Due passi fra le nuvole e poco Oltre

Considerazioni

Due passi fra le nuvole e poco Oltre

È risaputo che le modalità del conoscere conducono l’uomo a comprendere sempre meglio la realtà in cui è collocato. Con questo ragionamento tuttavia è difficile raggiungere un punto da cui affermare con certezza: «Bene, allora questo è tutto. Non resta altro che mettere in ordine le riflessioni impiegate e sperimentare l’insieme per valutare l’organicità della tenuta».

 

Arsenale per la costruzione di grandi navi

Arsenale navale

 

Qualcuno ha detto che le cose vere devono essere semplici. Fino ad un certo punto, però. Il concetto sopra riportato mi ricorda da vicino i cantieri da cui sorgono gli edifici e i bacini navali nei quali si costruiscono le navi. Ad un certo momento, sostegni, pali, tralicci, ponti e quant’altro necessario all’opera, vengono tolti; il neonato modello può ergersi allora in tutta la sua prestanza, a volte piacevole da osservare.

 

L’insieme delle azioni volute attraverso un molte­plice e complesso meccanismo umano e materiale, cor­risponde adesso in modo perfetto al progetto iniziale; abbiamo quindi la soddisfazione (chiamiamola cosí) di vedere come una nostra idea abbia preso lentamente corpo fino a conquistarsi il diritto di entrare nella realtà d’appartenenza.

 

Perché va da sé che gli innumerevoli modi di fare conoscenza e di applicarli, i cosiddetti know-how, portano ad un pari numero di realtà, delle quali cia­scuna ha lo stesso diritto di esistere delle altre, anche se – si noti – in conflitto con una, o piú, di quelle.

 

Per cui, per fare il riassuntino, le modalità del conoscere non conducono l’uomo ad un alcunché di definitivo; possono però – egli volente – indicargli come la conoscenza (la sua capacità di…) non sia soltanto strumento per un lontano e ignoto fine, ma qualcosa di diverso, estremamente importante e prezioso, che tuttavia gli resterà sconosciuto fin che continuerà a raffigurarselo alla stregua di un mezzo vincolato ad uno scopo.

 

In sostanza il modo umano di acquisire conoscenza non si esaurisce in alcuna realtà; il senso ultimo del conoscere, invece, porta in sé una particolare verità; la sua verità; senza la quale ogni forma di realismo è destinata a perire.

 

«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi»: l’antico testo non parla di realtà, né di realismi.

 

Conseguentemente, se ci limiteremo a procedere nella conoscenza solo per erigere e demolire realtà dopo realtà, non saremo mai liberi.

 

 

La non discutibile realtà delle scienze quasi esatte

 

Durante una lunga e gradevole intervista divulgativa, il fisico teorico Carlo Rovelli ha voluto portare un esempio per meglio distinguere la realtà del mondo ordinario da quello microcosmico delle particelle. «Immaginatevi – ha raccontato – d’essere al centro di una stanza con due porte chiuse; aprite una ed entrano uomini con i capelli biondi; poi ne aprite l’altra e anche qui accade lo stesso. Ora cancellate tutto, ripensate alle due porte chiuse e apritele  entrambe contemporaneamente: nella stanza entrano ora solamente uomini con i capelli neri. Possiamo e dobbiamo chiederci il perché, ma cadremo in una discussione senza fine che è appena cominciata e non si sa ancora quando e come terminerà. L’esempio che vi ho illustrato fa grosso modo capire come le leggi che regolano il microcosmo siano ben diverse da quelle della dimensione che ci è nota».

 

Il gatto di Schrödinger

Il gatto di Schrödinger

 

Sarà che ricordo pochi esperimenti di fisica capaci di destare il mio interesse, sarà che nella stessa intervista televisiva ci sono state delle fugaci apparizioni del gatto del professor Rovelli, in vena di esibizionismo esplorativo, ma i miei pensieri sono andati immediatamente ad un altro piú famoso gatto: quello di Schrödinger.

 

Naturalmente con la storia del suo “gatto in scatola”, e l’interrogativo se il gatto interferirà o meno con il mecca­nismo, liberando il gas velenoso, Schrödinger aveva inteso mettere in riga gli scienziati convenuti a Copenaghen nel 1927, sul come le cose diventino diversamente interpretabili allorquando dall’osservazione teorica dei fenomeni si passa alla pratica. E proprio questo mi ha fatto pensare: credo di aver individuato un punto nella sequenza delle congetture della scienza che non presenta le stesse caratteristiche di solidità logica degli altri, o che, quanto meno, dovrebbe venire ulteriormente elaborato e non collocato nelle maglie dei ragionamenti senza una debita verifica.

 

Siamo tutti capaci di formulare astrazioni, di sognare ad occhi aperti e di valutare in senso fantasioso, non di rado artistico, le nostre creazioni immaginative; ma, nell’agire, pretendiamo tutti di essere ben determinati a svolgere l’azione in modo concreto e compiuto. I due campi non sono paragonabili tra loro, hanno contenuti diversi e quindi regole diverse.

 

Cosa succederebbe se volessimo trasferire ad uno le modalità usate per l’altro? Le azioni si sgretolerebbero davanti ai nostri occhi, non avrebbero tenuta nello spazio e nel tempo, e in buona pace, dovremo convenire di aver sbagliato e di dover ricominciare da capo, su nuove basi.

 

Viceversa, un artista, un poeta, che diventasse smanioso di meticolosaggine e misurasse ogni stato d’avanzamento della sua opera col bilancino del farmacista, dove andrebbe a finire?

 

«Nel mezzo del cammin di nostra vita…».  Che significa quel “mezzo”? Se è un percorso spaziale si può stare pure sui lati e camminare altrettanto bene; oppure quel “mezzo” indica un termine temporale medio della vita umana? Sarebbe comunque discutibile data l’ampia casistica che dipende poi dall’epoca che si vuol indagare. Inoltre, se la vita deve essere paragonata ad un cammino, come mai non ci dà la possibilità di ritornare indietro? Tutti i cammini del mondo lo consentono, a meno che uno non muoia prima, ma se davvero morisse, allora quel “mezzo” non sarebbe piú il punto intermedio della vita, bensí la fine…

 

Come si vede, ogni cosa è sempre contestabile; cambia a seconda del vento che tira; se ag­giungiamo poi alla miopia dei pignoli l’ azione subdola e latente di quanti remano contro fingendo il contrario, avremo un quadro abbastanza completo di un certo tipo di degrado umano. Qualcuno penserà ad una esagerazione da parte mia, ma gli basterà seguire a grandi linee le ultime convulsioni della politica paesana, tenendo d’occhio non la realtà dei suoi vari momenti ma la verità che ne contraddistingue il profilo storico e, glielo auguro, potrà ricredersi.

 

Dunque la meccanica dei quanti (è di questa che riferisce il prof. Rovelli) ci porta a ritenere che le leggi del mondo atomico e subatomico particellare non siano le stesse vigenti nella nostra di­mensione. Sarò cinico e spietato come spesso lo sono gli sprovveduti quando si avventurano in campi di cui non hanno esperienza, ma secondo me il ragionamento presenta una distorsione che mi sembra giusto tentar di aggiustare.

 

Noi, intendo gli uomini in genere, siamo venuti al mondo con una capacità pensante che si è svilup­pata fino ad un certo punto; grazie ad essa abbiamo affrontato le problematiche che abbiamo incon­trato, e bene o male le abbiamo in qualche modo risolte; altre, ancora ben presenti, richiedono nuove soluzioni, e in tutto il mondo esistono équipe di specialisti esperti che lavorano alacremente per trovarle.

 

Ma i problemi irrisolti, e analogamente le tecniche per risolverli, fanno sempre parte del mondo che conosciamo e nel quale siamo stati allevati; rientrano nel conosciuto o tutt’al piú nel conoscituro.

 

Vi è dunque un rapporto ben preciso tra quello che mi si presenta oggi come un “ancora-non-lo-so” da quello che invece “sarò-prima-o-poi-in-grado-di-sapere”; il collante sarà sempre e comunque la facoltà pensante, non certo la mia, forse nemmeno la tua, né la vostra, ma apparterrà sicuramente ad un essere umano.

 

Non tenendo ben salda questa essenziale premessa, succede una cosa strana, e sotto un certo aspetto anche preoccupante: sono costretto a prender atto che esiste un mistero, e quindi, avendo io, cittadino del terzo millennio, bandito da tempo ogni mistero (con una sola eccezione per Dario Fo) esso deve per forza di cose appartenere ad un mondo diverso dal mio. Una specie di UFO, ove l’Oggetto non è volante ma assume la veste, non corporea ma purpurea, di Legge Universale.

 

Evidentemente questa legge appartiene ad un universo a piú strati forse contigui ma certo non comunicanti; se per errore filosofico o per curiosità scientifica buttassi il mio amo nel mare di quel nuovo mondo, non correrei il rischio di pescare un pesciolino anomalo, né la solita ciabatta fradicia, bensí un cartello, scritto nel linguaggio della meccanica quantistica, in cui mi si avverte di cambiare aria (cioè acqua) perché quel mare nulla ha da offrire ad interessi alieni.

 

La parte piú buffa (forse è questa la ragione del premio Nobel a Dario Fo) consiste proprio in tale preclusione; per virtú propria, fa scaturire la brama opposta: che l’interessamento scientifico degli alieni (cioè di noi) dacché interdetto, aumenti a dismisura, e l’idea di pescare in quelle acque cosí sfacciatamente restíe (magari in un breve soggiorno nel confortevole resort di un pianeta lontano) cominci a far presa sull’animo terrestre “semper rerum novarum cupidus”.

 

Non c’è da stupirsi; circolava una battuta comica che recitava cosí: «Meno male che non sono nato in Francia, perché non so neanche una parola di francese». Divertente, tuttavia non gli hanno assegnato il premio Nobel. Forse era troppo breve per destare un guizzo nell’algido humor della commissione scandinava.

 

Ottovolante

 

In precedenza, ho fatto il nome di Schrödinger. Anche lui, a modo suo, ha cercato di provocare un guizzo in un’altra sessione, quella di Copenaghen. Se ci sia riuscito, non lo so- Personalmente ne dubito; dopo un periodo di cento anni, una seconda guerra mondiale, tre o quattro pandemie e varie scaramucce di contorno, siamo ancora imbottigliati nella Caverna di Platone a studiare le ombre che si proiettano fugacemente sulle pareti di pietra, e formulare pensieri tortuosi sulla loro natura e sul presentarsi a noi in siffatto modo. Il che sta a dire che la nostra evoluzione procede un po’a ghirigori, come le volute di un ottovolante; per cui quando viaggiamo con la massima celerità nei percorsi alti, ci sembra di vedere in basso i poveri caver­nicoli (che eravamo) sporchi, spauriti e in cerca di cibo; quando però siamo noi a cadere dai piani alti ai livelli inferiori (giacché, non si scappa, son queste le leggi degli ottovolanti) e ci de­gnassimo di guardare in alto, vedremmo molti sguardi, pieni di tristezza e di compatimento, concentrarsi su di noi.

 

L’umanità del futuro dovrà per forza di cose essere molto comprensiva nei nostri confronti: le stiamo rovinando la Terra sotto i piedi e queste sono fratture che non aiutano il formarsi di un rapporto ottimale con le generazioni in via di sviluppo.

 

D’altra parte non si può pretendere una profittevole matura­zione futuristica, da un genere umano la cui scienza d’avan­guardia, si soffermi su teoremi del tipo seguente.

 

Ipotesi: sia ammessa l’esistenza di una creatura extraterrestre, fatta in modo completamente diverso da noi. Si supponga che essa prenda freddo e si ammali.

 

Tesi: risulterà possibile curarla con paracetamolo e vitamina C?

 

Nella letteratura, nei romanzi e nelle trame cinematografiche, abbondano esempi di personaggi obbligati da una menomazione fisica (per esempio cecità) o da una situazione costrittiva (per esempio incarcerazione) ad immaginare la realtà che li circonda e, alle volte, la loro capacità, abilmente condotta dall’autore fino ai limiti dell’inverosimile, ha destato in noi sorpresa e divertimento.

 

Ma una cosa è sbrigliare la fantasia consapevoli dell’amore che ne regge ogni modulazione, un’altra – notevolmente diversa – è impaludare di rigorosità scientifica una serie di astrazioni in cui la comune esperienza dei sensi ha svolto un ruolo puramente marginale.

 

Il Paradosso di Schrödinger contiene un messaggio senza la cui lettura il paradosso resta sterile: assegnare quel che ancora non conosciamo ad un mondo o livello diverso dal nostro, solo perché nel primo valgono regole che non funzionano nel secondo, è un errore d’impostazione che potrebbe investire la futura ricerca scientifica.

 

Si applica a nuvole di probabilità la stessa matematica contabile del Ministero delle Finanze, per scoprire che nel manifestarsi di una particella mi si rivela o la sua posizione, oppure la sua velocità, mai entrambe contemporaneamente. Il risultato dovrebbe farmi capire – almeno a livello di semplice supposizione – che nello svolgere i calcoli sul fenomeno, ho commesso un errore di deduzione inter­pretativa, oppure ho finora adoperato un modello matematico inadeguato alla necessità.

 

Ma non per questo ritengo che una tale necessità denunci la presenza di un mondo diverso dal mio; la dimensione da me conosciuta, quella in cui sono nato e cresciuto, non cambia di una virgola rispetto a prima; c’è un’unica differenza che ora forse sono in grado di cominciare a contemplare: tutto è molto, molto piú grande di quel che pensavo.

 

Man mano che penetro tale grandezza, i confini, i limiti, le barriere di prima decadono mostrando la loro precarietà. Tutto diviene. Le cose cambiano. Io con esse.

 

 

L’ intuizione (felice) di Arthur C. Clarke

 

2001 Odissea nello spazio

2001 Odissea nello spazio

 

In “2001 Odissea nello spazio” (nel celebre romanzo di Clarke e nel film di Kubrick) ad un certo punto viene presentata una scena insolita: uscito dopo un viaggio allucinante da un vortice spaziotemporale ruti­lante di luci e colori (con un lin­guaggio maggiormente aggiornato, oggi diremo che è stato inghiottito da un Buco Nero, ha sfondato l’Orizzonte a tempo 0 e si è rimaterializzato in un Buco Bianco) il nostro Astronauta si ritrova di colpo in un contesto totalmente impensabile: all’ingresso di una lussuosa sala preziosamente arredata (una villa? un castello? una reggia?) dove un personaggio inconoscibile, piut­tosto anziano, avvolto in una ricca veste da camera, siede ad un tavolo, intento a consumare il pasto.

 

Ancora sconvolto dal viaggio, l’Astronauta guarda esterrefatto la scena asettica e quasi olimpica, colma di silenzio assoluto, che gli si svolge davanti; non riesce a venirne a capo perché non c’è niente in quell’accaduto che gli offra un appiglio comprensibile, uno spunto logico sul quale far presa. Tra mille interrogativi, prevalgono: “Cosa ci faccio qui io?” e “Chi è quel tale?”.

 

In quel momento, il Tale, presentendo quasi una presenza estranea, si alza lentamente e compie con cautela qualche passo verso là, dove quel Qualcuno sembrava esserci, ma non c’è piú: l’Astro­nauta è scomparso. Il Tale allora torna alla posizione di prima; dal volto stanco e pensieroso, ora inquadrato in primo piano, lettori e spettatori vengono a capire che il vecchio signore della lussuosa villa silente altri non è che l’Astronauta stesso, onusto dal tempo e dalla storia.

 

Anch’io mi sono chiesto per quale motivo ho scelto, tra tanti possibili, questo particolare fram­mento dell’Odissea di Clarke, e in qual modo esso possa ricongiungersi al discorso precedente che investiva la fisica quantistica ed alcuni suoi incredibili aspetti.

 

Eppure, la pluralità delle dimensioni spaziotemporali, percorse da un’unica interiorità umana, dapprima legata col fisico-eterico al proprio mondo, e che poi, con uno slancio dell’anima cosciente, infranga la barriera della caducità e (pur terrorizzata) si proietti in una nuova percezione di sé, polverizzando anni luce e distanze cosmiche in un battibaleno, doveva dirmi qualche cosa di molto importante.

 

Al tempo del libro e del film, non seppi risolvere il quesito. Ma in seguito, lo studio dell’Antropo­sofia in generale, e in particolare i pensieri che Massimo Scaligero ha voluto e saputo introdurre nel mondo, descrivendo con linguaggio nuovo l’antica avventura dell’uomo alla ricerca della propria identità, mi hanno consentito un collegamento: un primo collegamento, magari l’unico per la mia attuale esistenza; e sarebbe già tanto cosí.

 

Fin che si naviga nei possibili (e probabili) teoremi relativi all’evoluzione dell’uomo, ci si trova di fronte ad una moltitudine quasi disordinata di percorsi tanto inesplorati quanto invitanti. La nostra mente ne può escogitare di nuovi ogni giorno.

 

Pianta medicamentosa: Iperico Pianta velenosa: Mandragora

Pianta medicamentosa: Iperico
Pianta velenosa: Mandragora

 

Non credo che la na­tura si sia prodigata nel creare una ricchezza di erbe per il solo motivo di facilitare la loro rac­colta in fasci; non credo che l’erba medicamen­tosa abbia lo stesso va­lore di quella velenosa; e non credo che ci sia da una parte l’erba matta e da un’altra quella savia.

 

Credo piuttosto che nell’andare incontro ad un florilegio di variazioni, sia necessario recuperare all’interno della nostra anima il suo naturale senso di orientamento. Visto che il paragone è con il mondo vegetale, mi pare giusto affermare che l’unico orientamento possibile e immaginabile è quello della Luce. Tenendo sempre ben presente che di quest’Ultima esistono anche le imitazioni.

 

La mente ricama infiniti probabili, ma il cuore indica una possibilità unica: quella che continua a farlo battere. Cosí che l’Astronauta (o l’Entronauta che siamo) possa dirigersi verso la luce dell’Io Sono, riconoscerlo per quel che è, senza rischiare di rimanere sgomento al Suo cospetto.

 

Ove questo ravvisamento non si dia, perché perduto o smarrito, o ancora in fieri, nasce allora lo scompiglio; ognuno ritiene che il bene personale possa farsi pure con il danno altrui, e da qui nasce quel che in effetto è il mondo d’oggi: con la sua confusione, con il suo disordine, con la sua arro­ganza, scambiati per mixerage, trending e powerdome. L’eufemismo nell’uso dei termini esotici non ne copre la tragedia.

 

Eppure solo da un mondo dei limiti poteva sorgere la conoscenza capace di scavalcarli.

 

 

Oltre

 

Infinito, eterno, umano e sovrumano, micro e macrocosmo: sono anch’essi espressioni del corrente linguaggio, mediante le quali tentiamo di indicare ciò che il pensiero ha saputo cogliere nelle sue peregrinazioni astratte e che qualche volta il nostro cuore ha confermato come un gradito ricordo.

 

Per riferimento essenziale il bambino ha la mamma e il papà, i parenti, la casa, la strada, il rione, la città e gli amici; l’uomo adulto li trova nella famiglia, nel lavoro, negli impegni sociali o sportivi, negli hobby e nel volontariato; tanto il primo quanto il secondo si sentono vivi e sani entro quei confini che nessuno, per alcun motivo, deve permettersi di violare. L’anziano porta sulle spalle un mondo di memorie miniaturizzate e cerca di combinarle con le vicissitudini del presente; non sempre ci riesce e allora una profonda nostalgia gli ripropone un passato che non c’è piú, ma che per un po’ gli scalda il cuore.

 

Nessuno di loro va oltre; nascere, vivere e morire è un qualcosa da consumarsi sempre e comunque entro un limite, un bozzolo, una cuccia, in cui rannicchiarsi come nel periodo fetale. I riferimenti non si abbattono facilmente. Naturalmente, giacché quando vogliamo siamo anche abili fabulatori, dilatando a dismisura quei limiti, ci si crea una prospettiva gigantesca che in qualche modo agevola l’occultamento delle nostre limitatezze.

 

Cosí un fatto curioso può diventare uno scoop “mondiale”, il simpatico e valoroso avventuriero che fu Giuseppe Garibaldi, può venir studiato come “l’eroe dei due mondi”, e chi è riuscito ad essere tanto forte e abile da ottenere un riconoscimento internazionale, quand’anche si tratti del gioco di rubamazzetto, si porta a casa il titolo di campione del mondo.

 

Ma in tutti i casi, la nostra struttura portante, planetaria e individuale, resta ancora molto piccola; pure quell’astronauta statunitense che ha fabulato di aver scritto il nome della figlia nella polvere lunare, non è andato in fondo molto al di là dei limiti che la natura gli ha confezionato su misura.

 

Posso dire destra o sinistra, davanti o dietro, passato o futuro, infinitamente piccolo o infinita­mente grande; oppure eternità-caducità, luce-tenebre e via dicendo: abbiamo un numero incredibile di opposti a disposizione che ci consentono giochini dialettici sempre rinnovabili.

 

Ma il riferimento è uno solo: Io. E viene il giorno che quell’Io non basta piú; perché come acqui­sisco nuovo sapere, quell’Io diventa sempre piú piccino, e sono sommerso dalla grandiosità delle visioni-concezioni che nella sua forma piú astratta il pensiero mi porta di continuo.

 

Brisky

Brisky

 

Per quale motivo io mi sento autorizzato a dire “Io” di me stesso? Cos’è per me il mio Io? Un riferimento, una convenzione; un nome, un codice fiscale? Avevo un gatto che chiamavo Brisky. Lui non me l’aveva chiesto, ma comunque aveva accettato l’identificazione: quando sentiva la mia voce che lo chiamava, sapeva immediatamente di essere lui l’oggetto richiesto e, in base al tono e alle circostanze, correva da me oppure si nascondeva (era un gatto prudente).

 

Sostenere quindi di essere proprio io quell’Io indiscusso che il mondo ha voluto che fossi, non può essere un appiglio di utilità alcuna per una ricerca metafisica; è una cosa senza senso. Vale per una serie di regole umane dettate dalla praticità relazionale; cosí diciamo che oggi è giovedí 11 febbraio e sono le 11.00 del mattino. Per noi l’appunto è determinante quanto le coordinate geografiche lo sono per recuperare quelli che si trovano in difficoltà; ma non dimentichiamo che quella roba lí (la data, le ore) ce la siamo inventata per nostra comodità, per nostro uso e consumo, non fa parte di quella che ci piacerebbe chiamare realtà oggettiva.

 

Puntualmente però ci ricaschiamo; dicendo oggi è giovedí 11 febbraio e sono le ore 11.00 del mattino, siamo convintissimi di aver detto il vero. Ma non è cosí: abbiamo confermato una realtà umana, provvisoria, parziale, e tutto sommato nemmeno stabilizzata, se si tiene conto di come è stato computato il tempo, il calendario e la suddivisione dei fusi orari.

 

La verità è da un’altra parte, non solo per quel che riguarda date e orari.

 

Il sapere del reale si distingue sempre da una vera conoscenza; anzi, dalla conoscenza del vero. Se non fosse cosí, agirebbe diversamente; dovrebbe fortificare, non deprimere; dovrebbe rinvigorire, rendere splendido e gagliardo il nostro esserci incarnati. Eppure quando la scienza ci narra le sue ultime novità, ci si sente un po’ smarriti, allocchiti, quasi deprivati di energia vitale. Quasi avessimo ascoltato l’ultimo notiziario radio-tv. Perché?

 

Abbiamo già parlato dell’evoluzione e delle possibili sue parvenze che di regola scegliamo (ma si può anche non scegliere senza che il senso personale della libertà se ne adonti) secondo gusto e gradimento. In altri termini, come si sa e si può.

 

Cane abbandonato in autostrada

 

Nel caso accennato, è evidente che con un Io in rimpicciolendo non si va lontano, ma non esistono vaccini per questo tipo di pestilenza, Del resto, perché dovremmo cercarlo? Se si lascia il cagnolino in autostrada, se la mamma abban­dona il neonato nel cassonetto, se si tradisce la famiglia, il partito, la cittadinanza, il proprio genere, senza che nessuno muova un dito, si potrebbe anche trovare il coraggio di abban­donare quell’Io che fin qui abbiamo creduto di essere. Pinocchio insegna.

 

Naturalmente questa è una provocazione. Tanto per renderci evidente che quando il piccolo io lo vuole, ci prendiamo tutte le li­bertà di questo mondo ed anche piú. Quando invece si tratta di allinearci con le esigenze della coscienza e con la corrente della vita interiore, allora sorgono enormi, gigantesche, invalicabili, le complicazioni, da dietro le quali possiamo recitare, a nostro esclusivo beneficio, l’ultima fandonia: “Era troppo difficile”.

 

Per imboccare il percorso evolutivo perfettamente adeguato alle istanze dello Spirito umano individuale che abbia deciso in tal senso, non occorrono gli algoritmi e le prescrizioni dell’Orga­nizzazione Mondiale della Sanità. Essa si occupa della salute dei corpi ignorando che questa dipende dalla salute delle anime, e che a sua volta tale stato di salute diventa irraggiungibile se il lungo processo di autoavvelenamento cui le abbiamo sottoposte non viene radicalmente affrontato.

 

Racchiuso nel senso latino dell’ “agere vitam”, il percorso evolutivo dell’uomo ha preso molti nomi. Rudolf Steiner lo indicò come la Via di Michele, che dall’io inferiore procede all’Io Sono e si sviluppa fino all’incontro con il Cristo Cosmico: è la Via dell’Iniziazione, presente in tutti i tempi, che però esige di volta in volta forme d’approccio diverse.

 

Quest’ultima frase, piena di maiuscole e di voci altisonanti, potrebbe forse destare un’ombra interpretativa perfino in coloro che si siano dichiarati disponibili al compito. La ridondanza non è mai d’aiuto all’equilibrio e alla calma richiesti.

 

Ma si può semplificare. Grazie al ricordo di Massimo Scaligero, alla sua vita e al suo lavoro, possiamo accogliere in memoria il senso fondamentale e le pure valenze del Suo pensiero, con un’unica parola: “Oltre”.

 

 

Angelo Lombroni