorizzato ad affermare che sia del tutto mio, anche se ne ho una certa sicurezza, oppure se esso mi provenga da qualche altra parte, ma di sicuro devo ammettere che questo è il rapporto piú oggettivo che mi sia dato sperimentare.
Ed inoltre: le forze che formano l’unica realtà colta dalla visione quantistica agiscono come linee dinamiche di cui ignoriamo il disegno. Con questo cosa si vuole intendere? Che stiamo ritornando alla casualità? Lo Straniero si è lasciato sfuggire ad un certo punto del suo discorsetto una parola che mi è rimasta nell’orecchio e che mi sembra giusto riprendere, perché ravviso in essa un elemento essenziale, e non può né deve essere lasciato lí nel mezzo di un fitto ragionare senza un ulteriore approfondimento. La parola è: intenzionalità. Chiedo: intenzionalità di chi?
Lo Straniero di Elea, e con lui la Scienza dei Quanti, dovranno evidentemente ancora scoprirlo. Io mi accontento di Padre Dante quando mi allarga il cuore con il Suo: «L’Amor che move il Sole e le altre stelle», ma se i riferimenti poetici appaiono poco significativi per illustrare a dovere e convincere anime refrattarie (ce ne sono sempre, pure fuori del Campidoglio) si può fare questa ricongiunzione mentale semplice e spassionata: l’intenzionalità di chi legge un libro, lo studia, confronta i suoi pensieri con quelli che in esso sono racchiusi, è certamente un interesse elevabile fino all’amore.
L’intenzionalità delle forze che percorrono la natura, la terra, il mondo, la vita, la realtà, l’uomo col suo essere interiore (mettiamoci anche il cosmo e l’universo ancora non conosciuto; abbondiamo pure, dato che siamo in dirittura d’arrivo) è la sostanza prima di un libro da cui riusciamo, magari a stento, ma a volte compiutamente, a trarre un senso definito, preciso, che diventa poi indicazione preziosa per le nostre esistenze.
L’intenzionalità di un Autore Sconosciuto, di un Essere che si manifesta in una tale sostanza prima (al di là dei giochi enigmistici riservati ai solutori piú abili) in che altro potrebbe consistere se non in quello stesso Amore di cui ebbe a scrivere il nostro sommo Poeta?
Angelo Lombroni