Scienza dello Spirito - Istruzioni per l’uso delle istruzioni

Considerazioni

 

Scienza dello Spirito - Istruzioni per l'uso delle istruzioni

La Scienza dello Spirito

 

Prima o poi qualcuno te lo chiede, è inevitabile. Magari la domanda non sarà formulata in modo diretto, forse ci sarà un giro di parole la­sciate cadere lí con urbana noncuranza, ma in tutti i casi – saputo che ti occupi di Scienza dello Spirito – una certa curiosità s’accende al soli­to nelle anime estranee; le quali, giustamente, vogliono saperne di piú. Non sia mai che non si tratti di qualcosa di losco, di una trama poco chiara, forse eversiva, se non una macchinazione vera e propria a danni dell’ordine costituito; insomma un pericolo per te e per chi ti sta at­torno. Sono temi che appassionano la gente.

 

Allora ti rendi conto che devi rispondere qualcosa, ma capisci pure che la tua risposta non può essere una risposta qualsiasi; non può essere evasiva né dettagliata, come non potrà essere sbrigativa o proferita dalla sopraelevatura d’un qualche pulpito invisibile. Perché anche que­ste son cose che succedono.

 

Dovrai saperti esprimere in maniera semplice, intellegibile secondo il miglior senso della logica comune; mantenerti serio, ma non troppo, perché l’argomento, sia ben chiaro, non è di svago, ma neppure fonte di mestizia. D’altra parte bisognerà fare attenzione a che il tuo dire non assuma toni troppo accesi in fatto di entusiasmo, o di carica mistica; né abbia poi quel carattere di esclusività tipico di chi crede appartenere ad una élite e, a livello di vocabolario nozionistico, ne sfoggia le insegne, ritenendole basi indispensabili per una conoscenza superiore da impartire al neofita di turno. Sarebbe opportuno trovare la giusta via di mezzo tra una sobrietà disinvolta e un candido ritegno; tra una disponibilità cordiale e una sfumatura di tensione appena accennata; tra un’affabilità diploma­ticamente impostata ed una severità tanto rigorosa quanto espansiva; tra un dir tutto che dica poco e un dir niente che valga assai. In effetti non è semplice.

 

Di solito la domanda: «Per quale motivo ti dedichi alla Scienza dello Spirito?» ne cela una seconda, che però sarebbe la prima in ordine d’importanza, e costituisce il nocciolo della domanda vera, ma che un frainteso rispetto di civile convivenza tende a mascherare, vuoi per opportunismo, vuoi per pacifismo, vuoi per una di quelle altre cose che finiscono in “-ismo” e che senza mai chiarire nulla, rendono possi­bile pure la convivenza tra material-ismo e spiritual-ismo: basta che il suffisso rispetti la rima in -ismo. Sarà colpa del modernismo?

 

Cosí oggi io mi chiedo: se qualcuno viene da me e mi domanda a bruciapelo: «Ma cos’è questa Scienza dello Spirito?» che gli dico? Sarò in grado di fornirgli una risposta esauriente?

 

Non voglio risolvere qui la questione perché credo non sia possibile farlo a livello di ipotesi fanta­siosa; tutto dipenderà dalla situazione reale in cui la richiesta maturerà e salterà fuori come la dea Atena dalla testa di Zeus. Molti sono gli elementi che concorreranno a formarla; come sempre, alcuni puramen­te oggettivi (p.es. siamo verso sera e sembra che stia per piovere) altri invece avranno i caratteri della soggettività (p.es. guarda com’è simpatica questa persona, peccato che io sia un po’ sordo e non senta bene quel che dice, la pregherò di alzare un pochino la voce).

 

È tutto lí; poi da cosa nasce cosa, e magari ove fosse un semino, prima o dopo verrà fuori non dico un fiore, ma almeno un filo d’erba. Di piú, non me la sento.

 

Me la sento invece di andare con i miei ricordi a ritroso nel tempo, e fermarmi in quel periodo in cui ero io ad incontrare Tizio, Caio e Sempronio, portando la domanda sulla Scienza della Spirito in pectore; allora, qualche volta il contatto si trasformava in un dialogo buono, quasi proficuo (ma che non risponde­va assolutamente alla mia esigenza); oppure sfociava in un lungo discorso catechistico che uno dei sopra­citati, si sentiva in obbligo di dovermi propinare; probabilmente per il bene di una nascente comunità, nel­la quale egli collocava a forza il sottoscritto, che però, nonostante l’investitura della tiritera cattedratica, o forse proprio per questa, in cuor suo non voleva saperne di appartenere ad alcuna comunità, se prima non fosse riuscito a chiarire il suo personale busillis.

 

In via definitiva, dev’essere questa la ragione per cui continuai a mantenere tale interrogazione dentro di me per molti degli anni successi; un’egida contro gli indottrinamenti gratuiti e non richiesti. Lo feci fintanto che mi accadde di non aver piú bisogno di una risposta, perché la domanda d’origine, smasche­ratasi inconsistente, aveva cessato di produrre effetti, e simile ad un vecchio capocomico in pensione, s’era ritirata dietro le quinte da dove, un po’ rabbonita e un po’ brontolona, si limitava a spiare le nuove rappresentazioni, trastullandosi con la memoria dei suoi momenti migliori.

 

In particolare ci furono tre persone, o meglio tre personalità locali, che in qualche modo produssero su di me delle impressioni “speciali”, perché quelle d’avvio sono sempre incisive e lasciano traccia; impres­sioni sulle quali avrei dovuto lavorare a lungo per conto mio, secondo loro. Naturalmente non lo feci; depositai l’intera vicenda in uno dei tanti luoghi interiori in cui appendevo le cose che non capivo, con il buon proposito di utilizzarle non appena le avessi capite. Mi sfuggiva all’epoca la contradictio in terminis (ed anche in factis ), ma erano giorni, quelli, in cui non sottilizzavo come avrei dovuto.

 

Nodi lunari Caput et Cauda Draconis

Nodi lunari Caput et Cauda Draconis

 

Qualche volta, infatti, andò proprio cosí; mi riuscí di capire nonostante il beneficio dell’esperienza altrui, ma nella maggior parte dei casi, quei reperti incompiuti rimasero lí dove li avevo sistemati, e nulla mi fa oggi pensare, che non stiano ancora lí in attesa di riesame. Credo che l’astrologia li abbia classificati come i Nodi Lunari, ovvero “Caput e Cauda Draconis” (ma è una mia interpretazione ti­rata per i capelli).

 

Quei tipi di cui ho fatto cenno, erano, al momento del pri­mo incontro, tre baldi giovanotti di solo pochi anni piú giovani di me, ma avevano già acquisito, cosí informavano i mormorii circolatori del territorio, parecchie esperienze in campo meta­fisico e soprattutto avevano già conosciuto personalmente il Maestro Scaligero, con il quale intrattenevano pure una cor­rispondenza epistolare.

 

Vollero incontrarmi di persona, ma separatamente, forse secondo un piano prestabilito; e cosí fu: il primo (Tizio) mi guardò a lungo in silenzio per una durata che mi parve interminabile; ricordo il suo sguardo maestrevole, tra un severo serenifico e un andante moderato, fissarmi da dietro gli occhialini rotondi con le lenti cerchiate da una montatura di metallo similoro che mi ricordavano in po’ gli anarchici del primo novecento.

 

«Gli Dei sono impersonali; ricordalo». Furono queste le sue uniche parole; anzi, no, non furono le uniche perché ripeté la medesima frase per almeno tre volte nello spazio di un quarto d’ora. Poi mi mise una mano sulla spalla, fece un cenno di assenso del tipo: «Ora sí che vai bene» e se ne andò. Restai un po’ in­terdetto, ma neppure troppo; immaginavo che non sarebbe stata l’unica cosa strana, dal momento che avevo voluto varcare la soglia impercettibile di quel “gruppo di amici che si trova per coltivare la spiritualità”.

 

Venne poi Caio; qui le cose si fecero piú lunghe; ma in sostanza quel che rammento al proposito fu che: «Solo i migliori possono essere accolti nei Mondi Spirituali». Il tema era questo e ricorreva sovente. Avevo tentato di appurare chi fossero i migliori e con quale criterio venissero selezionati; ma la risposta non esaurí la domanda. «Ogni uomo ha un’anima, ogni anima ha una coscienza, e sopra ogni coscienza c’è l’Io; in ciascuno di questi tre livelli ci si può concepire migliori, ma soltanto uno è vero e giusto».

 

Per i peggiori non c’è quindi rimedio, pensai. Quindi se la cosa funziona cosí, le lotte di classe non hanno alcuna ragione di essere, a meno che, nell’ipotesi delle ripetute vite terrene, uno nasca una volta migliore e la volta dopo peggiore, perché questo promuoverebbe di sicuro una contestazione generale senza sbocchi e senza fine, anche se l’impostazione sembra a prima vista equilibrata e socialmente one­sta. «No, tu sei in errore; perché non sai che i migliori miglioreranno sempre e i peggiori invece conti­nueranno ad abbassare il loro livello di criticità, fino ad entrare nel subumano; a questo punto l’avventura dell’Uomo sarebbe fallita!».

 

Avrei voluto aggiungere (ma, in quell’occasione, non osai): «Beh, ma cosí, per lo meno, resteranno solo i migliori; quindi qualcosa di buono c’è, da parte dell’uomo, intendo».

 

Venne la volta di Sempronio, che nel caso in esame, era una Sempronia; cercava in tutti i modi di presentarsi ai miei occhi sicura di sé, disinvolta, psicologicamente elegante, ma anche guardinga, come se quello che stava per dirmi potesse avere un doppio senso di fondo che, per il bene di entrambi, avrem­mo dovuto in tutti i modi evitare di cogliere. Si vede che le capitava spesso, e pertanto cercai di com­prenderla il meno possibile, seguendo il moto del mio vecchio zio Vincenzo, contadino e guardiacaccia in quel di Terni, che spesso mi elargiva una briciola della sua saggezza campestre: «Se temi il lupo, non curi le pecore, ma se curi le pecore, t’accorgi del lupo».

 

Fraternità

 

Sempronia mi confezionò lí per lí un discorso sull’Amore, quello con la A maiuscola (è per questo che lo scrivo cosí); mi parlò delle tristi, terribili condizioni di quelle anime che restano impigliate nei vincoli della fisicità, del materialismo, della prosaicità, e si perdono tutto quel Ben-d’-Iddio che è l’Amore “per e dello” Spirito, per l’Aurea Fraternitas, e per il Bene Universale sans frontières (detto anche comunemente “Pace”) di cui lei s’era evidentemente autopro­mossa ambasciatrice. «Pensa! – esclamava a mani giunte – tutti quei poveri infelici che si lasciano sedurre dalla carnalità, dalla bra­mosia sessuale e non conosceranno mai il vero Amore!».

 

Detto tra noi, ci avevo già pensato; ma da quel “mulo sgaiotto che ero (tradotto dal vernacolo trie­stinese: ragazzone furbastro un po’ scavezzacollo) posto che la strada infida, pericolosa dell’avventura terrena non poteva escludere a priori un accettabile “sporcaccionismo” da diporto, mi ero convinto che in esso ci doveva stare qualcosa di estremamente allettante, di spassoso, e che andava quindi adeguatamente percorso e verificato (cfr.: smetto quando voglio). Allora non avevo idea di quel che avviene in conse­guenza delle sproporzioni tra costi e ricavi (poco male in quanto anche al giorno d’oggi ci sono vari go­verni e popolazioni intere completamente sprovveduti in tal senso); ma una cosa è parlare di tori, un’altra è entrare nell’arena. Gli eventuali ruggiti dei conigli non vanno piú in là di un modesto intrattenimento radiofonico. Ricevetti in tal modo la mia prima (e triplice) investitura in seno al gruppo cittadino che in quei tempi si dedicava alla Scienza dello Spirito. O forse credeva di farlo, ma appurata la partecipazione di quanti ho potuto conoscere da vicino, devo ammettere che, in molti se non in tutti, c’erano lealtà e disposizione in buona misura.

 


 

Io sono entrato nel mondo dei sensi

portando con me l’eredità del pensare,

la forza di un Dio, mi ha condotto

dentro la morte,

essa sta al termine della via.

Io vorrei sentire l’essere del Cristo.

Egli desta la nascita dello Spirito

nel morire della materia.

Nello Spirito trovo cosí il mondo

e conosco me stesso,

nel divenire universale.

 

Rudolf Steiner

 


 

Seguirono parecchi anni nei quali ebbi ripetutamente a che fare con l’im­personalità degli dèi, con il miglioramento degli uni che esaltava il peggio­ramento degli altri, e con la concezione superbuonistica della vita impegnata ad amare tutti (come fratelli), con i quali avrei per davvero potuto superare il debito di Caino che l’umano si portava dietro dalla notte dei tempi.

 

Poiché nessuna delle tre cose mi riusciva chiara e comprensibile, se non in temporanei e improvvisati atteggiamenti poetico-pindarici, decisi di fare una mossa di controprova. Stavolta sarei stato io a porre una questione che da sola, e per virtú propria, avrebbe costretto gli altri a meditare e a prendere posizione. Non era una forma sottile di vendetta, ma piuttosto la restituzione di un’emicrania ricevuta in prestito. Naturalmente dovevo scegliere un argo­mento valido, tecnicamente ineccepibile, nel quale non ci fossero trucchi, o inganni o velleità provocatorie; tutto pulito, all’acqua di rose; non avrei leso alcuna suscettibilità e, forse, avrei finalmente portato a casa la soluzione (sia pur dialettica) di un problemino sul quale m’ero esercitato non poco.

 

Esiste un mantra attribuito a Rudolf Steiner che, nella traduzione italiana, inizia con queste parole: «Io sono entrato in questo mondo dei sensi portando con me l’eredità del pensare. La forza di un Dio mi ha guidato dentro la morte; essa sta al termine della via…».

 

Domanda

 

La domanda che ora pongo a Caio, Tizio e Sempronio/a è la seguente: «A chi o a cosa riferisce il Dottore, con il pronome “essa”? È “la forza di un Dio” o è “la morte”?

 

In questo caso a me interessavano maggiormente le reazioni dei tre amici, piú delle possibili risposte, e infatti, puntualmente, queste e quelle si succedettero nelle singole interviste.

 

Tizio non entrò nell’argomento, ma mi fissò come quando aveva parlato dell’impersonalità degli dèi; poi sospirando, simile ad un insegnante deluso da un allievo in cui molto aveva sperato, disse stancamente: «Penso che rispondere a questa tua domanda sia inutile; la risposta è evidente, ma ognuno di noi deve guada­gnarsela nel segreto di se stesso» (già – mi venne fatto di pensare – tanto poi Dio riconoscerà i suoi. Ma non sempre la storia offre citazioni di cortesia).

 

Caio invece ci andò vicino, sostenendo che si trattava sicura­mente della morte; era logico che essa stesse al termine della via; in fondo cos’era questa via se non il percorso della vita terrena? «Anzi – concluse cosí – potrebbe darsi benissimo che nella traduzione, si fosse sbadatamente scambiata la parola “via” con la parola “vita”, e questo spiegherebbe l’arcano. Noi dobbiamo essere grati a tutti coloro che si sono cimentati nella traduzione dei testi antroposofici, ma non dobbiamo dimenticare che in tutto il grande lavorío fatto, sviste, incongruenze e refusi rispetto agli originali sono all’ordine del giorno».

 

Avrei voluto fargli notare che una confusione o un errore di stampa tra i vocaboli via e vita ci pote­vano stare ed erano pure accettabili, ove rimanessimo piantati nella versione italiana. Ma traducendo dal tedesco, credo sia alquanto difficile equivocare i due corrispondenti termini der Weg e das Leben e commutarli in base ad una storpiatura fonetica, impossibile nella lingua in cui furono scritti.

 

Però la soluzione offerta da Caio e l’atteggiamento che ne stava alla base mi andavano bene cosí com’erano; non feci replica e memorizzai il valore del risultato (cfr.: curioso assai, ma buono a sapersi).

 

Terzo ed ultimo tentativo di chiarimento; prevedevo che con la panacea dell’Amore universale non sarebbe stato facile trovare un esito disinteressato e oggettivo; infatti Sempronia, messa alla prova, si agitò infastidita e nervosa quanto un’indovina a confronto con un telepatico, e chiaramente snobbò il compito pòstole. «Non ci può essere un’unica risposta – disse in modo sbrigativo – perché non si può mettere un tema mistico sulla bilancia dell’aut-aut. Ma se proprio c’è un ficcanaso che ad ogni costo vuole appropriarsi dei segreti del mondo superiore, allora quell’“essa”, è evidente, non può riferirsi ad altro che alla “forza di un Dio”».

 

«E perché?» azzardai sommessamente.

 

Si vede che si era ripresa dal colpo iniziale, perché la risposta le venne fuori tutta d’un fiato come la lingua di Menelicche, e lei poté esibirsi ancora una volta sul suo cavallo di battaglia: «Perché? Ah, tu chiedi il perché?! Perché la forza di un Dio è sempre Amore!» mi gridò (o sgridò) con una punta di isterismo (immagino che avrebbe aggiunto volentieri, anche un “Pezzo di somaro che non sei altro!”). Ma non lo fece, perché a questo punto era esausta.

 

Ecco quindi il bello della diretta, che spesso i conduttori Tv (e non solo loro) cercano di costruire artificialmente nei laboratori di plexiglas e neon. Oggi, a distanza del gran tempo passato, ritengo il mio esperimento piú goliardico che genuino, e mi chiedo cosa mai avrebbero potuto proferire quei miei tre amici, a quel tempo, che dissetasse la mia anima distogliendola dai suoi grevi dubbi. Tuttavia non bisogna temere i dubbi, anche se sono importuni e qualche volta sfacciati. Rimasi per un lungo tempo in rapporto di buona amicizia con i miei tre “primi consiliori” ed altrettanto restai con i miei dubbi che, evidente­mente, richiedevano un tipo di terapia piú lungo del previsto.

 

Ho ammesso in diverse occasioni che la mia applicazione allo studio dell’Antroposofia, non è stata quella che avrei voluto, considerata l’ampiezza e il livello delle discipline interiori; a parte i testi fon­damentali di Rudolf Steiner, sui quali ho poco da ridire e molto ancora da capire, ma che tuttavia hanno favorito l’occasione di sintesi concettuali e deduzioni interessanti, la lettura delle sue tante conferenze, raccolte nella rivista “Antroposofia”, e da me lette in ordine sparso, non riusciva invece ad eliminare le problematiche che mi sorgevano via via che procedevo nell’analisi degli argomenti trattati.

 

Ma poiché la saggezza campestre (penso sempre allo zio Vincenzo) ci insegna che per far maturare le nespole abbiamo bisogno di molto tempo ed altrettanta paglia, ogni tanto, del tutto inaspettatamente, mi godevo di una qualche connessione di riflessioni, che andava a riempire le antiche lacune. Capii che lo studio richiedeva una formazione lunga e lenta (fattore tempo); essa riusciva a convertire pian pianino la segatura del cervello umano (quello mio, almeno) in paglia (fattore bioetico e zootecnico); cosí, grazie ad un piccolo passaggio propositivo, le nespole potevano maturare, per il bene di tanti e con la soddi­sfazione di alcuni.

 

training autogeno

 

Fantascienza? Pia illusione? Training autogeno? Tutto può essere. Se si allena il fisico per lungo tempo con esercizi mi­rati e specifici, il corpo si tonifica, la mu­scolatura rinvigorisce e si sviluppa; non occorre dire di piú; è una cosa alla quale ci tengono in molti, e genericamente par­lando è un bene.

 

Quelli che studiano fino a diventare dei professionisti nei loro campi, acquisi­scono, nel tempo, una capacità intuitiva, sia pure impostata ad hoc, che non può essere neppure lontanamente paragonata a quella che avevano agli esordi del loro percorso. Nemmeno questo ha bisogno di ulteriori conferme; è un dato di fatto, riconosciuto universalmente.

 

Perché mai, allora, coloro che studiano il pensiero, il fulcro, il motore dell’interiorità psichica umana, e contemporaneamente vivono un tale processo conoscitivo secondo una loro particolare adesione alla spiritualità, mantenendosi il piú possibile coerenti a tutto ciò che la disposizione e la disciplina richie­dono, dovrebbero essere meno credibili di chi pratica sport, fitness, pilates o di quanti si immergono nelle loro ricerche scientifiche dimenticando perfino se stessi e il mondo?

 

La risposta che oggi mi sento in grado di dare a me stesso e ad eventuali interlocutori, è che nella stragrande maggioranza dei casi ci siamo dimenticati la “connessione” (termine orribile, che non deriva nel modo piú assoluto dal sanscrito, ma che, purtroppo, aiuta la moderna capacità immaginativa a distin­guere un collegamento funzionante da uno inconsistente).

 

O si è perduti per il mondo oppure si è perduti nel mondo: queste, mi hanno raccontato, furono le parole con le quali Massimo Scaligero dipinse le due tensioni divergenti della seduzione animica; in senso lato, ma neanche troppo, che corrispondono all’opera indefessa di Lucifero ed Arimane.

 

La cultura ufficiale suddivide l’uomo in tre settori: fisico, psichico e mentale. Alcuni si accontentano chiamandoli volontà, sentimento e pensiero. La Scienza dello Spirito li riconosce per corpo, anima e Spirito. Approfondendo la visione, Rudolf Steiner ci insegna una quadruplice partitura che si affianca ed integra le precedenti: corpo fisico, corpo eterico, corpo animico ed Io.

 

Indipendentemente dalle specifiche frazioni, le cui denominazioni variano a seconda del livello di osservazione, ciò che ora sarebbe opportuno chiederci è: in tutto questo, dove sta la coscienza?

 

Con la Repubblica di Platone abbiamo ricevuto il primo grande affresco della connessione, almeno di quella che qui vorrei saper esprimere: la capacità cioè di armonizzare elementi disparati che per loro natura e carattere tenderebbero a restarsene separati se non opposti. Connessione, quella platonica, volta alla particolare ipotesi di amministrazione statale e collettiva, in breve, la Polis. Il suo funzionamento ideale doveva per forza di cose basarsi sull’incontro e sulla mutua solidarietà tra potere, popolo e con­cezione univoca del bene comune.

 

Il modello di 2.400 anni or sono regge bene pure ai giorni nostri: SE la popolazione elegge demo­craticamente i propri rappresentanti; SE costoro vengono scelti con l’unica meta del bene comune; SE la maggioranza trova nella minoranza l’elemento nuovo, costruttivo, ovvero il consiglio e la forza tesi al miglioramento delle condizioni di vita, a qualunque settore esse appartengano; SE quelle che oggi chia­miamo “opposizioni” si prefiggono il compito non di rovinare e boicottare le regole vigenti e in corso di formazione, ma di farsi sentire solo per apportarvi la saggezza, l’amore, la cordialità intuitiva e program­matica di cui potrebbero ancora essere carenti: allora sí, che potremmo affermare con sicurezza di vivere in un regime democratico in cui si tiene conto tanto della libertà politica nazionale quanto della tutela di ogni singola individualità che la compone.

 

Ma SE invece all’interno di quella repubblica (che in sostanza è il simbolo del mondo psicofisico per ogni singolo individuo) le maggioranze e le minoranze altro non fanno che scontrarsi tra loro, tanto nelle sedi istituzionali che nelle piazze (nella testa, nel cuore, come nel fegato e nei polmoni); SE il pensare-sentire-volere devono appena venir educati ed istruiti nel pensare-sentire-volere da qualcuno che ne sap­pia qualcosa in merito; SE l’anima vive tutte le tensioni della corporeità e impara a godersele come brame e passioni; SE il sentimento di sé decade a legittimarsi vittima di colpe altrui in base ad un senso d’innocenza talmente vile e subdolo da far arrossire Caino; SE la facoltà pensante viene compromessa dall’uso improprio di un raziocinio insano, prepotente e materialistico, tanto dissacrante quanto empio:

 

  • potremmo concederci ancora di inneggiare alla libertà, spaccando vetrine, danneggiando mezzi pubblici e incendiando cassonetti?

 

  • potremmo seriamente includere la parola democrazia nei discorsi fatti dalle autorità, nelle mani­festazioni e celebrazioni pubbliche atte ad esibire l’ottimale lavoro svolto dalle rappresentanze popolari, indirizzate tanto a garanzia di una giustizia efficace, rigorosa, tempestiva ed imparziale, quanto alla difesa dei diritti di ciascun cittadino, in cui abbia parte rilevante l’assistenza e l’appoggio ai soggetti meno fortunati e piú bisognosi della filiera sociale?

 

Dicono che i Greci dell’antichità conseguissero la catarsi nel seguire lo svolgersi delle loro famose tragedie teatrali; cosa potrebbe conseguire l’uomo di quest’ epoca, se per una volta gli venisse dato modo di osservare come e fino a qual punto sia disposto ad arrabattarsi, degradarsi, prostituirsi quotidianamen­te per non perdere quel poco di potere, prestigio e proprietà che gli è riuscito di agguantare?

 

Clown

 

Cosa succede nell’anima di un sovrano, di un capo politico, di un imperatore finanziario, di un genera­le vincitore o di una suprema autorevolissima guida religiosa, nel momento in cui scopre che sotto il manto regale, la cappa, la toga, l’alta uniforme o la palandrana rituale, indossa una tuta da saltim­banco e con essa ha dovuto eseguire sin qui tutte le piroette e le capriole valide a non farlo decadere dalla posizione conquistata?

 

Ma la catarsi è oramai un vintage, un romantico orpello che non può piú produrre effetti purificatori, essendosi nel frattempo il terreno dell’anima reso talmente arido e indurito che nemmeno le disinfestazioni aeree (o comunque provenienti dall’alto) raggiun­gono lo scopo di ripristinarne la freschezza e la fecondità.

 

Perciò la coscienza, perduta la capacità critica, fondamentale per la sua funzione, deve arrangiarsi con quel che ha, e che le pre­senta di qua un mondo esteriore, frastornante e fantasmagorico co­me un videogame ma ridotto al minimo sindacale del realismo og­gettivo e di là, un altro, stavolta interiore, completamente avulso dal primo e quasi sempre contrapposto a quello, col quale non sup­pone neppure per gioco di fantasia astratta, di poter avere rapporti diversi da quelli onirici.

 

Dopo averci riflettuto a lungo mi sono convinto che l’anima umana è paragonabile alla musica; a tutta la musica, d’ogni ordine e tipo; diciamo ancora piú in breve, ad ogni forma di fonia. La coscienza invece, la vedo come un compositore, che studia la potenzialità di quanto si muove nell’intimo della sua struttura di uomo; in questa vastissima gamma, egli ne sceglie una unica, sola porzione e la manifesta nel modo migliore trasformandola in melodia; la sua melodia. Per farlo non gli bastano le note e la scrittura degli spartiti; deve anche individuare gli strumenti e i suonatori piú adatti ad eseguire la dirittura artistica. Per finire, ove non ci riesca di persona, deve anche saper trovare un direttore d’orchestra, un interpretatore all’altezza della sua composizione che gli garanti­sca una realizzazione di nobile fattura, consona al­l’idea concepita.

 

Papaveri e papere

 

Ove una tale ipotesi sembri accettabile, provia­mo a limitare idealmente la vastità del mondo mu­sicale riducendola alle sole canzonette, e prendia­mo in considerazione quel tipo di esse che (tanto per fare un esempio discendente) va da “Papaveri e Papere” a “Yellow Submarine”, magari passando anche per “Maledetta Primavera” e “A far l’amore comincia tu”.

 

Questa sarebbe ora la gamma musicale entro cui il nostro compositore interiore (la coscienza) do­vrebbe trovare l’ispirazione artistica per esprimere al meglio (sic!) quanto gli detta la tensione crea­tiva. In piú, come strumenti, possiede soltanto una armonica a bocca, uno xilofono per bambini e una trombetta vinta in una lotteria. Non ci sono suona­tori esperti (ci mancherebbe), ma per il colmo del­la sfortuna, in qualità di direttore artistico, l’unico candidato possibile attualmente disponibile è il cogna­to disoccupato, ex suonatore di bombardino nella banda del paese. Difficile immaginare quel che ne sal­terà fuori, ma tutto fa pensare che, musicalmente parlando, non sarà un’opera di prestigio.

 

Eppure questo è, al tempo corrente, il panorama in cui la nostra coscienza, la famosa, possente co­scienza pensante critica dell’uomo moderno, è costretta a lavorare, operando scelte e decisioni (di cui alcune anche estremamente importanti), avendo a disposizione un’area animica ridotta a brandelli e – in contemporanea – restando fermamente convinta che essa rifletta integralmente l’intera realtà di un mondo supposto veracemente oggettivo.

 

Una leggenda della tradizione ebraica racconta la storia di un Dio, che compiuta l’intera Creazione, chiamò a Sé i rappresentanti d’ogni ordine spirituale, chiedendo loro di dare i nomi alle cose create. Non essendoci risposte, Egli chiamò allora la Creatura-Uomo, e questi si mostrò in grado di pronunciare, per ogni singola forma esistente, il suo proprio nome.

 

Non mi fa piacere terminare un articolo con una conclusione di tono canzonatorio e per nulla costrut­tiva, ma qualche volta succede che l’anima umana, imbattutasi nella sua verità, subisca uno shock benefi­co e quindi tenti un recupero d’emergenza. In questo caso, piú forte sarà lo spavento, piú decisivo sarà il ripristino della funzione cosciente.

 

Da quotidiani economici recenti:

 


 

«Oggi la DIRGEN. della FIOM.CGIL con appoggio COBAS ha chiesto al MEF il deposito del PNRR, per l’assegnazione dd. RECO-FUND, estratti secondo reg.to UE; ADN-KRONOS considera condizione di non esclusiva la FAKE NEWS di EURISKO opponibile al trattato SCHENGEN mentre il CEO di FCA è intervenuto post SUMMIT astenendosi in quanto la Commissione BIPAR ha accettato via FB la deparificazione COVIR avanzata dalle Delegazioni MS5, Pd, Ppl, Psde, in seno al PARLAEURO; conseguentemente sono rimandati al CIP del MISE gli emendamenti NOTAX per i Paesi del Gruppo VISENGRAD sui derivati NASDAQ».

 


 

Come si vede, dai tempi antichi, in cui l’uomo seppe assegnare alle cose il loro nome, abbiamo fatto notevoli progressi e adesso non ci fermiamo piú.

 

 

Angelo Lombroni