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Considerazioni

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William Dyce «Paolo e Francesca»

William Dyce «Paolo e Francesca»

 

Dicono che le parole volino e che quelle scritte ri­mangano. Ne siamo sicuri? Secondo me l’argomento è tutto da approfondire. Ci proverò, ma com’è mio uso, la prenderò alla larga.

 

Dicono pure che in ogni vita terrena ci sia la pos­sibilità di incontrare il grande amore. Non un amore abbastanza o esageratamente grande, ma proprio il “Grande Amore”, quello che fa impallidire gli altri, li rende tiepidi, friabili, e tuttavia ne diviene il segre­to ispiratore, il traguardo, l’anelito, fino a che raccon­ti, storie e fiumi di parole stampate o cantate non arre­stino il processo di sublimazione idealistico, ed il bel sogno, gravato cosí da troppi followers, non si estingua nei complicati arabeschi della magia dialettica.

 

Dicono anche che, pur stando all’interno di una unica esistenza, sussistano piú vite; e per spiegare meglio l’antitesi, si portano esempi di come il mon­do intero cambi, e noi con lui, a seguito di accadimenti (esteriori o interiori, e a volte i primi non escludono i secondi) causanti uno stravolgimento talmente radicale, al punto da far dire al soggetto in questione: «Io non sono piú quello di prima».

 

Secondo me una simile scoperta è in gran parte emotiva, non ha base biologica su cui fondarsi. Se tiriamo fuori il vecchio album delle fotografie di famiglia e osserviamo progressivamente quelle che ci ritraggono da bimbi, poi da ragazzini e infine da adulti, dobbiamo ammettere con una certa fer­mezza che non c’è un momento, neppure uno, del nostro passato, in cui poter sostenere d’essere per­fettamente identici al momento precedente.

 

Discorso ben diverso invece, per quanto riguarda gli stati d’animo, in relazione alle età, ai luoghi e alle situazioni. Ma quelli non si riducono a pixel, né si stampano dai file (non ancora, almeno).

 

Pare che il divenire della corporeità abbia a svolgersi in tempi piú veloci, e soprattutto meno evidenti, che non lo sviluppo dell’interiorità umana; vale a dire il binomio “anima+coscienza” si prende a volte tempi lunghissimi per fare qualche passetto verso la propria maturazione. Risulta, per i piú, facile trovarsi con i capelli bianchi (o anche senza capelli) e contemporaneamente avere nei confronti della vita un atteggiamento che andava bene quando vestivamo alla marinara, ma che, da senescenti inoltrati, non può funzionare; anzi, diventa grottesco (non sarebbe il danno maggiore) e crea serie distorsioni ai fini di un’obiettiva visione del mondo (e questo è già un bel problema).

 

Un tale ragionare tralascia però un’alternativa: la piú sorprendente di tutte, ma anche la piú facile da dimenticare; ed è per tale motivo che fior fiore di pensatori ci gira attorno senza mai venir fuori dal rompicapo; ché gli assunti presi in considerazione mai avrebbero potuto far volgere lo sguardo degli indagatori nella direzione giusta.

 

Spiegazione: se si vuole davvero affermare che esiste un amore sublime e possente, e che esso si presenti per almeno una volta, anche una sola, in ogni esistenza umana, bisogna prima convenire sul fatto che a ciascuno di noi non viene dato da vivere un’unica esclusiva vita terrena. Altrimenti l’assunto iniziale si presterebbe ad un insensato gioco di parole che nessuno avrebbe mai sostenuto.

 

Per convincermi su questo punto fondamentale ci ho messo il tempo che serviva, ma una volta trascorso, ricredermi è diventato impossibile. Nella mia esperienza personale mi sono imbattuto in due riscontri conoscitivi che mi hanno aiutato in modo preponderante a conquistare la percezione sopra citata: il primo, tratto dalla Bibbia, è alla portata di chiunque lo desideri, ed è rappresentato dalla conversione di Saulo/Paolo sulla strada per Damasco.

 

Icona «Conversione di Paolo»

Icona «Conversione di Paolo»

 

Qui abbiamo il caso (portentoso, ma fino a un certo pun­to) in cui il Divino irrompe nell’Umano e di conseguenza lo riedifica dalle fondamenta. Se vogliamo possiamo definirla una Rinascita dall’Alto, o un Battesimo col Fuoco, o un In­contro con l’Io-Sono di tutti gli Io dell’umanità.

 

Il secondo è un piccolo frammento che fa parte della mia biografia; riguarda mia madre, allorquando, nel giugno del 1945, le venne notificato dalla Croce Rossa Internazionale di essere rimasta vedova. Da quel momento in poi, lei non fu piú la donna di prima ed il sottoscritto, pur a quel tempo non avendo raggiunto i 24 mesi di vita, ne ebbe la sensazione pre­cisa, sebbene, ci tengo a puntualizzare, lei continuò ad esser­mi madre nel miglior modo che le riuscí, data la premessa.

 

Si potrebbe pensare che i casi riportati – l’evento di Saulo e la vedovanza di mia madre – siano talmente disomogenei tra loro da risultare inconfrontabili in quanto mancanti di una ratio comune; ma le ratio a volte sono come certi pietroni del Carso sprofondati nel terriccio: sul momento sembrano inamovibili nonostante gli sforzi e i sudori profusi dal vigore fisico degli sterratori; poi, per un improvviso cedimento del suolo o per una sorta di friabilità nel reticolo calcareo fino allora nascosta, si smussano, cedono e si lasciano ribaltare, anche da una folata di bora piú robusta delle altre.

 

Dal caso di mia madre, potei, in seguito, trarre l’esperienza che la perdita di un amore, acceso e non consunto nei crudi ritagli della guerra appena cessata, equivale ad una morte dell’anima, la quale sceglie istintivamente di ignorare la forza della sua perennità, e di immolarsi nel lutto di un vissuto, cui non sa dare altro nome che “la Disgrazia”. Sento il termine molto veritiero anche nel senso filo­logico: se non c’è la Grazia restiamo nella “dis-grazia”. L’ effetto è duplice: se il soggetto è pronto e si presta, allora l’accaduto si dà in tutta la sua potenza risolutrice e salvifica; altrimenti viene subíto nel macero dell’ineluttabile, e i tempi della maturazione si allungano a dismisura.

 

Quello che importa trarre dai casi negativi, è giungere alla comprensione di essere stati sottoposti ad una grande prova e di esservi giunti senza una specifica preparazione interiore. Non è certo una autocondanna, e neppure una umiliazione da riconoscere, ma può diventare un insegnamento foriero di karma futuro.

 

È interessante constatare come la velocità che impieghiamo per trasportarci dal presente ai mo­menti del passato, sia in genere inversamente proporzionale a quella con cui incontriamo quel che non è ancora accaduto, ma che già si sta profilando all’orizzonte degli eventi.

 

Il legame col passato, ovvero i ricordi, si fonda sul sentire, e non c’è nulla al mondo che lo schiodi da lí, mentre invece la prospettiva di andare incontro all’ignoto, o quanto meno al poco conosciuto, crea sempre disagi ed esitazioni che di certo non aiutano la disponibilità interiore a farsi avanti.

 

Da parte mia ammetto che da un bel po’ di tempo in qua ho trovato qualcosa che assomiglia molto alla scoperta dell’acqua calda; anch’io tendo a viaggiare a due velocità: nell’ascoltare (e intendere) me stesso sono molto piú lesto e sollecito che non nell’ascoltare (e intendere) gli altri.

 

Voglio tuttavia precisare che qui per “parlare” e per “intendere”, mi riferisco ad un livello ordi­nario a cui provvede normalmente la natura ed una organizzazione umana integra o, quanto meno, non alterata da una cattiva gestione di sé.

 

Perché per capire qualunque cosa, dobbiamo prima parlare con noi stessi, e mentre ci parliamo, non badiamo assolutamente da quale parte di noi provengano le parole. Sbagliato: esse hanno un valore, un peso, una essenza che spesso è lontana dalla veste, dalla forma e dal senso in cui ci appaiono avvolte.

 

Ci si può confondere, ascoltando i discorsi altrui; ma è il colmo equivocare in un colloquio inte­riore. Eppure anche questa è una possibilità. È capitata a me, ma potrei trovare compagnia.

 

Riporto qui di seguito tre brevi esperienze che mi hanno portato a capire una legge interiore estre­mamente importante, anche se non l’ho ancora letta da qualche parte nel modo che mi sarebbe stato utile nel momento del bisogno: «Se il cuore non ti dice di sí, la sola mente non riuscirà a convincerti».

 

Espongo rapidamente: ero un ragazzino; stavo a colazione dai miei zii, assieme a mia madre ed ai cugini (molto maggiori di me); uno già laureato, narcisista e vanitoso; l’altro, maestro di scuola elementare, chiacchierone e sfaticato. Tra una cucchiaiata di minestra e l’altra, il chiacchierone rac­contava la storia personale, di un suo scampato pericolo nel periodo bellico recentemente trascorso. Finí dicendo che nel momento in cui si sentí in salvo, gli era apparsa la Madonna. E lo disse ridac­chiando con un sorriso compiaciuto, mentre, da dietro gli occhiali, studiava orgoglioso l’effetto del racconto sugli uditori. Ancora oggi ricordo che ci rivelava il fatto con la bocca piena di minestrone.

 

Anni or sono, un’ amica, partecipe da tempo agli incontri del nostro gruppetto dedito alla Scienza dello Spirito, a seguito della dipartita di uno dei soci piú anziani, consegnò a ciascuno di noi una foto. Volle spiegarci che, dopo aver a lungo meditato sullo scomparso, aveva osservato nel caminetto di casa, il formarsi di piccoli tizzoni rimasti ancora accesi, e disposti nella cenere in modo da formare il disegno di un cuore. Colpita dal fatto insolito, li aveva fotografati. Affermò d’essere certa che si trat­tava del ringraziamento che l’amico defunto rivolgeva, suo tramite, a tutti noi per la partecipazione e l’elaborazione del lutto.

 

Dagli anni ‘90 sono in corrispondenza, anche telefonica, con una persona meravigliosa; abita pure lui in una città di mare, però in Toscana; è piú giovane di me di alcuni lustri; secondo i medici curanti non è in grado di ragionare correttamente in quanto – dicono – il suo cervello ha subíto, in epoca gio­vanile, dei traumi che gli hanno impedito uno sviluppo normale. È un uomo dal cuore d’oro, come si suol dire, artista eclettico e poeta delicatissimo; certamente parlando con lui si scopre la sua fragilità ancora infantile, ingenua ma piena di gioia e di purezza. Ha vissuto praticamente tra Chiesa e fami­glia e i suoi rapporti con il mondo si sono formati con il suo saltuario lavoro di magazziniere in un deposito di materiali per costruzioni.

 

Volto Cristo

 

Durante i giorni dell’ultima festività pasquale, mi ha in­viato una immagine particolare tramite posta elettronica: in un cielo bianco pieno di nuvole azzurrine, alcune erano di­sposte formando l’immagine di un volto nitido e ieratico, che poteva ricordare una delle tante raffigurazioni attribui­bili al Cristo Gesú. Aveva accompagnato l’invio con una bre­ve frase (riferita al problema dell’epidemia contagiosa che ci fa compagnia da piú di un anno): «È Lui, è comparso in cielo per dirci che andrà tutto bene!».

 

Le tre reminiscenze sparse negli anni della mia vita (dal dopoguerra ad oggi) hanno provocato in me sintomatologie differenziate; a seconda di come, nel frattempo, crescevo, dentro e fuori, cominciando a capire e a valutare. La tendenza di base fu, dapprima, la derisione. Con l’“appoggio”, chiamiamolo cosí, di ami­ci, compagni e altri adulti (a seconda dell’età raggiunta ma comunque immaturi quanto me) usavo queste storie per farne delle gag. In sostanza, ridicolizzando, cercavo di uccidere sul nascere quel senso di compassione, solo mediante il quale è possibile arrivare a comprendere l’altro, i suoi motivi e le sue ragioni; le quali, quando non vengono espresse con la veemenza della presunzione, sono al­trettanto rispettabili quanto le nostre.

 

Seguí poi un periodo lungo di decantazione. Non ne parlavo piú, anzi, provavo come un certo fasti­dio a ricordarle: comunque continuavo a tenerle nell’archivio segreto sotto la voce “Scemenze e Varie”.

 

Alla fine (ma non c’è mai una fine, ci sono solo tantissime “svolte” che possono venir vissute piú o meno intensamente, con o senza profitto) approdai da “naufrago/entronauta” al lido del Dottore, all’Antroposofia, ove tutto mi si ricompose in una nuova versione. Dal momento che essa riguardava la “parola” umana messa a confronto con quella Divina (Verbum) dovrei dichiarare immediatamente che non ho piú nulla da dire (tanto meno da scrivere) perché ogni fiato emesso da una gola d’uomo (o vergato dalla sua mano) è ancora eco acerba, grafia informe, deformazione sonora, rumore se non frastuono; null’altro.

 

Parliamo, parliamo, scriviamo, leggiamo e poi contestiamo, deduciamo, supponiamo, e ci perdiamo in un mare di voci che asseriscono la mitica grandezza del tutto e la tragica miseria del niente, po­nendoli al medesimo livello, come fossero due elettrodomestici da acquistare e cercassimo di sco­prirne vantaggi e svantaggi, dai dépliant delle relative pubblicità.

 

Nutro la sensazione (e mi fa sentir bene nutrirla) che sarebbe di grande utilità per il mondo, im­parare a tacere e ad ascoltare. Ma questo imperativo è incondivisibile, lo so; lo ripropongo come pro­vocazione al retto pensare. Quanto meno per il mio.

 

Non mancheranno gli interventisti «Ma – ribadiranno – se stessimo tutti zitti, che ci sarebbe da ascoltare?». Dal punto di vista materialistico la domanda non fa una piega; dal punto di vista filo­sofico, psicologico e spirituale, metterebbe in crisi la piú abile delle stiratrici.

 

Immaginiamoci un consiglio di ministri, un vertice di economisti, un summit di scienziati, filosofi e religiosi, immersi nel piú profondo silenzio per tanto tempo quanto lo si sarebbe perduto in dispute e accanimenti verbali.

 

Immaginiamoci C.d.A. di industriali, riunioni sindacali, assemblee di partito o di condominio, e quant’altro del piccolo e del grande livello, intenti a gareggiare sul chi riesce a tacere piú a lungo.

 

Crediamo davvero che sia tempo sprecato? Crediamo che i problemi dell’umanità si risolvano a parole? A chi dice il meglio, a chi grida di piú, a chi starnazza piú a lungo degli altri?

 

Il silenzio voluto non è mai fine a se stesso: è solo un mezzo per poter avvertire in modo corretto Colui il quale, da dentro ciascuno di noi, crea la Parola, si identifica nella Parola. L’unica vera Parola. Lo Spirito parla, la materia risuona. Né potrebbe fare diversamente.

 

Poniamoci una questione attualmente emersa, e poi subito rientrata, ma non per questo insignifi­cante: c’è stata, a livello europeo, la proposta di “abolire” la parola Natale dai consueti discorsi di fine anno e di sostituirla per l’appunto con la circonlocuzione generica di “festività imminenti”. Si è trattato di una sbandata d’amore fraterno per quanti non contemplano il Natale, oppure è stato un sintomo di disagio interno alla comunità, che sostiene di essere cristiana, ma teme di spingersi troppo oltre con le esternazioni confessionali?

 

Dopo avere per secoli devastato il pianeta, saccheggiato la natura, distrutto civiltà, ucciso e mas­sacrato quelli che ci davano disturbo, siamo adesso diventati talmente sensibili da non ammettere pubblicamente la nostra eterosessualità, per timore di ledere la suscettibilità di quanti si trovano in una situazione diversa? Va bene sentirsi democratici, va bene rispettare le minoranze, ma c’è un limite di ragionevolezza in tutto. Se si va avanti cosí, arriveremo al punto in cui i carabinieri non potranno prendere un caffè in un bar notoriamente frequentato da malavitosi.

 

Foglie cadute

 

Prima delle parole dovrebbe venire il pensiero; la legge della buona regola vale per cristiani, pagani, atei e miscredenti. E per qualche altro migliaio di diversificazioni frastagliate, dato che, una volta cadute dall’albero, le foglie, mischiate dal vento, smar­riscono il senso d’origine.

 

Legge che non si può tuttavia promulgare; si correrebbe il ri­schio di trovarci tutti d’accordo e l’indice di disoccupazione sali­rebbe alle stelle, a causa del numero di demoni che, all’improv­viso, si troverebbero senza lavoro.

 

Col restare immobili dentro al proprio silenzio, incomincia la possibilità di zittire (temporaneamente) le Forze Ostacolatrici e iniziare un colloquio interiore con quella intima parte che non abbiamo mai creduto totalmente di essere, e che tante volte abbiamo cercato all’esterno, nel mondo delle cose, degli oggetti, delle rap­presentazioni, sempre di corsa, con affanno, e sempre delusi del risultato.

 

Il silenzio (quanto meno il silenzio di cui desidero trattare) permette di metterci in ascolto, nella giusta, corretta posizione: nel flusso del pensare, infatti, scorre una forza sovrumana che alimenta l’umano e senza la quale è molto facile decadere, qualunque sia il livello conquistato dal valore del­l’intelletto o dal vigore fisico o dall’impegno volitivo.

 

Ho confessato di aver deriso alcuni amici e compagni di via, solo perché la leggerezza e l’inge­nuità che fuoriusciva dai loro racconti mi nauseava. Credevo doveroso vergognarmi per loro, per aver indegnamente trattato di cose la cui elevatezza sarebbe stata, ai loro occhi, impraticabile perché incomprensibile; mentre per me, era la conditio sine qua non per accedere ad un livello in cui alla voce umana veniva concessa la possibilità del dire. Nel gestire queste vicende provavo un mix di sentimenti contrastanti ma finalizzati ad un’unica meta: ero irritato, disgustato e disilluso perché adesso, mi accorgevo della loro… come dire? Superficialità? Stoltezza? Dappocaggine?

 

Oggi mi risulta semplice capire che se in quelle occasioni ci fu un superficiale, uno stolto, un dappochista da criticare, quello fui proprio io: messo alla prova del nove, avevo, per tre volte, fallito clamorosamente, senza saperlo. Sono riuscito perfino a godere della mia alterazione, scambiandola altezzosamente per oltraggio a lesa maestà. Una tristezza infinita!

 

È vero che per conoscere bisogna prima sapere, ma se vado incontro al sapere armato solo delle lacune della mia ignoranza, sarà difficile ottenere traguardi lucidi e obiettivi. Chi si vuole addentrare nel mondo dell’indagine conoscitiva, o lo fa con la modestia e la pazienza che ci vogliono (e che in tal caso valgono piú del coraggio), oppure sarà costretto a emettere giudizi, sentenze e fare delle scelte che solamente il suo carattere potrà ritenere libere. Me lo dico da me.

 

Naturalmente la cosa ora importa poco; si possono fare delle piccole riparazioni (non tutto è ripa­rabile, ma qua e là c’è sempre qualcosa), si possono fare delle rettifiche e prendere dei provvedimenti per quel che riguarda l’atteggiamento interiore rivolto al futuro.

 

La sintesi preziosa ricavata, grazie soprattutto all’ammaestramento della Scienza dello Spirito, è che, nei casi citati, mentre ascoltavo le parole proferite dagli altri (che mi risuonavano come corbelle­rie o poco piú) io non m’ero posto in ascolto; tutt’altro, già dalla prima voce, dal primo movimento, a chi mi veniva a chiedere soltanto la carità di essere sentito, io opponevo (direi quasi brutalmente) il mio immediato giudizio e la definitiva condanna.

 

Questo solo per l’unica ragione che il modo di esprimersi e di raccontare di quella o quelle per­sone, mi risultava sgradito, mi turbava la digestione e in buona sostanza, per dirla col Manzoni ren­deva piú agitato il diavolaccio che mi abitava (non sono certo al 100% di averlo indotto a sloggiare, ma per lo meno l’ho costretto a cambiar tattica).

 

Operatore di luce

 

Le parole degli altri erano come spazzatura, le mie invece brillavano di una luminosità che oggi posso de­finire “sinistra”. E il non saperlo di allora non merita l’assoluzione di oggi. Se avessi fatto un po’ di silenzio interiore ed avessi accolto quei poveri racconti di vita vissuta alla stessa stregua con la quale si apre la porta a chi bussa per necessità impellenti, forse le mie conside­razioni avrebbero preso un’altra strada e invece di star qui a confessare sulla carta le mie piccolezze, sarei po­tuto andare incontro al Natale in modo diverso, magari con l’anima un pochino piú serena.

 

Ho nominato poc’anzi l’indignazione; abbiamo una sfilza di esempi storici che in vari modi cer­cano sempre di giustificarla. In Spagna, pochi anni fa, se ne creò addirittura un movimento politico, mentre nel nostro paese non ne abbiamo bisogno: ognuno è già sufficientemente indignato di suo, e non da oggi. Se però vai a spiegare a quanti manifestano la propria (personale) indignazione, di avere dei seri dubbi sulla validità di un risultato positivo della protesta, partendo dall’idea polarmente opposta del “Chi sono io per giudicare?” ti accusano di codardia, di barcamenarti senza costrutto e di non volerti schierare apertamente (con loro, s’intende).

 

Che la proverbiale virtú stia nel mezzo? Stare nel mezzo significa rinunciare a priori ad ogni for­ma di estremismo. Eppure io conosco l’indignazione e – almeno la mia – non mi ha mai portato qual­cosa di buono. Quando finisce l’ondata, lo sdegno, il rifiuto, mi ritrovo sempre peggio di prima ed in piú depauperato per le energie sprecate al vento del solipsismo. Anche quando si conclama in molti, ogni ego è solo, e forse, in quei casi, piú solo che mai.

 

La parola indignazione nasce tuttavia dalla parola “dignità”; allora il problema si può ribaltare nel senso che la domanda vera è (o dovrebbe essere): «Ma io sono poi cosí degno da permettermi di provare indignazione? O sono soltanto una mezza calzetta che aspira ardentemente a diventare una calzatura di lusso e che intanto viene sobillata ad arte e proiettata in voluttà di sommosse artefatta­mente libertarie, dirette da forze malefiche che mi manovrano a loro piacimento o quasi?».

 

Chi pone l’anima al cospetto di una domanda del genere, è in grado di ricordare immediatamente, se non altro per una sorta di abbinamento ispirativo, le parole: «Signore io non sono degno, ma di’ soltanto una Parola e l’anima mia sarà salva».

 

Quante volte l’abbiamo sentita, quante volte l’abbiamo sussurrata, nei riti liturgici, nella intimità della confessione, nei pericoli della vita, nelle situazioni senza uscita. Con tali parole, speranzosi, chiedevamo perdono, grazia, tregua, comprensione ad una Forza soprannaturale di cui sappiamo poco, ma di cui ci hanno garantito la presenza e la potenza; anzi, l’onnipresenza e l’onnipotenza (del­l’ onniscienza ci è sempre interessato meno, forse perché avevamo la sensazione che si trattasse di un optional esclusivo del Mondo Celeste).

 

Accollata

 

Se i miei tre interlocutori di cui ho descritto le storie fossero qui ora, davanti a me, ad illustrare in una semplice vignetta, senza pretese, la corretta posizione di un’anima che si pone dinanzi a Colui che ha veramente diritto alla Parola, come se la sarebbero raffigurata?

 

Non lo so; tento di farlo al posto loro: la centrerei in uno scenario medievale, tipo “la Corte di Re Artú”. Vedrei l’ani­ma dell’uomo simile ad un Cavaliere inginocchiato davanti al suo Signore, la mano destra presso l’impugnatura della spa­da, il volto composto, sereno, compreso dell’impegno da assu­mere e della sua portata. È sicuro di sé, consapevole di quel che sta per fare.

 

Solo cosí, in un vissuto immaginativo come questo, le pa­role: «Signore, io non sono degno, ma di’ solo una Parola e l’anima mia sarà salva» cominciano ad avere un senso com­piuto e inequivocabile. Il ricordo d’averle proferite, in quel modo e in quella circostanza, non ci abbandonerà mai.

 

Perché l’intelletto può predisporsi all’impresa solo dopo che nel cuore si è accesa la fiamma della poesia epica. Avvinti cosí ad un’unica mèta, diventano il Coraggio di Amare oltre se stessi. Non è cosa di tutti i giorni. È il modus con il quale, da lassú, Qualcuno ci ama da sempre. Qualcuno che non ci ha mai spronati alla rivolta iniqua, all’indignazione stracapita, alla serragliata in clan, tribú, fazioni o partiti. Qualcuno che non ci ha mai obbligato a prendere una posizione definita, in questo mondo dove ogni posizione definita vale fintanto che ce n’è un’altra a farle da riferimento e tenerla in gioco.

 

Qualcuno che ci dona di continuo la Grazia del Pensiero, affinché, articolandolo prima d’ogni al­tra cosa, nelle espressioni della vocalità, diventiamo capaci di trasmettere l’armonia e la gioia di vi­vere l’un per l’altro.

 

Verbatim!

 

 

Angelo Lombroni