Il castello

Costume

Il castello

La visita comincia dal cortile.

«Quello che qui vedete è, tra i castelli,

esempio di mirabile armonia.

Vi lavorò Sangallo, e poi Bramante,

Del Piombo, Buonarroti e Vanvitelli».

Il cicerone recita la parte

guidando il gruppo su per la salita.

«Notate la possanza dei bastioni

cui pose mano, a fine quattrocento,

il Duca Sigismondo detto il Fiero,

chiedendo il meglio e non badando a spese».

«Cosa sono quei buchi lassú in alto?»

domanda ignaro uno dei turisti.

«Bocche da fuoco per l’artiglieria

che sparavano palle di granito

pesanti mille libbre cadauna».

«E quelle feritoie a taglio sgembo?».

«Sono bocche di lupo, micidiali

per far colare pece ed olio a doccia

sugli assedianti prossimi al portone».

Il cicerone non demorde e cita:

«Notate l’architrave a tutto sesto,

il bugnato snellito da motivi

che richiamano l’estro raffinato

dei maggiori palazzi fiorentini.

E che dire dei muri rastremati,

dell’eleganza di torrioni e merli».

Il gruppo ammira, si sorprende, osserva.

«M’incuriosisce il cippo là nel mezzo»,

insiste dalla folla un’altra voce.

«Serviva alle condanne capitali

per mozzare la testa ai condannati.

E sullo sfondo s’aprono le celle,

senza finestre, senza prese d’aria.

Le stanze di tortura e le segrete

munite d’ogni sorta di strumenti

per estorcere abiure e confessioni».

Ora la comitiva è nel salone

festonato d’arazzi e di trofei.

«Questa è la grande sala delle feste,

con la volta affrescata dal Giorgione,

e gli arazzi tessuti nelle Fiandre

sono il fiore all’occhiello del museo.

Pregevoli gli armadi e i cassettoni,

i lampadari e la tappezzeria».

«Ma qui vedo una macchia rosso cupo,

anzi, son tante, e impregnano la stoffa».

«Dimenticavo, quelli sono i segni

di Sigismondo quando fu colpito

da venti pugnalate a tradimento

per mano di sicari prezzolati

da suo cugino, duca di Provenza.

Morí sul colpo, e dopo la congiura

s’estinsero la stirpe ed il casato.

Seguirono nel tempo altri padroni,

governatori, vescovi e marchesi,

che accrebbero di fasto e di ricchezze

il già cospicuo patrimonio avito,

chiamando artisti, letterati e bardi

che dessero al castello gloria e lustro».

«E le segrete?» chiede un ostinato

visitatore con un groppo in gola.

«Funzionarono sempre, senza posa.

S’adeguarono ai tempi, migliorando,

aggiornando i sistemi e i macchinari.

Vennero usate fino al dopoguerra

come prigione per gli ergastolani».

La comitiva va per gli scaloni,

osserva, si stupisce, si costerna.

La precede solerte il cicerone

e parla, spiega, cita ed erudisce

sul luogo che sposò morte e bellezza.

«Ed eccoci, signori, all’armeria,

con archibugi, mazze ed alabarde,

schioppi, spingarde, obici e balestre,

per non parlare di pugnali e stocchi,

armi varie da taglio, punta e lancio.

Ma il pezzo forte della collezione

è formato da tutte le armature.

Questa ad esempio, fatta a Norimberga,

apparteneva al duca Sigismondo,

che l’indossava quando combatteva,

il che voleva dire tutti i giorni.

Era una schiatta, quella, di guerrieri,

nata per conquistare mari e monti.

Completo di corazza, lancia e scudo

pesava Sigismondo mille libbre:

lo si poneva in sella col paranco.

Formava col cavallo un carro armato

che stritolava schiere di nemici

senza misericordia né quartiere.

Ma quando terminava la battaglia,

il duca vincitore s’allietava

con musici, buffoni e cortigiane

che aveva sistemato in un quartino

poco lontano dal suo appartamento.

Cosí si distraeva, e se gli andava,

appagato dal vino e dai sollazzi,

poteva anche graziare un prigioniero

dando l’esilio in luogo della morte».

La visita è finita, il gruppo sciama,

ritornando all’aperto, in piena luce.

Un bambino ritrova il suo coraggio

e chiede al padre senza complimenti:

«M’hai sempre raccontato che i castelli

ospitavano fate e cavalieri

senza paura, macchia e ipocrisia;

ch’erano luoghi dove si menava

esistenza felice e spensierata,

tra feste, balli, serenate e canti.

Non m’hai parlato di pugnali e sangue,

delle segrete e stanze di tortura.

Come stanno le cose veramente?»

Il padre tace, preso alla sprovvista.

Imbarazzato, replica alla fine:

«Non parlavo di un simile castello,

il mio si trova nella fantasia».

Il figlio si rassegna, ammutolisce.

Da oggi non è piú quello di ieri,

ha veduto il rovescio delle cose,

perdendo con i sogni l’innocenza.

Tutto d’un colpo è diventato uomo,

dimenticando fate e cavalieri.

 

Il cronista