Durante questo periodo di generale disagio, la popolazione, o chi per essa, reclama una maggior risolutezza nelle decisioni governative: artigiani, commercianti, esercenti e in particolare gli addetti al turismo montano, gridano al cielo la loro rabbia per gli interventi dello Stato, secondo il loro punto di vista, disomogenei, incoerenti e intempestivi rivolti contro le piccole economie mediante un carrozzone di burocrati miopi e incerti. Divieti, restrizioni, limitazioni vengono visti per lo piú come un danno peggiore del male che si vorrebbe curare.
Vogliamo tutti il bene comune, ma se non siamo sicuri in che cosa esso consista, cosa ci ha fatto pensare che i nostri amministratori (vecchi o nuovi, non fa differenza) lo sappiano? Quando con i garbati sistemi della democrazia parlamentare li abbiamo sollevati fino al potere, abbiamo forse chiesto loro cosa sia e come credano poter attuare il bene della collettività? Ci siamo forse dimenticati di formulare questa domanda, l’unica che sarebbe stata sensata? Oppure non ci è nemmeno passata per la testa? Per risultato, l’Olimpiade del 2020 è stata rimandata, i mondiali di Atletica Leggera della scorsa stagione pure, ma calcio, basket, ciclismo e sci continuano, sia pure in assenza di pubblico.
Anche il Giro d’Italia e il Festival di Sanremo sono stati mantenuti in vigore, perché l’opportunità di non infierire troppo sul morale già prostrato dei fans musicopedalofili è prevalsa sulle tediose prudenze dei refrattari. Caro governo, dicono, la cautela va bene, ma non toglierci palloni, sci, bici e canzonette in contemporanea; siamo cittadini coraggiosi, i contagi non ci fanno paura e affronteremo di buon grado il destino da “self-home-made-men-by-smartworking-on-line” quali siamo diventati, cioè con quel grado di accorata coscienziosità che produce e svolge i talk show televisivi (i reality no, non ancora, e di questo ci sarebbe da discutere).
Una virologa alquanto nota ha di recente rilasciato una dichiarazione di questo tipo: «Somministrare un vaccino la cui efficacia è testata al 60%, a 10 persone sane, è come se di queste 6 risultassero immuni e le restanti 4 no». Sono rimasto allibito, in questo ragionamento c’è qualcosa che non quadra. Escludendo il discorso della validità o meno dei vaccini, ma se pure lo fossero credo che tutte e dieci le persone trattate risulterebbero immunizzate al 60%; o no? Riformulo il problema semplificandolo: a dieci persone, postesi volontariamente a digiuno, offro una quantità di cibo di circa il 60% rispetto a quella abitualmente consumata; cos’è piú normale: pensare che avremo 10 persone sazie al 60%, oppure, del gruppetto prescelto, sei stomaci risulteranno sazi e quattro invece a dieta? Eppure la notizia diffusa da piú parti, non ha sollevato obiezioni né scalpori. Ho pertanto diramato la questione ad un gruppo di amici, che sui misteri della farmacologia ne sanno piú di me, e sono tuttora in attesa di riscontri. È uno dei pochi casi nei quali, se contraddetto, sarò felice di scoprirmi tanto ignorante quanto sprovveduto.
Fin qui ho esposto dei pensieri in libertà; potevo mettercene di piú, ma questi sono sufficienti a rendere l’idea dello stato di agitazione mentale offerto dal periodo che viviamo, ed a questo punto anziché farli spiccare in volo con l’irruente strepitío dello stormo di corvi immortalato da Van Gogh, sento la necessità di svolgere alcune considerazioni, placate ma puntuali, quindi utili.
È corretto dire “pensieri in libertà”?
Rispondere in modo esaustivo a questa domanda richiede un po’ d’impegno, perché se è pur vero che in molti casi la scusa di essere acuti e determinativi ci complica l’esistenza, in molti altri, per contro, ci arrestiamo al primo luogo comune che ci passa per la testa, promuovendolo al grado di soluzione del rebus in predicato.
Il pensiero, se è vero pensiero, è sempre libero; è la sua natura, ma in compenso, si concede, si presta a venir catturato dalle categorie dell’entità umana, e si pone pertanto al servizio di quelle. È davvero un bel tipo questo pensiero! Pur d’origine soprannaturale, si lascia passare per inserviente (a volte badante, altre schiavetto) silenzioso, sempre presente e dotato di un’efficienza che neppure gli scienziati studiosi del cervello sono riusciti ancora a valutare. Anzi, quelli, forse meno degli altri.
Quando rafforziamo la nostra conoscenza sulla struttura dell’uomo e comprendiamo in modo piú organico e ordinato come siamo fatti (in tale caso, l’Antroposofia è allo stato attuale l’unica fonte pratica da cui attingere quelle informazioni che nessuna erudizione oramai sa dare) ci troviamo di fronte ad un quadro completamente diverso da quello in cui avevamo, bene o male, fin qui creduto.
Infatti la conoscenza di se stessi esula dalle variegate forme di credenza. Credere significa accettare ciò che altri hanno detto, significa rifiutare l’esperienza personale diretta, significa avvilire se stessi e subire passivamente gli influssi di estranei. Tutto questo non può che sminuire l’umano, ridurre la sua coscienza ad un lento ma inesorabile assopimento. Per cui arriva il giorno nel quale non si riesce proprio a distinguere il vero dal falso. Tutto sembra avere un aspetto duplice, in cui verità e finzione sono strettamente avvoltolate l’una nell’altra e dentro di noi non troviamo piú l’energia sufficiente per dipanare quel micidiale groviglio.
Ho tentato molte volte di spiegarmi in via definitiva cosa sia il concetto di verità in contrapposizione a quello di realtà. In un mondo in cui le fake news vorticano come le trombe d’aria ai tropici, l’essere coscienti di portare in sé il distinguo essenziale che ti fa dire ogni volta “questo è bianco e questo invece è nero”, costituisce il minimo sindacale dell’autodeterminazione.
Per me la verità consiste in un qualche cosa che non può essere condizionato da niente, che resta immutabile perché al di fuori della dimensione spaziotemporale; mentre la realtà, o le realtà che – sempre secondo la mia opinione – sono molteplici, hanno la caratteristica di assoggettarsi a delle varianti le quali possono modificarle o addirittura annullarle.
Diceva uno studioso del lontano Oriente, la storia è il sintomo, l’uomo è la diagnosi. Possiamo parafrasare: le realtà sono sempre sintomatiche, l’entità umana è il risvolto, o retroscena, che dovrebbe venir studiato come patologia causale.
Ma per tornare alle considerazioni precedenti, anche l’interiorità dell’uomo è a sua volta formata da un insieme di sintomi, che non sfuggono all’esperienza immediata di chiunque impari a scrutare in se stesso. In questo caso, quale potrebbe esserne la diagnosi?
Tutte le vie della Scienza dello Spirito, e in particolare nell’epoca corrente, indicano la necessità di un affrancamento dell’attività del pensiero dalla polifunzionale risonanza animica. Perché? Cos’è accaduto oggi tra il pensare e l’anima che non possa proseguire come sempre fatto dalla notte dei tempi?
È una cosa molto semplice, ma la si può capire solo dopo aver masticato e digerito molti insegnamenti di Rudolf Steiner e di Massimo Scaligero.
Nell’epoca dell’anima cosciente, questa ha smesso di aspirare alla sua libertà; ora la vuole, e la premessa è ben diversa. Una cosa è aspirare, un’altra è esigere. Quando a Gandhi venne richiesto, in sede diplomatica, da quale momento egli riterrebbe opportuna una eventuale liberazione dell’India dal dominio inglese, la sua risposta fu: «Da qui, da ora, da questa notte».
Arrivati a questo punto, non si gioca piú. Non si può piú scherzare. L’anima cosciente è un evento cosmico che vuole attuarsi anche sul piano degli eventi terreni, ma necessita della comprensione e della cooperazione delle coscienze individuali umane opportunamente sensibilizzate in merito.
Arriviamo quindi al cuore del problema: se una tale svolta, preparata nel cammino evolutivo da un tempo incommensurabile, è pronta alla manifestazione, come può l’essere umano odierno recepirne l’importanza e quindi svolgerne il corso, se l’unica cosa che gli è riuscito di fare in tutto questo periodo è quello di assoggettare il dono della facoltà pensante ai capricci personali istintivi e bramosi di un’interiorità decisamente immatura?
Equivarrebbe a rifornire di trapani, lime, seghe e scalpelli un detenuto, il quale, rimbecillito dalla lunga prigionia, li guarderebbe disgustato perché non commestibili e pure inutili ai fini di un qualche dilettevole passatempo.
Dobbiamo quindi imparare prima di tutto a digerire questa visione del problema, che è davvero singolare, in quanto ci ribalta quanto possiamo esserci formati fin qui di opinioni, congetture e teorie astratte.
Porre la questione della libertà in relazione al pensare è una deviazione abile sottilmente predisposta da quelle forze che si sono poste il compito di tenere l’uomo ben lontano dalla sua verità; a tale scopo gli hanno saputo offrire una caterva di realtà, una piú fasulla dell’altra, ma tutte ugualmente fascinose ed ammaliatrici.
La piú pericolosa di esse è quella di ritenere che il singolo soggetto sia del tutto inutile al piano evolutivo generale; che io mi comporti in un modo anziché in un altro, in linea di massima non modifica di una virgola la realtà umana. Un siffatto ragionamento non si regge nemmeno per un attimo, se lo si analizza con attenzione. La storia dell’uomo non sarebbe stata quella che in effetti è stata, se l’opinione espressa fosse fondata nella verità.
Per cui anche se arreca fastidio o dolore, il nostro ego non può continuare a ingannarci su questa basilare peculiarità, che coinvolge in un unico assolo l’immenso coro di tutte le anime incarnate e disincarnate. Tale comunione nasce dal grado di responsabilità di ogni appartenente alla specie, e fintanto che nelle anime prevarranno le forze senzienti-istintive e passionali-affettive, essa non potrà giungere al suo compimento.
Tra la linea ideale dell’evoluzione ed il suo avverarsi in concreto potrebbe quindi aprirsi una lacerazione difficilmente risanabile: è questo il tentativo messo in atto dalle forze che da sempre avversano l’umano, in tutti i modi ostacolando il suo giusto cammino.
La volontà di fare chiarezza in sé, andando incontro a questo ordine di eventi, mettere in conto le varie possibilità di attuarli o di perderli, conoscere la portata dell’esito e quanto quest’ultimo si colleghi al senso sacro della vita, è il primo indispensabile passo che si muove in nome dell’anima divenuta cosciente.
Prima di questo momento, anzi, prima di questa decisione che può venir pronunciata soltanto nel limpido raccoglimento dei propri resti, parlare del “giusto cammino” vale quanto parlare della “libertà di pensiero”. Sono opinioni che nascono da uno stato di non libertà travisato ed infoschito da un cupo senso di smarrimento. Onde si è creata una vera e propria scienza dei sintomi, nella quale la diagnosi si riduce puramente a una contropartita dialettica.
Tuttavia, pure in questo momento cosí complicato e difficile dobbiamo partire da ciò che siamo e da quel che abbiamo di buono e valido, in breve, i “resti” di cui sopra, anche se risulta sempre piú arduo riconoscerli.
Abbiamo il pensare, il sentire e il volere; soltanto il primo dei tre, però, non lo percepiamo come nostro, nel senso di essere intimamente connesso alla nostra struttura psicofisica; sentire e volere ci raccontano sempre qualcosa di noi stessi, qualcosa in cui si racchiude tutto ciò che è stato, o che ci si prospetta per l’avvenire. Sentire e volere unificano le esperienze del passato con le speranze e i timori del futuro. Non sanno né possono andare piú in là. Ove non siano virtuosamente orientati da una forza superiore.
Per il pensare infatti le cose si dispongono in modo molto diverso; il pensiero continua a funzionare anche quando il sentire e il volere vengono temporaneamente inficiati e compressi, o esaltati e ingigantiti, da stati di alterazione sorti nei loro stessi ambiti.
Pure in tali situazioni il pensare continua a svolgere la sua parte di servitore esplicativo onnipresente, capace di fornire supporti e connessioni anche nei casi piú intricati e spinosi. Anzi, talvolta proprio maggiormente rinvigorito da questi.
Ricordo una risposta che Massimo Scaligero ebbe a dare in apertura di una delle sue riunioni aperte agli amici. Qualcuno aveva posto la classica domanda scritta su un foglietto e chiedeva: «Si può essere liberi anche dalla libertà?».
Quanto segue vorrebbe essere il mio racconto di quella serata romana, che oggi, dato il tema affrontato, mi è affiorata alla mente, con scarsa precisione per dire la verità, ma (i demoni in qualche caso sono d’aiuto, anche se è meglio che non lo sappiano) dalla gran discarica delle proposte di YouTube ho fortunosamente recuperato proprio il momento clou di quel convegno, e quindi sono in grado d’irrobustire questo scritto avvalendomi, per l’ennesima volta, di quel che Massimo Scaligero ci ha affidato in custodia.
Mentre penso d’essere libero da ogni condizionamento, pongo implicitamente l’accento sul fatto che ci sono dei condizionamenti, che li subisco. Perciò io non sono libero; credo un po’ d’esserlo, fingo, recito uno stato di libertà cui la mia anima aspira, ma in sostanza, se fossi decisamente onesto e sincero, dovrei ammettere d’essere prigioniero di me medesimo, della mia immaturità che tuttavia mi ostino a non voler riconoscere e tanto meno a dichiarare.
Ma in che cosa consiste questa prigionia? Se la mia vita deve essere questa, potrei considerarla tanto un bene quanto un male. Ed io so per esperienza che non sempre i mali vengono per affliggermi; alcuni, per lo meno qualche volta, agiscono da sproni e mi fanno riprendere in mano le redini della mia biga traballante e insicura. Mi fanno capire che tali insicurezza e traballanza (chissà se si può dire?) non sono colpa della biga, ma è la colpa di me-cocchiere che da tempo ho allentato le redini, fino ad abbandonarle.
Come ho fatto a non capirlo? Anzi, come ho fatto a capirlo? Pensando. Solo pensando. Allora è il pensiero, il mio pensiero, l’elemento che mi mette in grado di andare oltre la situazione esistenziale; è il pensiero che mi offre l’opportunità di una imprevedibile evasione; ed è sempre lui che, colmandomi della sua immanenza, agisce da contrappeso alla mia interiorità confusa e smarrita. La fortifica, la rende tonica, armoniosa, sicura, audace.
Ecco fatto: sono evaso. Ovvero mi sono liberato definitivamente dal giogo dei condizionamenti. I miei appetiti, i miei istinti, i miei desideri, perfino quelli piú smaniosi e irrequieti, stanno tutti al loro posto, ma sono in riga, allineati come soldatini davanti a un pensiero che con paterna benevolenza, ma anche con ferma autorevolezza, li controlla e li istruisce in tutti quei casi nei quali essi non saprebbero che pesci pigliare, e con la foga disordinata e convulsa dei loro exploit, finirebbero per infliggere soltanto ulteriori sofferenze e umiliazioni.
Allora posso dirmi che sono a cavallo? d’aver vinto il mondo e conquistato il Paradiso? che l’anima cosciente domina da sovrana illuminata le sue parti retrive e nel reame interiore la pace e la tranquillità mi garantiscono un lungo periodo di serenità?
Se cosí fosse, mi ritroverei piú prigioniero di prima. La durezza del carcere almeno mi teneva sveglio, magari rabbioso e infelice ma sveglio. Adesso qui, in questa nuova situazione di apparente beatitudine, sono prigioniero di un sogno, di un miraggio.
Ho creduto di uccidere il Drago, ho creduto di liberare la Principessa, ma questa si è trasformata in un crudele Fata Morgana e mi costringe a portare il Drago a spasso nei suoi giardini. Ho la netta sensazione che cosí non vada bene. C’è una certa differenza tra lo starsene nella padella e il cadere nella brace.
Eppure entrambe, padella e brace, sono necessarie affinché il risveglio possa compiersi in modo totale. Quel pensiero che ho già apprezzato per essermi stato fautore del riscatto, non esaurisce il suo valore favorendo l’Ausweichen, l’evasione, del sottoscritto. Non è una specie di Abate Faria incorporeo, che, dopo aver prestato il dovuto soccorso può dismettersi dalla funzione strategica e, in quanto cadavere, uscire di scena, o, per dirla con Dumas, dal Castello d’If.
Il pensiero, quello che i Maestri dello Spirito sempre continuano ad indicarci, e che i cultori dell’Antroposofia si sforzano di riesumare, variando le forme e i modi, dal momento che esse appartengono al divenire e subiscono l’usura del contingente, non solo non si affievolisce per essersi svincolato dal carcere della cerebralità: affacciandosi alla nuova dimensione della vita e del mondo, esso ci svela ora il perché dell’averci condotti sino al punto di cogliere il segno dello Spirito che senza un’ancorché minima adesione della nostra anima, mai si sarebbe potuto presentare come chiara e nitida Entità logica.
Quella logica che, dopo aver compreso il suo percorso sulla terra attraverso l’uomo, rifiorisce adesso alla luce della sua fonte sovrasensibile, giustifica appieno la tautologia del suo nome.
Perciò l’andare avanti non è piú questione di “possibile o impossibile”, è questione di forza morale, di scelta responsabile e di decisione coerente, giacché nel suo mistero, l’anima quando è pronta sa diventare anche “animo”, e in tal caso, nulla può arrestare la sua ascesa: ogni ostacolo le si trasforma in un nuovo appoggio.
Sí, si può essere liberi anche dalla libertà; nel senso che, scoperto l’autoinganno della prigionia, superato il limite della reclusione spaziotemporale, diviene possibile dedicare lo stato di affrancamento provvisorio alla Via della Volontà Solare, all’impresa del Logos, riconoscendo in questa il vertice di tutte le possibilità passate, presenti e future, e in definitiva il messaggio essenziale della corrente di pensiero che, senza sosta, tende a risollevare l’umano dalle sue immancabili cadute.
Perché la rappresentazione della libertà, come la rappresentazione della sua mancanza, sono solo i contrapposti entro cui, attraverso la dinamica dei contrasti e il dramma delle tensioni, la presenza interiore affiora dall’intimo come pura forza dello Spirito individualizzata.
L’affiorare della presenza interiore è il moto della Resurrezione. E nel momento in cui essa c’è, è libera da tutto, perfino dalla libertà.
I paraventi, le sovrastrutture, gli altarini e i sepolcri imbiancati allora cadono; il Pensiero presenta se stesso all’animo dell’uomo che lo ha cercato e voluto oltre la barriera terrestre, oltre lo specchio della cerebralità. Non è piú il “servo di scena”, la comparsa, o il suggeritore nascosto nella buca: è il Protagonista, sarà bene ascoltarlo. Con lui si avanza nell’Eternità.
Quel che potrà avvenire dopo, rivivifica ed umanizza la storia del Cosmo.
Angelo Lombroni
P.S.: Credevo di aver concluso quest’angolo di “considerazioni”, ma poi, data un’occhiata al calendario, scopro che mancano pochi giorni al primo plenilunio di Primavera; quindi, secondo il calcolo tradizionale, nella domenica successiva si celebrerà la festa della Pasqua. Volevo pertanto porgere a tutti gli Amici dell’Archetipo i miei auguri con le parole migliori per l’occorrenza. Ma se vado a rileggere i pochi capoversi di quest’ultima pagina, mi accorgo di aver già adoperato ciò che di piú bello, buono e pertinente alla Festività poteva essere implicitamente espresso. Renderlo esplicito mediante ulteriore approfondimento, è il dono che ciascuno potrà dare a se stesso.