Dante

Letteratura

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Statua di Dante Alighieri

Statua di Dante

Campagne di Enrico VII

 

 

Sistemata la Lombardia, l’Imperatore si dirigeva verso Genova la quale lo accoglieva con onore e lo acclamava fervidamente, riconoscendo in lui la massima autorità. Nel frattempo i Fiorentini avendo ricevuto soccorsi da Roberto re di Napoli, distribuivano le loro soldatesche tra la Lunigiana e il Valdarno, allo scopo di impedire il passaggio delle forze di Enrico. Nel febbraio dell’anno seguente, l’Imperatore partí da Genova con trenta galee e approdò il 6 marzo a Pisa, dove si trattenne ad aspettare rinforzi.

 

Enrico VII di Lussemburgo incoronato a Roma dai cardinali, perché il papa è ad Avignone

Enrico VII di Lussemburgo viene incoronato a Roma dai cardinali perché il papa è ad Avignone

 

 

Il 23 aprile dello stesso anno, attraversando la maremma toscana e passando per Viterbo, diresse le sue soldatesche verso Roma, dove poteva entrare grazie all’aiuto dei Colonnesi, giacché le genti di Roberto e quelle di Toscana avevano intenzione di resistere strenuamente difendendo le fortezze e in particolar modo il Campidoglio. Considerando il valore di questa opposizione e ritenendo difficile poter occupare insieme tutte quelle terre, Enrico VII, il quale non si credeva sicuro neppure in Roma, il primo agosto 1312 si faceva incoronare Imperatore a San Giovanni in Laterano e subito dopo si recava a Tivoli, da dove, dopo breve sosta, si dirigeva verso la Toscana, attaccando e mettendo a fuoco tutti i castelli nei quali continuava la resistenza.

 

L’idea di prendere Firenze dominava l’animo dell’Imperatore. Il 19 settembre, dopo aver invasa la campagna fiorentina, si accampò presso la città attendendo gli eventi. Il popolo frattanto si armava e si preparava alla difesa della città insieme con le genti della Lega. L’impresa si presentava per Enrico ardua e contraria al suo desiderio di imporre l’ordine senza eccessivo spargimento di sangue e senza riaccendere gli odii, per cui, dopo diversi giorni di titubanza, rinunciò ad essa e, tolto l’assedio, si recò dapprima a San Cassiano e poi a Pisa.

 

La rinuncia alla conquista di Firenze fu per l’Imperatore un motivo di non poca amarezza: egli tuttavia pensava di conseguire un obiettivo di uguale valore accordandosi con Federico re di Sicilia e coi Genovesi. Immediatamente Federico invadeva la Calabria e i Genovesi inviavano numeroso naviglio verso l’isola di Ponza: Enrico stesso si dirigeva con il suo esercito verso il napoletano.

 

 

Morte dell’Imperatore

 

Ma la buona stella non lo assisté: infatti lungo il tragitto tentò di prendere Castel Fiorentino, ma non vi riuscí a causa della strenua difesa dei Guelfi; indi passò per Montaperti, poi per il piano di Filetta e per ultimo, ritiratosi a Buonconvento, a poche miglia da Siena, moriva improvvisamente il 24 agosto del 1313.

 

Non era trascorso un anno dalla morte di Enrico che anche il Pontefice, nella umiliante cattività di Avignone, finiva i suoi giorni. Moltissimi riconobbero in questa morte una punizione inflitta dalla giustizia divina.

 

L’Imperatore, secondo la predizione del Poeta, raggiungerà il nobile seggio, nel piú elevato Cielo di Fuoco, nel celeste Empireo, dove soffusa dalla Luce trascendente fiorisce la “candida rosa”, simbolo dell’eterna primavera dello Spirito che vive nella gloria del Divino.

 

Profondo fu il dolore di Dante per la morte di Enrico VII, con la quale egli vedeva svanire ogni sua speranza di pacificazione per l’Italia e di possibilità per lui di ritornare in patria. Ricominciò dunque la sua vita di pellegrino, continuando nei suoi studi e nelle sue meditazioni e al tempo stesso lavorando attorno alla sua maggiore opera poetica.

 

Uguccione della Faggiuola

Uguccione della Faggiuola

Uguccione della Faggiuola

 

Nel 1314 egli dové cercare asilo presso Uguccione della Faggiuola, che era stato capo dei Ghibellini pisani. Uomo di alta statura e di forza eccezionale, dall’aspetto rude e virile, era il tipo dell’autentico uomo di armi; ma il suo animo era gentile e dotato di quella lealtà che Dante teneva in sommo pregio. Come il Poeta, Uguccione era avverso ai protervi ed astuti intriganti che dominavano Firenze.

 

Combattente infaticabile e stratega acuto, Uguccione della Faggiuola riprendeva l’impresa interrotta dell’Imperatore Enrico e, avendo mosso contro Firenze, il 29 agosto 1315, scontratosi con i Guelfi toscani, a Montecatini, li sconfiggeva. Per la seconda volta sembrava che la forza di una giustizia superiore dovesse riaffermare la sua legge sulla città travagliata dalla tirannide faziosa: Uguccione era infatti pronto, secondo l’espressione di Dante, a uccidere l’«Arpia che dilaniava le viscere di sua madre, dell’Italia, il cui nome è Firenze».

 

Nell’imminenza del nuovo pericolo che era forse piú minaccioso di quello di due anni prima, la signoria di Firenze corse ai ripari e stabilí di graziare alcuni tra gli esuli, accordando loro di rientrare nella città a due condizioni: pagare un’ammenda di cento fiorini di oro e prendere parte al corteo del pentimento, ossia recarsi in processione nella chiesa di San Giovanni, coi piedi nudi, le candele in mano, recando i cappucci con i quali si ricoprivano gli eretici, gli stregoni e gli apostati che andavano al rogo. A questa umiliazione si sottomisero molti, ma non Dante.

 

Sembra certo che, qualche giorno dopo l’esito della battaglia di Montecatini, avendo ricevuto lettere da un nipote e da amici fiorentini, con cui gli si prometteva l’offerta della grazia, egli abbia risposto: «Voi mi scrivete che se io, secondo la legge promulgata oggi in Firenze, circa il ritorno dei fuorusciti, pagassi l’ammenda stabilita, potrei avuto il perdono tornare in Patria. Cosí deve forse tornare nella sua Patria, dopo un esilio di quasi quindici anni, Dante Alighieri? Ha meritato questo la sua innocenza, palese a tutti e la sudata continua fatica nello studio? No, non si dovrà umiliare cosí un uomo che sa che cosa è la saggezza, non accetterà la grazia dai suoi offensori come da benefattori. Se solo per que­sta via posso tornare a Firenze, non ci tornerà mai. E sia anche cosí! Non vedrò forse in ogni contrada della terra il sole e le stelle? Non contemplerò forse sotto tutti i cieli le piú luminose verità, senza coprirmi di vergogna dinanzi ai cittadini fiorentini? E certamente il pane per sostentare la mia vita non mi mancherà».

 

La Battaglia di Montecatini

La Battaglia di Montecatini

 

La rinuncia di Dante doveva purtroppo avere un valore definitivo. Infatti, poiché Uguccione, pur essendo un valoroso guerriero, non aveva ugual valore nella politica, non seppe tenere Pisa e Lucca, le quali insorsero contro di lui nel marzo 1316: fu saccheggiato e distrutto il suo palazzo, vennero uccisi i suoi seguaci ed egli stesso, assente, fu condan­nato all’esilio. Cosí si rese inutile il risultato della bella vittoria conseguita a Montecatini, e il governo di Firenze continuò imperturbabilmente la sua politica di parte.

 

 

Dante a Parigi?

 

Dante, pannello conservato al Louvre

Dante, pannello conservato al Louvre

 

Si ritiene da molti, con il Boccaccio, che in questo periodo Dante lasciasse l’Italia e si recasse a Parigi dove avrebbe disputato, in quella Università, con uomini di grande sapienza e di dottrina, intorno a fondamentali argomenti della filosofia e della cultura: molti dotti si sarebbero recati a incontrarlo e a sentire dalla sua viva voce le espressioni piú interessanti della sua saggezza.

 

Le diverse tappe dell’esilio di Dante e del suo ramingare per le contrade d’Italia sono ricordate dal Boccaccio: «Ma poi ch’egli vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata e di dí in dí divenir piú vana la sua speranza, non solamente Toscana ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté se ne andò a Parigi, e quivi tutto si diede allo studio della filosofia e della teologia, ritornando ancora in sé dell’altre scienzie ciò che forse per gli altri impedimenti avuti se ne era partito».

 

Da qualcuno viene posta in dubbio l’andata di Dante a Parigi. Ma v’è chi parla con precisione della sua visita in quella città e lo descrive in quell’Università, nel «vivo degli strami» seduto con gli altri scolari su un cumulo di paglia, intento ad ascoltare il filosofo scolastico Sighiero di Brabante.

 

Dante esule

Dante esule

 

V’è persino chi afferma che egli si recasse in Inghilterra: ma quest’ultima notizia è assai meno certa. Comunque il Villani, che fu contemporaneo del Poeta e suo primo biografo, afferma: «Fu scac­ciato e sbandito da Firenze e andossene allo Studio e poi a Parigi e in piú parti del mondo».

 

Di questo ininterrotto peregrinare Dante stesso ci dà una viva descrizione: «Poi che fu piacere dei cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gettarmi fuori del suo dolce seno, nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo della mia vita, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto il cuore riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato; per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia, la piaga della fortuna che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputato. Veramente io sono stato legno senza vela e senza governo, portato a diversi porti e foci e lidi dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito agli occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano immaginato, nel cospetto dei quali non solamente mia persona invilío, ma di minor pregio si fece ogni opera…».

 

 

Presso i Malaspina

 

Moroello e i fogli ritrovati

Moroello e i fogli ritrovati

 

Misconosciuto e ripudiato dalla sua città natale alla quale, legato dall’affetto profondo che i grandi spiriti sentono per la Madre patria, aveva giovato col senno, coi consigli e con le opere, egli andava cercando calma e riposo al suo travagliato spirito. Nei dolorosi pellegrinaggi da una contrada all’altra della penisola, egli aveva cercato rifugio anche presso la casa di Moroello Malaspina che professava per il Poeta una schietta amicizia e una particolare ammirazione.

 

Un giorno Dante se ne stava con il suo amico a conversare dei consueti e prediletti problemi dello spirito, allorché il Malaspina sorridendo gli porse alcune carte. Fu una gradita sorpresa per il Poeta il riconoscere in quelle carte i primi sette canti del suo poema, che egli credeva di aver irrimediabilmente perduti nel saccheggio e nello scempio che il popolaccio aizzato dai Neri aveva compiuto nella sua casa. Era stata la buona moglie di Dante che aveva potuto salvare quelle preziose carte e le aveva consegnate a uno dei piú cari amici, del Poeta, Dino Compagni, il quale le aveva inviate al Malaspina. Nel rileggere i suoi canti, Dante sentí risvegliarsi l’antico amore per Beatrice; e questo fu un incentivo profondo per la ripresa del suo lavoro e per la concezione di nuove pagine di divina sapienza.

 

In questo periodo, infatti, egli si applicò con decisa attenzione al compimento della sua opera maggiore, la «Commedia». Egli aveva ideato il poema allegorico-dottrinale dopo la morte di Beatrice, l’aveva maturata nel suo spirito dopo la morte di Enrico VII e la compí poco prima della sua morte.

 

Massimo Scaligero (5. continua)


Tratto da: Dante, Domenico Conte Editore, Collana “Vite”, Napoli 1939.