Franz Kafka

Letteratura

Franz Kafka

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Franz Kafka

 

Il racconto “Metamorfosi”, il piú famoso di Franz Kafka, venne concepito e scritto nel 1912, anno particolarmente intenso per la letteratura tedesca, lo stesso della pubblicazione di La Morte a Venezia di Thomas Mann e della composizione della prima Elegia di Duino di Rainer Maria Rilke.

 

Kafka era nato il 3 luglio 1883, a Praga, in una famiglia ebraica che apparteneva alla minoranza germanofona, ormai contestata, anche violentemente, dai cechi, che non tolleravano piú i loro privilegi sociali e culturali. L’incidenza di questa singolare costellazione pesò per tutta la vita, originando quel sentimento di colpa, di esclusione, di minorazione, per altro diffuso tra gli esponenti della sua generazione nella Praga ebraico-tedesca. È noto il rapporto difficile con il padre, abbastanza emblematico per il suo tempo, come conferma l’interesse, assai critico, di Kafka per la psicoanalisi, cui dava, tuttavia, un’interpretazione molto personale e originale, considerandola quale una manifestazione dell’epo­cale crisi della identità ebraica, come scrive in una lettera, restata incompiuta, all’amico Brod: «Piú che la psicanalisi mi piace in questo caso la convinzione che questo complesso paterno, del quale taluno si nutre spiritualmente, non riguarda il padre innocente, bensí l’ebraismo del padre. La maggior parte di coloro che cominciarono a scrivere in tedesco volevano allontanarsi dall’ebraismo, per lo piú con il non chiaro consenso dei padri (rivoltante era questa mancanza di chiarezza), volevano bensí, ma con le zampette posteriori erano ancora attaccati all’ebraismo paterno e con le anteriori non trovavano un terreno nuovo. La conseguente disperazione era la loro ispirazione» [cit. in F. Kafka, Lettere, Mondadori, Milano 1988].

 

Kafka Lettera al padre

 

La colpa era intrecciata all’ebraismo come abissale appartenenza; veniva vissuta come un nodo determinante della sua scrittura. La colpa, sempre connessa col legame col padre, paradossal­mente risulta da una accusa che si ritorce contro se stesso, come traspare da un altro testo assai celebre dell’autore: Brief an den Vater (Lettera al padre), scritta nel 1919, ma mai consegnata al destinatario e pubblicata solo nel 1952 dall’amico Max Brod, suo primo editore. Già dall’inizio si percepisce l’in­sostenibile tensione che connotava il suo rapporto col padre, un commerciante della provincia boema, che, sostenuto fin dal­l’adolescenza da una forte volontà di lavorare, aveva fatto fortuna a Praga aprendo nel 1882 un’elegante merceria, determinato ad affermarsi nella borghesia ebraico-tedesca della città. Già dall’incipit affiora uno dei grandi temi della sua scrittura: la paura: «Mio caro papà, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di aver paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che Tu mi incuti, un po’ perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E se anche tento di risponderTi per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché anche nello scrivere mi sono d’ostacolo la paura che ho di te e le conseguenze, sia perché la vastità del materiale supera di gran lunga la mia memoria e la mia intelligenza [Franz Kafka, “Lettera al padre”, in Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1988].

 

La paura è strettamente collegata al senso dell’angoscia e della colpa che traversa la sua opera: è un tema inesauribile e affascinante, che abbraccia la crisi dell’identità ebraica di quel tempo, come pure l’incipiente fine dell’età d’oro dell’espansione sociale ed economica della borghesia, sempre piú traversata dai sintomi della decadenza, raffigurati magistralmente nel 1901 dai Buddenbrook manniani. Come ha annotato Walter Benjamin, filosofo berlinese di origine ebraica, nel suo saggio su Kafka, nell’autore praghese si ripercuote il timore di essere senza speranza inadeguato nei confronti dell’identità ebraica, connotata dalla Legge mosaica, dalla simbolica figura del Padre, ma anche dalle aspettative deluse del padre borghese, che non poteva accettare la debolezza di un figlio che non mostrava alcun impulso a proseguire la sua opera di avanzamento e consolidamento sociale ed economico. Un duplice fallimento che si traduceva in un insuperabile senso di colpa piú percepito interiormente che ancorato a criteri realistici. Kafka si era laureato, successivamente diventò un funzionario, vieppiú stimato, dell’importante istituto per gli infortuni sul lavoro del Regno di Boemia, dunque di una struttura imperial-regia, dell’Impero Austro-Ungarico. Inoltre aveva già incontrato l’apprezzamento degli ambienti letterari, quelli dell’avanguardia espressionista, i piú vivaci del­l’epoca, anche se per tutta la vita fu assai riservato, incerto su pubblicare i suoi testi, anzi sostanzialmente contrario. Infatti quelli non pubblicati – in maggioranza – li aveva destinati a essere bruciati, cosí si era espresso con il suo amico Max Brod (1884-1968), anche lui scrittore, che per altro già lo considerava uno degli scrittori viventi piú importanti e che quindi non bruciò, con tutta probabilità, nemmeno un biglietto o una cartolina del lascito di Kafka. Anzi portò tutte le carte kafkiane fortunosamente in salvo dall’invasione di Praga nel 1938, saltando sull’ultimo treno che lasciava la Cecoslovacchia ormai in mano ai tedeschi, raggiungendo, dopo un movimentato viaggio, la Palestina.

 

Kafka Confessioni e Diari

 

Kafka proprio tramite Brod, che credeva in lui, era anche vicino agli ambienti del sionismo culturale di Martin Buber (1878-1965) [Giuliano Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino 1984], come risulta in una annotazione, una confessione intima, probabilmente tra 1917 e 1918, in cui traccia un amaro bilancio della sua esistenza, quando ormai sapeva della tubercolosi: «Non è pigrizia, cattiva volontà, goffaggine …ciò che finora mi ha fatto fallire, o non mi ha nemmeno lasciato fallire tutte le mie cose: la vita familiare, l’amicizia, il matrimonio, la professione, la letteratura, ma è la mancanza del terreno sotto i piedi, dell’aria, della legge. Il mio compito è quello di crearli, non già per poter recuperare ciò che ho perduto, ma perché non possa accusarmi di aver trascurato qualcosa, dato che questo compito vale quanto un altro. Anzi, è il primissimo di tutti i compiti, o almeno il suo riflesso, cosí come, avendo scalato un’altura dall’aria rarefatta, si può a un tratto camminare nella luce del sole lontano.  …Di ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi risulta, portato con me quasi nulla, ma soltanto l’umana debolezza comune a tutti. Con questa –che, sotto tale aspetto, è una forza poderosa – ho affrontato gagliardamente quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di rappresentare. Non ho ereditato alcuna parte, invece, dello scarso patrimonio positivo del mio tempo, o di quelle punte cosí esasperatamente negative da convertirsi addirittura in positive. Non sono stato condotto nella vita dalla mano del Cristianesimo, peraltro già pesantemente in declino, come Kierkegaard, né ho potuto afferrare, come i sionisti, l’ultimo lembo del mantello di preghiera ebraico che già volava via. Io sono fine o principio [Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, in Confessioni e diariOp.cit.].

 

Il confronto con il sionismo prosegue, si affina, si precisa, rimanendo distante, se non ostile, malgrado Brod e tanti suoi amici avessero aderito al movimento. Anzi alcuni emigrarono in Palestina, tra cui il suo condiscepolo Hugo Bergmann, che divenne uno dei fondatori della Biblioteca Nazionale e dell’Università Ebraica di Gerusalemme, di cui fu rettore. Bergmann era in contatto con una delle piú vivaci intellettuali di Praga, Berta Fanta (di cui sposò la figlia Else). Berta, di raffinata cultura, negli incontri nel suo salotto, accoglieva intellettuali e artisti europei, tra cui Albert Einstein quando insegnò nel 1911 all’Università praghese. Era anche attiva nella Società Teosofica (successivamente Antroposofica) e organizzò le conferenze praghesi di Rudolf Steiner, cui, nel 1911, partecipò anche Kafka. Nel suo diario descrisse, con toni ironici, l’incontro con il fondatore dell’Antroposofia, al quale raccontò che la sua vita era attraversata da due componenti inconciliabili, sempre in contrasto: il lavoro in ufficio e la vocazione letteraria, aggiungendo una singolare affermazione sulla prossimità della sua scrittura con le visioni teosofiche e mistiche evocate da Steiner: «La mia felicità, le mie facoltà e qualunque possibilità di essere utile in qualche modo, stanno da sempre nelle mie attitudini letterarie. È vero che in questo campo ho sperimentato situazioni (non molte) che, a mio avviso, sono molto vicine alle condizioni di chiaroveggenza che lei, Dottore, ha descritto, e dove abitai interamente ad ogni mia idea, ma anche attuai ogni mia idea di volta in volta, e dove mi sentii non solo prossimo ai limiti miei, ma in generale ai limiti dell’umano. Sennonché a quelle situazioni mancava, sia pure non interamente, soltanto la calma dell’entusiasmo che probabilmente è propria del chiaroveggente».

 

Lo scrittore conclude questo singolare colloquio con la domanda se fosse possibile per lui, cosí preso dalla letteratura e dall’ufficio, dar seguito a una terza possibilità, all’“aspirazione della Teosofia”: «Se lei me ne crede capace, posso realmente assumermi questo compito». [Op.cit.]. Ma Steiner, quel giorno, era raffreddato. «Egli ascoltò con la massima attenzione, evidentemente senza badare a me per nulla, tutto preso dalle mie parole. Di tempo in tempo annuiva con un cenno che, a quanto pare, egli considera favorevole a una forte concentrazione».

 

Kafka Davanti alla Legge

 

Tutto sommato, fu un incontro mancato, eppure non sappiamo quanto del pensiero steineriano, direttamente o indirettamente, sia stato noto allo scrittore. Nel 1904-1905 Steiner pubblica uno dei suoi scritti principali L’Iniziazione. Come si consegue la conoscenze dei mondi superiori?, con varie edizioni ampliate, specie dopo il definitivo distacco nel 1913 dalla Società Teosofica, di cui era stato segretario per la Germania. A Monaco tra il 1910 e il 1913 Steiner aveva messo in scena quattro “Misteri drammatici”, tra cui Il Guardiano della Soglia. Ora, nel 1914 Kafka pubblica uno dei suoi testi piú suggestivi, che inserí poi nel penultimo capitolo, “Nel duomo”, de Il processo (pubblicato postumo, ma scritto pure nel 1914). Già questa reiterazione indica l’importanza che per l’autore aveva questo apologo “Davanti alla legge”: «Davanti alla legge c’è un guardiano. Davanti a lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L’uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare piú tardi. “Può darsi”, risponde il guardiano, “ma per ora no”. Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l’uomo si china per dare un’occhiata, dalla porta, all’interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere: “Se hai tanta voglia prova pure ad entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l’infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno piú potente dell’altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io”. L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre» [F. Kafka, Davanti alla legge, in Racconti, Mondadori, Milano 1987].

 

Intimidito dall’aspetto severo e terribile del guardiano della soglia, l’uomo decide di attendere. Passano gli anni, l’uomo invecchia e non ottiene il permesso di entrare. Alla fine è giunto all’estremo della vita e improvvisamente ha un’ultima domanda da porre all’inflessibile guardiano della soglia: «“Che cosa vuoi sapere ancora?” chiede il guardiano, “Sei insaziabile!”. L’uomo risponde: “Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?”. Il guardiano si rende conto che l’uomo è giunto alla fine, e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida: “Nessun altro poteva entrare qui, perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”».

 

Steiner La porta dell'Iniziazione

 

Non ci sono prove di letture kafkiane dell’opera di Steiner. Era l’atmosfera di ricerca del tempo. Steiner aveva intitolato il suo primo “Mistero drammatico” del 1910 La porta dell’Iniziazione, e nella sua opera sull’Iniziazione si accenna a due Guardiani della Soglia, e il secondo viene indicato come “il Grande Guardiano della Soglia”. Mentre è solo ebraico e kafkiano l’accenno alla legge.

 

Questa presenza della legge testimonia, comunque, l’interesse di Kafka per modalità di conoscenza e di scrittura assai lontane dalla politica dei sionisti, ma anche dall’attività letteraria del tempo, quella espressionista, soverchiamente ‘urlata’, che pur era animata da una forte tensione interiore. I suoi diari confermano investigazioni e intuizioni che sconfinano verso la ricerca del sacro, che per lui si proponeva all’interno della mistica ebraica. Nel gennaio del 1922, ormai peraltro gravemente malato, affermava: «Tutta questa letteratura è assalto al limite e, se non fosse intervenuto il sionismo, avrebbe potuto evolversi facilmente e diventare una nuova dottrina esoterica, una cabala. Ne esistono gli spunti [Op.cit.].

 

Ma anche la possibilità di una rinascita mistica era svanita e la sua posizione diveniva sempre piú ritirata, incerta. In giovinezza – la sua vita fu breve: morí il 3 giugno del 1924 – aveva provato simpatia per i circoli socialisti, mentre, negli ultimi anni, quelli della maturità spirituale, percepí il richiamo di quell’ebraismo perduto, o piú esattamente inabissatosi in lui, impegnandosi persino a studiare l’ebraico, non certo per solo interesse linguistico, giacché l’ebraico era ed è la lingua sacra delle Scritture, del giacimento piú cospicuo e solenne dell’identità ebraica, traccia del divino, cui è incentrata la tradizione dei mistici cabalisti.

 

Kafka Max Brod Una biografia

 

Tuttavia questa molteplicità di interessi, di impegni, di interventi, questa proliferante ricchezza culturale, intellettuale e spirituale, il suo stesso disorientamento intellettuale costituiva e rappresenta ancora il fascino della sua opera e della sua figura, ma anche l’impossibilità di proporre un’interpretazione unica e valida per i suoi testi. Brod, l’amico della vita, ne fornisce un’interpreta­zione teologica all’interno della spiritualità ebraica [Cfr. Max Brod, Franz Kafka. Una biografia, Mondadori, Milano 1956]. Altri pro­pendono per una lettura dei suoi scritti quale critica alla società asburgica, altri ancora per una lettura psicoanalitica [Marthe Robert, Solo come Kafka (1969), Editori Riuniti, Roma 1982]. La piú cospicua corrente interpretativa almeno fino alla pubblicazione degli epistolari con Felice del 1967 e a quello con Milena del 1952 (la cui edizione completa è del 1983), è stata quella esistenzialista, cui è seguita, proprio sostenuta dagli epistolari, nonché dai diari, pubblicati postumi, quella attenta al rapporto con l’ebraismo.

 

Kafka Il processo

 

Un’ulteriore interpretazione, parimenti intrigante, da considerare è una lettura dei testi kafkiani come espressioni di un mondo onirico tradotto in scrittura, come ha proposto anche Thomas Mann, che, per altro, con la sua scrittura si colloca agli antipodi dell’universo letterario del Primo Novecento tedesco: «È stato un sognatore e i suoi romanzi e racconti sono spesso visioni concepite, raffigurate completamente nel carattere del sogno, che imitano fino alla comicità la follia alogica e angosciosa dei sogni, questi strani aspetti remoti della vita [Cit. in Klaus Wagenbach, Kafka, Rowohlt, Reinbek/Hamburg 1964].

 

Quando ci si avventura nella dimensione onirica vengono meno i punti di orientamento, piú o meno solidi, della critica letteraria. Certo è che La metamorfosi, come pure Il Processo, già dall’incipit rimandano a un contatto con l’esperienza onirica, piú sfumata nel romanzo, dove al risveglio il personaggio, Josef K., incontra i suoi strani carcerieri, creando un’atmosfera di conturbante tensione: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato» [F. Kafka, Il processo, Mondadori, Milano 1986].

 

Kafka La metamorfosi

 

Ancora piú impressionante, inatteso e stupefacente è l’inizio del racconto di straordinario impatto narrativo: «Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta da letto, vicina a scivolar giú tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi. Cos’era avvenuto? Pensò…» [F. Kafka, La metamorfosi, Mondadori, Milano 1987].

 

È la metafora totale, o il surreale trascendimento della metafora, ché nella novella ci si sprofonda immediatamente in quella disorientante metamorfosi, tanto che lo stesso protagonista, Gregor Samsa, pensa che sia un sogno, un incubo, un estraniante, ancorché passeggero inabissamento della coscienza nel sottosuolo. La stra­ordinarietà del racconto kafkiano sta nella capacità di sostenere con una scrittura estremamente dettagliata, precisa fin nei particolari piú improbabili e insoliti, la verità dell’esperienza di Gregor e della sua famiglia. Pare che tutto possa rendersi credibile, realistico, attraverso una minuziosa descrizione con il ricorso alla lente d’ingrandimento per cui Gregor si trasforma, al risveglio, in un insetto dalle dimensioni enormi e la sua vita mentale e perfino affettiva prosegue paradossalmente con le modalità umane, come se la metamorfosi avesse investito la sola forma esteriore. Ma è qui il momento agghiacciante con l’interrogativo se si possa continuare a sentire e pensare umanamente in un corpo di un insetto enorme e per gli altri mostruoso.

 

La lettura in parallelo dei due testi conferma la molteplicità della scrittura kafkiana, che nei romanzi – Il disperso (noto anche come America), Il processo, Il Castello – si avvicina a una tradizione stilistica all’apparenza realistica, mentre nei racconti si nota uno slittamento a un’apertura verso una sensibilità che precorre il surrealismo. Ma siamo sempre all’interno di un universo compatto che può avvalersi di descrizioni stilistiche paradossalmente realistiche. Le atmosfere evocate risultano affini al contemporaneo movimento espressionistico, da cui tuttavia proprio lo scrittore prende le distanze proprio con l’inquietante realismo ‘surreale’ della descrizione dello scarafaggio. Che Kafka non avesse molto in comune con l’espressionismo – cosí diffuso tra gli scrittori tedesco-praghesi, da Brod a Franz Werfel – lo confermano, oltre alla Lettera al padre, anche il destino di Josef K. nel Processo e quello di Gregor Samsa nella Metamorfosi. In lui il topos della rivolta generazionale si capovolge in atti di autoaccusa, di denuncia della propria colpevole inadeguatezza. La contiguità con l’espressionismo dello scrittore è basata sulle sue amicizie, sulle sue frequentazioni letterarie, come pure sull’interesse che le riviste e le case editrici espressionistiche dimostravano nei suoi confronti. La Metamorfosi, scritta nel 1912, venne pubblicata nel 1915 dapprima sulla rivista espressionista «Die weißen Blätter» diretta da René Schickele (1883-1940) e dopo qualche mese  nella collana principe dell’espressionismo: Der jüngste Tag (Il Giudizio Universale), dove in quel giro di tempo vennero accolti il dramma Der Sohn (Il figlio) di Walter Hasenclever  nel 1914, che diventa un testo emblematico della rivolta dei ‘figli’ contro l’autoritarismo dei padri, che rispecchia quello della struttura sociale, rigidamente gerarchica. L’anno prima, nel 1913, nella medesima collana dell’editore Kurt Wolff, erano apparse le Poesie (Gedichte) di Georg Trakl (1887-1914), il riservato esponente della variante austro-ungarica dell’espressionismo, che con la sua sperduta tensione utopica richiama la sobria disperazione kafkiana. Nei circoli letterari della Praga ebraico-tedesca si profilarono scrittori espressionisti come Max Brod (1884-1968) e soprattutto Franz Werfel (1890-1945) e fu proprio lui uno dei primi a lasciare Praga e a trasferirsi a Lipsia come lettore e curatore dal 1912 al 1915 della collana Der jüngste Tag, in cui pubblicò le sue prime raccolte di poesie Der Weltfreund (L’amico del mondo) e Wir sind (Noi siamo); solo successivamente raggiunse il successo, meritato, con i suoi romanzi. A lui si deve se La metamorfosi venne pubblicata, come pure è suo merito la stampa di un altro prezioso volumetto espressionistico: Gehirne Novellen di Gottfried Benn nel 1916.

 

Kafka Lettere a Milena

 

Inoltre le pubblicazioni, non solo quelle poetiche e teatrali, di quegli anni confermano il grandioso risveglio della letteratura tedesca. Riviste, ritrovi, circoli, caffè letterari, teatri d’avanguardia si diffondono e si moltiplicano da Monaco a Berlino, da Vienna a Praga, e anche un uomo solitario e schivo come Kafka entra in contatto – attraverso il suo amico Brod – con i principali esponenti dell’avanguardia, anche se ne rimane ai limiti, nutrendo uno strano rapporto con la letteratura che – lo leggiamo nelle lettere alla prima fidanzata, la berlinese Felice Bauer, nonché in quelle a Brod e a Milena Jesenská, la sua prima traduttrice ceca, nonché, per brevi incontri, l’unica amante intellettuale – costituiva il contrastato motivo della sua esistenza. Ed è senz’al­tro impressionante che due capolavori, ancorché agli antipodi per stile, contenuto, sensibilità, come Morte a Venezia e La metamorfosi siano stati concepiti pressoché contemporaneamente. Opere che partecipano del canone della letteratura universale e che mostrano sorprendenti analogie: quella della morte, quello del travolgimento di esistenze borghesi. La medesima angosciante dissoluzione del personaggio avviene anche nel Processo. Si sa, il romanzo venne pubblicato postumo da Max Brod, nel 1925. Kafka aveva incaricato l’amico Brod di distruggerlo insieme a tutte le sue carte. Ciò non avvenne, fu l’autore che si distrusse, condotto alla precoce morte dalla tubercolosi faringea, che lui interpretava come la soluzione del suo destino, un destino ebraico, della crisi dell’ebraismo, della crisi dell’ebreo assimilato, ‘occidentale’, che ha creduto che fosse ormai reciso il contatto vivo con le radici, vivendosi straniero tra stranieri, straniero con i suoi presunti simili, persino straniero a se stesso. Eppure proprio questo sentimento di perdita, di de-solazione rivela l’ultima epifania della possibilità dell’identità ebraica. La sua scrittura è una tensione, ancorché nel disorientamento, verso una verità, verso la verità del suo essere ebreo, del suo essere uomo, dell’essere, attingendo vertici di un misticismo laico: «Credere significa librare in se stessi l’indistruttibile, o meglio: liberarsi, o meglio ancora: essere indistruttibili, o meglio ancora: essere [F. Kafka, Confessioni e diari, Op.cit.].

 

In questa tensione si comprendono le letture religiose, persino teologiche della sua opera, perché quella crisi autenticamente vissuta, come da alcun altro scrittore ebreo-tedesco del tempo, è il segno di un’identità nella modernità.

 

 

Marino Freschi