Il primo incontro con l’altro avviene spesso in maniera difensiva: si reagisce con sospetto, dubbio, reticenza, chiusura. Avere una considerazione positiva della persona nel momento in cui la conosciamo, è divenuta cosa sempre piú rara. Solo dopo un periodo di palesi dimostrazioni di una sua disposizione all’accordo, alla collaborazione, a volte persino all’affetto, cadono le barriere che avevamo alzato nei suoi confronti.
È certamente una forma di difesa, scaturita dalle difficoltà che nascono già nell’iniziale forma di socialità della scuola, o della villa comunale dove s’incontrano altri bambini e a volte ne scaturiscono litigi, soprusi, rifiuto, scherno e persino violenze. Anche se poi, nell’adolescenza, s’impara il significato dell’amicizia e del prezioso scambio di sentimenti che ne deriva.
Il maggior problema da superare, che cresce con l’età e l’esperienza, è il giudizio che inconsciamente formuliamo in noi della persona che incontriamo. Guardiamo il suo aspetto, il suo modo di porsi, i suoi vestiti, il suo look, come oggi viene definito. E immediatamente sorge in noi la critica, la diffidenza. Cosa vorrà da me? Perché si veste cosí? Perché non guarda dritto negli occhi? Perché non sorride? E tanti altri perché negativi, che danno dell’altro un quadro poco rassicurante.
Chi segue una via spirituale deve superare questo atteggiamento che sente albergare dentro di sé e contro cui sa che è necessario lottare. L’esercizio della “spregiudicatezza”, o assenza di pregiudizio, è indirizzato proprio a questa tendenza spontanea che va affrontata e vinta. A corollario, vi si aggiungono quello della positività e della equanimità. Questi esercizi sono in genere compiuti volontariamente, in momenti ad essi dedicati. Ma come portare l’assenza di pregiudizio nel quotidiano?
Un esempio di quanto istintivamente si presenti alla mente il giudizio dell’altro, mi riporta a un episodio della mia vita che si è verificato all’inizio degli anni Novanta. Accompagnavo spesso mio marito al lavoro, al centro di Roma. La macchina non poteva superare la barriera del cosiddetto “Tridente”, le tre strade che dalla centrale Piazza del Popolo portano al “cuore pulsante” dell’Urbe. Quindi lasciavamo la vettura al Lungotevere, o alla Passeggiata di Ripetta, e proseguivamo a piedi. All’andata, insieme, parlavamo camminando affiancati, e poco mi guardavo intorno, immersa nella conversazione, sempre interessante e stimolante.
Al ritorno però ero sola, e lo sguardo andava al multiforme aspetto delle persone che facevano lo “struscio” in via del Corso. La maggior parte veniva in senso contrario al mio, e potevo osservare ognuno di loro con attenzione. Erano per lo piú ragazzi che dalla periferia, con la metropolitana, raggiungevano il centro e i negozi chiaramente a loro dedicati, con le vetrine scintillanti e i prezzi piú che abbordabili: jeans, felpe, camicie, T shirt, scarpe sportive, abiti da donna, il tutto made in China, in India o in Pakistan, ma rietichettati da ditte di abbigliamento italiane. Seduzioni a buon prezzo in un incarto di lusso.
La fauna umana aveva qualcosa di grottesco nelle manifestazioni che la moda aveva imposto in quel periodo: le ragazze calzavano alti zatteroni su cui bilicavano con evidente difficoltà, i ragazzi innalzavano sulla testa creste di capelli laccati o gelificati. Li guardavo con diffidenza e li consideravo, nel complesso, piuttosto grossolani e volgari nelle manifestazioni esagerate dei pesanti scherzi che si scambiavano, fra gesti e toni di voce esagerati. Non frapponevo, tra l’istintivo giudizio negativo e la coscienza, quel distacco necessario a vedere con occhio benevolo chi mi stava davanti.
Ma all’improvviso accadde qualcosa. Intorno a me l’aria s’illuminò di un candore che tutto pervadeva, e subito dopo cominciai a vedere le cose in modo assai diverso. Mi accorsi che quei giovani avevano al centro del petto una cavità in cui risplendeva una fiammella. Qualcuna era piú grande altre piú piccole, ma tutte palpitavano, vive e luminose. Nessuno di loro si accorgeva di averla, né vedeva quella degli altri. Avrei voluto dirlo, proclamarlo a gran voce, renderli consapevoli del tesoro che avevano, ma ero solo incantata a osservare la meraviglia che mi era apparsa. Una voce intanto mi diceva con dolcezza che quelli che vedevo erano dei “tabernacoli”, e che ognuno aveva il proprio.
Un grande calore, una forte sensazione di amore mi prese a quella vista e a quelle parole. Quando l’immagine si chiuse e tornai alla visione normale, sentii che quell’amore per tutte le creature era rimasto in me e mi faceva vedere ognuno di loro in maniera diversa. Avrei voluto abbracciarli, li vedevo belli, ciascuno a suo modo: tutti celavano in sé il proprio tabernacolo, in tutti una fiamma ardeva nel petto: «In loro era la luce e la luce era la vita degli uomini»…
Mi era stato dato un grande insegnamento. Invece di redarguirmi per l’errore, mi era stato mostrato che non avevo guardato con occhi puri la realtà che si nasconde dietro l’apparenza.
Non ho piú dimenticato la lezione, e ho ringraziato il Cielo di avermela impartita.
Vedere il buono nell’altro, il positivo, il promettente, ci pone nella migliore disposizione d’animo verso il nuovo, il diverso.
E se in cambio della nostra disponibilità e accettazione riceviamo un torto, uno sgarbo, una slealtà, un raggiro, una malvagità, ricordiamo sempre che, nonostante tutto, al centro di quell’individuo che ha agito in maniera malevola, c’è comunque quel tabernacolo. Lui non lo vede, ne ha oscurato l’immagine e la consapevolezza, ma noi sappiamo che prima o poi quella luce tanto affievolita potrà tornare a brillare nel suo petto.
Questo pensiero ci confermerà nella fiducia che il Bene è destinato, per sua stessa natura, a trionfare sul Male, perché la Luce non può che vincere la tenebra.
Marina Sagramora