Gli uomini, morendo, fioriranno;
la guerra è solo un gioco e non lo sanno.
Vibrano spade, spronano cavalli,
ma appena nella terra i loro corpi
diventeranno semi rosso cupo
a fecondare i solchi e le brughiere.
Qui ora il tempo ha spento il vorticare,
placato l’onda, l’impeto, lo slancio,
sedato l’urlo, incenerito il sangue.
Pedoni, alfieri, re, cavalli e fanti
sono spariti dalla gran scacchiera
che ora è un prato fresco di maggese.
Resta un’asperità che svetta in alto
dalla campagna a freccia verso il cielo
e un leone di pietra vi troneggia
a ricordar chi vinse la partita.
Ma vinti e vincitori sono semi,
fecondano la terra e non lo sanno,
appena morti entrano nel gioco
sublime e lieto della primavera.
Ora son lí a gremire le pendici
della collina dove finí il gioco
di vita e morte, e sono tutti fiori.
Schiere di margherite, crochi e viole
ascendono la china ripetendo
nel vezzo dei colori quelli antichi:
coccarde, gagliardetti, insegne e piume,
alamari, bandiere, nastri e fiocchi,
kepí fregiati d’oro e le feluche.
Ora son fiori umili e confusi
che il vento scuote nell’estremo assalto:
ecco sciabole d’erba saettare,
issano i fiordalisi un gran pavese,
guizzano in lampi viola cardi e spighe
prossimi a conquistar l’ultima balza.
Premio al furore e all’impeto silente
non è la barricata, la trincea,
un cannone da prendere di slancio:
è il cielo chiaro oltre quella cima.
Fulvio Di Lieto