Ora che la tua anima, caro amico scomparso di recente, viaggia verso l’Alto dei Cieli, mi sento in grado di dire alcune cose che a te in vita non ho mai saputo rivelare, almeno non cosí completamente quanto avrei voluto. Le occasioni non sono mancate, ma ogni volta ho lasciato prevalere il timore dell’incomprensione che sarebbe potuta scaturire e danneggiare, in via forse irreparabile, il senso del mio discorso, le cui intenzioni ritenevo allora ragionevoli. Come spesso accade in questi casi, davo per scontato che, rifiutando le ragioni presentate, quelle poche già da noi condivise si sarebbero confuse ancor piú.
Sappiamo che i legami con la propria persona condizionati dalla corporeità, ossia dalla sostanza sensibile, sono talmente forti, che pure dopo il Grande Passaggio stentano a risolversi; necessita un periodo di decantazione perché l’anima del defunto se ne liberi in via definitiva.
Ho quindi deciso di scriverti, non certo per fornirti spiegazioni che adesso sicuramente puoi valutare con nitida obiettività, ma per chiarire a me stesso, e in tua memoria, i pensieri che mi premevano e che avevo fin qui accantonati.
Per molto tempo abbiamo partecipato entrambi ad una piccola associazione spirituale il cui tema fondante era l’interesse per gli insegnamenti di Rudolf Steiner e di Massimo Scaligero, nonché lo studio sistematico dei medesimi. Da ultimo, eravamo rimasti in pochi, dato che il tempo, l’età avanzante e le vicissitudini umane che vi si collegano, ci avevano privato di alcuni amici e amiche. Ma anche cosí decimati, da superstiti, ci trovavamo puntualmente, una volta alla settimana, e svolgevamo assieme esercizi, meditazioni e letture secondo un calendario concordemente prestabilito.
Numerose difficoltà si sono presentate nel corso degli anni a questa nostra piccola unità; tali che potevano da un momento all’altro scompigliare le nostre aspirazioni e il valore condiviso dell’assieme. Nei casi in cui la compagine veniva messa in pericolo, la soluzione unanimemente adottata è stata sempre quella di andare a rileggere e rimeditare la nota appendice del libro di Scaligero Dell’Amore Immortale (la numero 2, ad esser precisi) dal sottotitolo tanto emblematico quanto significativo: “Perché un’associazione spirituale viva”.
Ecco: nei momenti in cui la nostra situazione associativa veniva ad essere esposta al vento degli accadimenti, ho provato spesso nei confronti del nostro modo di reagire un vago senso di dissonanza e di contrarietà. Ritenevo il rimedio adottato troppo blando per essere efficace; sostenevo che davanti ad una pressione esterna di fatti reali, di avvenimenti concreti, sia necessario cambiare in primis il nostro atteggiamento interiore, fortificarlo, ricercare le cause reali, prendere in mano la responsabilità dell’intervento e agire di conseguenza. Tutto questo prima di leggere e meditare. Un’impostazione del genere mi sembrava doverosa ancorché indispensabile.
I componenti del nostro microgruppo si erano da tempo adagiati nel convincimento che la devozione allo Spirito non possa e non debba comportare chiarimenti e discussioni interne; si riteneva qualunque forma dialettica un arto delle forze avverse indirizzato a dividere e a confondere; che le forme del rigore paraliturgico adottate richiedessero esclusivamente letture e meditazioni, alternate da meditazioni e letture. E che «durante le riunioni, sia ben chiaro, non c’è né dev’esserci spazio per altro». Quest’ultima frase me l’hai detta tu stesso molto tempo fa. Non l’ho mai scordata.
Quindi di fronte a situazioni gravi, o avvenimenti incresciosi, si rendeva necessario rileggere piú pagine dei nostri testi e prolungare la durata delle meditazioni. Come se l’aumento della quantità fosse l’unico rimedio alla scarsezza della qualità. «Tuttavia – pure questo mi hai detto – non puoi cavare sangue dalle rape. Chi lo pretende, s’illude, oppure è un sovversivo che, magari in buona fede, getta benzina sul fuoco pensando di spegnerlo».
Mi veniva quindi in qualche modo rigirata la questione di fondo; nei miei confronti, aleggiava un pregiudizio: «Se vieni da me con questo tipo di soluzioni, allora il problema sei tu».
Da parte mia, invece, pretendevo solo di capire quel che succedeva; fin da bambino, era per me impossibile rinunciare a capire, e questo mi metteva automaticamente in una posizione diversa, un po’strana, resa ancora piú ostica dal fatto che non sono mai riuscito a comprendere le cose in modo immediato. Ho sempre ammirato, e qualche volta invidiato, i tipi perspicaci capaci di centrare in un secondo il cuore del problema. Io invece ci mettevo settimane, se non mesi, e questo mi rendeva sempre cauto quando mi avventuravo in qualche spiegazione maggiormente complessa.
Immaginiamoci quale poteva pertanto essere la mia prudenza quando mi trovavo a trattare di temi etici e di relative impostazioni interiori rivolte ad un gruppetto di persone che studiano l’Antroposofia. È incredibilmente difficile trovare le parole e i toni giusti per far capire a qualcuno che sarebbe stato un buon giovamento per tutti il ridestarsi dal mondo dei sogni e tornare alla vita. Oltretutto, come contro-antidoto, valeva sempre la classica remora: «Ti atteggi a Maestro, a Guru, a Guida Spirituale? Chi sei tu per giudicare il grado di destità di una coscienza altrui?». Il seguito era pressoché inevitabile: «Pensa piuttosto alla tua!».
Avvertivo che ogni mio riferimento in merito ad una eventuale necessità di rinnovamento delle usate (e abusate) liturgie del gruppo di studio, veniva accolto, particolarmente da te, dapprima con freddezza e poi anche con un certo sospetto.
Il mestiere dell’innovatore è altrettanto duro quanto quello del conservatore. Se l’amore per il nuovo non si accompagna al rispetto per il vecchio, la dinamica che ne consegue è puro e semplice scontro di animosità mal gestite. La logica del “non far niente” e “aspettiamo che passi” è troppo avvilente per farsi ammirare in cornice; eppure, dal momento che non costa niente e non richiede sforzi aggiuntivi, molti sono disposti a seguirla.
A giustificazione si prendeva pure a prestito un mantra, a suo tempo coniato dallo stesso Massimo Scaligero, che recitava cosí: «Non c’è nessun posto dove andare; non c’è nessuna domanda da fare; non c’è nulla da temere».
Ne ero perfettamente consapevole; tant’è vero, che tempo addietro, ne avevo fatto un cartello e l’avevo tenuto appeso alla testiera del letto per parecchi mesi, in modo da poterlo rileggere ad ogni mio risveglio. Facevo perciò una certa fatica a trattenermi dal chiedere: perché mai questi amici, assieme ai quali affronto la via antroposofica, sono smaniosi di andarsene in giro qua e là (parlo di vacanze o viaggi di diporto, specie nei periodi estivi) e hanno contemporaneamente paura di tutto (ogni novità proveniente dal mondo esterno sembrava avere un effetto dirompente sull’equilibrio psicofisico degli associati)? Dell’inciso scaligeriano – mi dicevo – prendono per buona solamente la parte relativa al non-porre-le-domande; detto in sincerità, osservare un’unica indicazione su tre, mi pare poco.
Per essere sincero, anche se le trattenevo in me, queste riflessioni avevano un loro peso e in qualche modo trasparivano dalle mie parole e dai miei comportamenti; devo darne atto.
Cosí, visti gli esiti poco incoraggianti dei miei tentativi abbozzati e poi riposti, avevo finito per non parlarne piú; quelle considerazioni piuttosto grevi che andavo via via accumulando nel corso degli anni, le tenevo per me, finché un giorno mi riuscí di formulare nel mio mitreo una risposta alla serie di domande che riguardava l’andamento dei lavori del gruppo. Di fronte ad essa mi fermai, perché ne colsi con sorpresa il lato positivo, che presentava (cosí allora mi parve) una duplice validità sia sul piano spirituale della crescita interiore sia su quello pratico operativo e dunque etico.
Potevo trasformare la mia presenza assidua ai lavori di gruppo in un esercizio della volontà, ossia per quanto riguardava tutta la problematica associativa, avrei smesso deliberatamente di pensarci su ed avrei quindi continuato nel percorso comune con l’atteggiamento interiore composto e sereno di chi non ha nulla da obiettare, in quanto consapevole che quel che si sta facendo è di un’importanza cosí fondamentale da escludere ogni altra attività opinionistica personale.
Oggi, ripensandoci, ho il fondato sospetto d’essermi raccontato una “balla” gigantesca, che al momento mi era servita a placare le mie inquietudini. Tuttavia, l’idea di aver trovato una motivazione superiore giustificante lo sforzo psicologico di un adattamento improvvido, compariva, nel tratto di strada che stavo compiendo, come soluzione rassicurante e, tutto sommato, non comportava altro che un minimo sacrificio.
Già questo avrebbe dovuto mettermi in guardia: che razza di decisione sacrificale può avere uno che prima di attuarla, la soppesa per valutarne l’onerosità? Ma la storia accoglie senza batter ciglio tutte le nostre umane incoerenze; semmai, solo dopo averle svelate, ci dà modo di correggerne alcune.
In realtà, attraverso uno strano giro di altalenanti congetture, ero in fondo venuto sulle stesse premesse (nelle nostre riunioni si legge e si medita; non c’è spazio per altro) ma consapevole che il percorso attraverso il quale tu potevi esserci arrivato, ammesso che ci fosse stato, era in tutto e per tutto diverso dal mio. Pensavi fosse resistenza quel che io ritenevo essere puro conformismo; al quale tuttavia finii per conformarmi, una volta convinto che fosse l’espressione del mio resistere.
Quanto devono aver riso di noi gli Avversari che – mai abbastanza – diciamo di conoscere!
Eppure lo sapevi al pari di me; senza averlo mai concordato (e nemmeno discusso in modo esauriente) abbiamo lasciato che le cose andassero avanti cosí, probabilmente convinti, e per ragioni opposte, che introdurre cambiamenti non avrebbe prodotto alcun beneficio. Ci siamo assunti la responsabilità di tacere, alla quale sei rimasto fedele fino alla tua ultima ora. Da parte mia, pur senza grandi recriminazioni, nutro la sensazione piuttosto spinosa, di aver lasciato incompiuto qualcosa che poteva essere alla mia portata; di aver fallito una buona occasione per rinvigorire le nostre anime sedute e assopite nell’assise del ritualismo formale.
Per me quel nostro riunirci era finito per risultare frutto di una inerzia interiore con cui riempire l’anima; non lo vedevo diverso dalle mense di carità che periodicamente riempiono le pance vuote dei bisognosi.
Con un’unica macroscopica differenza: che i bisognosi non avevano scomodato il loro karma per diventarlo. Hanno quindi diritto a qualche agevolazione.
Per tua scelta invece avevi preferito arroccarti su quella posizione churchilliana che voleva «La realtà essere migliore di qualunque sogno». Secondo me, pure tale affermazione era un paradosso onirico, o quanto meno basata sulla speranza. Ai nostri giorni, sarebbe stata sostituita da un «Andrà tutto bene». Ma in fondo è giusto cosí; durerà finché i sentimenti detteranno legge al pensare e al volere.
Tuttavia stiamo crescendo; in qualche modo, anzi in tutti i modi, siamo in marcia, camminiamo, e questo si verifica tanto per quelli che abbiano una coscienza già ridestata alla luce della verità, quanto per quelli che, nell’auto-isolamento del loro ignorare, attendono ancora il momento del risveglio interiore. Il risultato però non può fare a meno di tener conto della media ponderale.
Il Grande Passaggio comunque funge da catalizzatore; libera in misura preponderante dai vincoli imposti dalla fisicità e la coscienza raggiunge un grado di chiarezza e di obiettività che, durante l’esistenza terrena, si può conseguire solo in piccole dosi e per brevi intervalli di tempo.
La nuova posizione acquisita permette di rilevare l’irrealtà che sta dietro ad ogni vicissitudine umana, sia che essa nell’esplicarsi, abbia assunto la forma del dramma piuttosto che quella della commedia.
Seguendo la Scienza dello Spirito, ci si crea a volte una disponibilità particolare nel confronti del Mondo sovrasensibile; essa permette di vedere ed agire in modo conseguente; tu ed io, ciascuno nella propria misura, ne siamo stati consapevoli e, secondo la differente relazione, abbiamo sostenuto un intervento atto a migliorare in senso qualitativo l’operato dei consociati.
Era amore per l’altro quello ci spingeva? Da parte mia ne sono stato convinto a lungo.
Soltanto oggi però capisco una cosa: quando si ama e si vede la persona amata in difficoltà, ci si rimbocca le maniche e si studia quel che di meglio si può fare nella circostanza. Il poter raggiungere tuttavia una coincidenza tra pareri opposti su cosa sia davvero il meglio per chi si voglia soccorrere, richiede prima di passare sotto le forche caudine degli egoismi.
Nel caso nostro, ci siamo consigliati a vicenda, e piú di una volta, onde stabilire una linea di condotta in comune. Ma qui viene il bello! Anzi, il brutto! Perché quello che tu proponevi in tal caso, giungeva alle mie orecchie avvolto nella patina della tua personalità, che istintivamente andava a collidere con la mia e che io quindi rifiutavo; sí che il contenuto di quel che sostenevi (e che poteva avere una sua indubbia validità) veniva a risuonare in me come uno sproposito assurdo e del tutto fuori luogo.
Per contro, non stento a immaginare adesso, che altrettanto dovevano risuonare a te i miei progetti sul miglioramento del lavoro associativo.
Di conseguenza siamo rimasti immobili ciascuno col fardello delle sue brave motivazioni appeso sulle spalle; per amor di pace (si fa per dire) abbiamo permesso che la situazione di gruppo andasse avanti come di fatto è andata.
Il significato della citazione di Massimo Scaligero è stato stravolto: abbiamo trasformato il “Perché una associazione spirituale viva” in “Perché una associazione spirituale sopravviva”. E puntualmente su di noi si è abbattuto il peso del non aver colto la differenza.
Tentare di sopravvivere è del tutto giustificato; gli sconvolgimenti della natura e le storie dell’umano soffrire ci ricordano quanto siamo deboli e indifesi. In tali casi voler sopra-vivere è un diritto; ma la sopravvivenza nasconde anche un significato peggiorativo: può indicare l’espediente del “vivacchiare”, del “tirare avanti” in maniera irrispettosa del valore umano. Non c’è giustificazione che tenga, quando un gruppo di anime, dichiaratesi consapevoli, s’incamminano assieme sul sentiero dello Spirito; non certo perché ritengano di brillare in audacia ed eroismo, ma per la ragione fondamentale che se, dopo i primi passi, vacillamenti, contestazioni e divergenze si presentano e persistono, allora vuol dire che la decisione iniziale era stata concepita in zone interiori che non è bene definire coscienti.
Il senso di un’ascesi, qualunque sia il modo del suo manifestarsi come idea e azione, non può essere diverso da quello che si prefigga l’obiettivo di sottrarre l’esperienza esistenziale alla sfera del sentire egoico. Invece, come regola da abbattere, viviamo immersi nella fobia del giudizio altrui; contemporaneamente ci dedichiamo con molto impegno a giudicare gli altri, ad ergerci quali giudici morali delle loro condotte di vita; ci sentiamo lesi sul piano personale se l’altro, o gli altri, accennano a volersi sottrarre all’influenza negativa che la nostra striminzita umanità riversa su di loro, credendo – molto vanesiamente – di aiutarli e correggerli. Ma è, per l’appunto, una regola da abbattere: finché sta in piedi ed imperversa, nei singoli quanto nelle collettività, ogni desiderio di ascesi, di verità, di rinnovo dal profondo, è semplicemente utopistico.
A furia di collezionare e mettere in evidenza soltanto i casi eclatanti d’ingiustizia, siamo diventati ingiusti. La colpa è della scuola, degli insegnanti, del governo, del tempo, della politica, dell’alta finanza, delle difficoltà della vita o della Cometa di Halley.
È difficile dire a se stessi: «Mea culpa, mea maxima culpa, anche se so di non aver commesso nulla di male, ho lasciato però che altri continuassero a farlo; mi andava bene cosí. Per cui non vedo motivo di nascondere la mia correità».
Mentre rivolgo queste riflessioni a te, che non sei piú qui tra le parvenze del sensibile, mestamente mi accorgo della loro postumanza; ma comprendo che quanto è accaduto doveva effettivamente accadere per giungere ad un chiarimento definitivo, precedentemente impossibile.
La tua anima, pur coinvolta nel processo del trapasso, in questi momenti è già piú libera di quel che possa esserlo la mia, avvinghiata com’è alla terrestrità e alle forze della coesione biologica. Sei quindi in grado di inviarmi, ora, soltanto ora, ciò che tempo addietro hai forse cercato di dirmi e che io ho rifiutato a priori di capire. Percepisco non i tuoi pensieri né i tuoi sentimenti, perché non sono un medium, ma riesco a riformulare i miei, ordinandoli secondo un codice che prima non conoscevo.
In questo nuovo esperire, vedo una verità importante valida per le vicende relative alla nostra associazione, ma che funziona alla grande anche per infiniti altri casi consimili, là dove ciò che è vero, giusto e sacrosanto viene sempre scartato e dismesso per l’incomprensione e l’ingratitudine umana nei confronti dello Spirito. Si è detto da molte parti che sarebbe cosa del tutto inutile se la Verità Suprema si manifestasse sulla terra e si presentasse agli uomini: non la capirebbero; non potrebbero capirla; non sarebbero in grado di farlo. E ultimamente sembra che abbiano anche perduto ogni interesse a farlo.
Per ora possiamo comprendere soltanto le mezze verità, i giochi della penombra, i mozziconi della luce, le candeline dei presepi di cartapesta. Eppure abbiamo ogni giorno davanti a noi, come percezione immediata, lo spettacolo straordinario e sublime della natura, il suo continuo rinnovarsi nel tempo, mutando forme e colori, insegnando ai pittori piú eccelsi cosa sia veramente un’espressione artistica. Basterebbe fermare per un istante le folli trottole delle nostre esistenze, spesso presuntuose se non arroganti, e ammirare in silenzio ciò che lo Spirito ci pone di continuo davanti agli occhi, senza mai chiederci nulla in cambio. Già quest’ultima è una regola che in genere gli esseri umani non riescono proprio a fagocitare.
Cosí dunque si è reso necessario che tu morissi perché l’amicizia che ci legava risorgesse in un momento di Luce. Adesso posso scrivere – e sei tu a permettermi di farlo – che nel tentativo di raddrizzare le sorti del nostro gruppetto di studio, abbiamo piú volte maturato, ciascuno in cuor suo, il convincimento d’essere entrambi nel giusto, ma contemporaneamente d’essere anche incapaci di scambiarcelo. L’idea di potercelo offrire in dono ci era completamente sfuggita.
Tale una parte della verità: pertanto, una menzogna. L’altra parte, quella determinante, quella che ci mancava, consisteva nel fatto che entrambi brancolavamo nel torto, e ce lo siamo mascherato in tutti i modi possibili e immaginabili. Ora spiego il perché. Tu lo sai già, in quanto me lo hai ispirato, ma voglio metterlo per iscritto, nero su bianco, per verificare, ogni volta che mi verrà il dubbio, d’esser stato attento e preciso nel redigere una comunicazione che mi pare giungere da oltre i confini abituali. Vediamo se mi riesce.
Due affermazioni essenziali, molto note, vanno poste in epigrafe: la prima, l’abbiamo imparata a scuola studiando filosofia; la seconda riguarda il Nuovo Testamento, è stata letta o sentita da molti, ma probabilmente senza coglierne appieno il valore esoterico.
Negli incontri culturali, si cita di frequente, il “Panta Rei” di Eraclito e lo si traduce in molti modi; ho sentito nei miei anni passati sui testi di greco, varie parafrasi come: «Tutto Passa, Tutto Scorre, Tutto è in via di cambiamento, la Logica della Metamorfosi, il Continuo Divenire ecc.».
Spiegazioni interessanti, dotte, accurate; filosoficamente piene di significato. Ma sono sempre mezze verità (che servono, per l’amor di Dio, certo che servono!), non possiamo farne a meno. Proprio perché, come detto poco fa, la verità totale non è ancora alla nostra portata; prima di contemplare il disegno integrale del mosaico, dobbiamo accontentarci di guardare il gioco delle tesserine. Cosí, io almeno, ho fatto.
Ma in questo scorcio di esistenza, tu sei per me la marcia in piú; mi vieni in aiuto e posso pertanto aggiungere a quel che so, alcune parole che in altri momenti avrei ritenuto di non poter pronunciare.
C’è qualche cosa che fa da contrapposto (meglio sarebbe dire, in questo caso, da punto fermo, da traguardo) a quel “Panta Rei” di Eraclito; qualcosa che non ha piú bisogno di scorrere, di fluire incessantemente, perché compone in sé ogni dinamismo, ogni mistero energetico e incorona le proiezioni di tutte le probabilità che vi si possono riconnettere, per dare un senso alla vita degli uomini; un senso che sia concepibile anche alla ridotta visualità delle loro/nostre anime. Un punto fisso, sine qua non c’è piú senso per un qualsivoglia nascere, divenire, crescere, vivere e morire; un punto di spartizione, che separa e unifica in Eterno il disordine del doversi produrre senza sosta e la pace armoniosa della sua assegnazione, gloriosamente raggiunta.
Ciò che si contrappone all’incessante divenire dell’Universo, alla titanica e vorticosa vitalità del Cosmo, venne proferito per bocca del Cristo Gesú, prima di spirare sulla Croce, con le parole: «Tutto è compiuto». Fintanto che ci si destreggia tra i flutti del divenire, l’ego crede di poter conquistare o perdere. Quando la lotta cessa ed il bene e il male appaiono lontani come due sponde irraggiungibili, allora si pensa a quel che si è speso in energie e risorse; l’ego scopre di averlo fatto solo per se stesso, per una sua rappresentazione di salvezza, totalmente artefatta e ingannevole.
Avremmo dovuto non pensare a noi, alle nostre beghe travestite da programmi, e difendere i piú deboli; amarli, lottare, infondere nei loro cuori quel che noi avevamo maturato e che a loro ancora mancava; per questa specifica necessità si erano congiunti a noi da molto tempo prima, attraverso le misteriose trame dei destini individuali; ma noi quel piccolo patrimonio l’abbiamo sperperato in una contesa che alla fine dei conti appare in questo momento ridicola e insensata.
Caro amico, mi hai insegnato una cosa nuova, una cosa che non avevo recepito e che probabilmente senza di te mai sarei riuscito a scoprire; te ne sono profondamente grato. Abbiamo rilevato l’insufficienza delle nostre insufficienze; abbiamo isolato in esse il deficit che le rendeva spurie e lusinghiere ad un tempo, ai nostri sguardi miopi.
Tanto potente è stata la volontà di far prevalere la mia concezione sulla tua, che abbiamo scordato entrambi la cosa piú giusta, piú vera e piú bella: il bene degli altri: l’unico vero compimento dell’Amore. Eppure, bastava ricordarci del Mistero del Golgota; attingere in Esso la virtú che ci spettava.
Ma niente è definitivamente perduto: abbiamo ancora una gran parte d’Eternità per rimediare, tu in un modo e io in un altro. Quando verrà l’incontro, ci riconosceremo senza esitazioni perché entrambi punteremo le nostre forze su ciò che sta al di fuori di noi e che – incessantemente – ci converge a Lui, ove tu già sei in procinto d’essere.
Angelo Lombroni