Praga conobbe un periodo d’intensa attività politica e culturale sotto l’imperatore Carlo IV (1316-1378), il quale stabilí la sua capitale quasi stabilmente a Praga, che ebbe una straordinaria fioritura artistica e culturale, con la costruzione della cattedrale di San Vito, dell’Università e del famoso Ponte Carlo. La sua cancelleria fu uno dei primi centri in cui si usò oltre al latino anche la lingua tedesca in una fase di tensione unificante. La sua politica urbanistica attrasse numerosi artisti e artigiani soprattutto dalla Germania, incrementando la presenza dei tedeschi in città. Fino all’Ottocento inoltrato la convivenza tra le varie comunità fu abbastanza pacifica, come conferma il regno dell’Imperatore Rodolfo II d’Asburgo (1552-1612), che contribuí anche al rafforzamento della comunità ebraica, curata dal celebre Rabbi Loew, che ebbe un buon rapporto con Rodolfo, grande collezionista d’arte e studioso di misteri alchemici. Tuttavia i suoi crescenti turbamenti mentali costrinsero i fratelli, soprattutto Mattia, a tenerlo recluso nel Castello di Praga, la fortezza Hradschi- Hradčani e infine a detronizzarlo. Ciò non contribuí a riportare la pace nel regno di Boemia, che venne travolto da violenti scontri confessionali, come prova la tremenda Guerra dei Trent’Anni (1618-1648) che scoppiò proprio a Praga. La pace di Vestfalia consolidò, con l’irreversibile indebolimento della struttura del Sacro Romano Impero, il dominio degli Asburgo negli ampissimi territori sotto il loro diretto potere, come pure quello dei cattolici in Boemia, dove solo gradualmente si ristabilí un clima di tolleranza, anche se con la rigida egemonia cattolica e dei gesuiti, che controllavano il sistema educativo, specie dell’aristocrazia.
La guerra segnò un discrimine nella storia d’Europa, e massimamente in quella di Praga, con una ferita che tra l’altro cominciò a dividere le tre comunità della città: quella piú numerosa boemo-slava e quelle minoritarie, ma egemoni socialmente: l’ebraica, assai attiva al livello commerciale e finanziario, mentre sul piano politico e culturale decisiva era l’influenza tenuta dai tedeschi, quella germanica (o piú esattamente dai germanofoni). La crisi cominciò ad acuirsi irreversibilmente con la Rivoluzione del 1848, quando a Francoforte si riuní il primo parlamento eletto, sostanzialmente tedesco, infatti la comunità ceca non vi partecipò, aperta alle prime manifestazioni politiche del panslavismo. Da allora si può lecitamente far partire le rivendicazioni irredentiste, sempre piú pressanti e vincenti, dei cechi, anche perché con l’industrializzazione accentrata soprattutto a Praga ci fu un notevole inurbamento con il trasferimento di ingenti masse di contadini nella capitale, sicché nel giro di pochi anni l’equilibrio demografico tra cechi e germanofoni fu travolto a vantaggio dei primi, che verso la fine dell’Ottocento costituivano la stragrande maggioranza, con crescenti pretese di rappresentanza politica e culturale. E proprio in quei decenni avvenne un potente risveglio culturale con la nascita della cultura ceca contemporanea, nonché con una sorprendente attività, soprattutto letteraria e in genere artistica e intellettuale, della comunità germanofona, con una particolare presenza di intellettuali ebrei, tra cui Kafka. La comunità tedesca era attiva sia con l’autorevole università, con i teatri per la musica e per la prosa, con giornali che erano cosí notevoli da essere diffusi non solo nell’Impero asburgico, ma anche in Germania.
È all’interno di questa comunità che si formò Rilke (1875-1926), nato nel primo distretto della città. Il padre era stato un brillante militare, che successivamente era diventato un modesto funzionario di una ferrovia locale, mentre la madre, che aveva nutrito grandi speranze di ascesa sociale deluse, tentava ancora di mantenere un decoro al di sopra delle possibilità. Si ricorda che esponeva in salotto bottiglie, ormai vuote, di vini pregiati, di nuovo ricoperte con la stagnola di quando erano state acquistate. Avevano avuto una bambina che era morta a un anno, sicché alla nascita del figlio lo chiamarono René Maria, “rinato” e per i primi tempi il bambino (ma allora era in uso) indossava abbigliamenti da bambina. A ciò pose fine la decisione del padre di iscrivere il figlio a una scuola militare che costituí un vero supplizio per il ragazzo, che successivamente cambiò scuola con un esito alquanto singolare: si dovette ritirare per un affare di cuore con una insegnante. Cosí tornò a Praga dove, per sanare l’alquanto compromessa situazione scolastica del giovane, intervenne lo zio paterno che era uno dei piú affermati avvocati e che, non avendo un erede maschio, puntò sul nipote, Il quale, recuperata rapidamente la maturità liceale, si iscrisse a giurisprudenza, sempre con l’appoggio dello zio, che aveva stabilito una rendita per tutto il periodo universitario.
Questa prospettiva professionale fu bruscamente interrotta dalla morte dello zio. Per alcuni anni Rilke mantenne l’iscrizione con la rendita connessa, con il disappunto delle cugine. Intanto si era fatta irreversibile la vocazione poetica. Rilke aveva cominciato con racconti influenzati dal naturalismo con Due racconti praghesi e una raccolta di poesie legate alla città e alle sue tradizioni: Larenopfer (Sacrificio ai Lari), mostrando una straordinaria fecondità di scrittura. Ma il soggiorno in una città, in cui non si parlava quasi piú tedesco, e lontana dalla vivacissima attività cultura tedesca, lo convinse a traferirsi nel 1896 a Monaco. Il distacco da Praga fu definitivo. Tornò nella capitale boema soltanto per stretti e urgenti motivi familiari, come la morte del padre. Monaco era allora uno dei centri piú attivi della vita artistica.
A Schwabing, il quartiere universitario e artistico, vivevano numerosi pittori e scrittori tra cui Thomas Mann. In quegli anni si era imposta la corrente naturalista della Münchner Moderne di Michael Georg Conrad, cui dapprima partecipò per poi criticarla radicalmente Frank Wedekind (1864-1918), l’esponente principale dell’avanguardia monacense, che proprio nel 1896 fondò la rivista politico-culturale «Simplicissimus», organo dell’avanguardia e dell’opposizione alla Berlino imperiale e a Guglielmo II.
In questo effervescente clima culturale si trovò Rilke che nel 1897 incontrò la donna che gli cambiò la vita: Lou Salomé (1861-1937). Figlia di un generale zarista d’origine tedesca, fu amata da Nietzsche – che le chiese invano di sposarlo – e frequentò i circoli culturali del tempo, avvicinandosi a Sigmund Freud, divenendo con Marie Bonaparte la prima psicoanalista. Donna indipendente e intellettualmente intraprendente, si era sposata con Friedrich Andreas, un professore orientalista, che l’aveva convinta tentando in sua presenza il suicidio con un pugnale. La condizione di Lou fu che il matrimonio dovesse essere ‘bianco’. Intanto nel 1897 incontrò a Monaco il giovane e alquanto disorientato Rilke, che le aveva già dedicato varie poesie e ovviamente colto rose dall’Englischer Garten. Il rapporto divenne sempre piú intenso. Quando Lou morí, Freud ricordò quel legame, osservando che lei era stata “musa e madre” per il giovane poeta, sui cui esercitò notevole influenza, tanto da cambiargli persino il persino il nome dal debole René in Rainer. Lou ebbe proprio con lui una relazione completa che durò fino al 1901, per trasformarsi in una amicizia per tutta la vita. Pur ammirando la straordinaria creatività di Rilke, ne avvertiva l’immaturità culturale e lo inviò in Italia. Prima ancora Lou con il marito e Rilke si erano trasferiti nell’ottobre 1897 a Berlino, che era diventata anche l’inquieta capitale culturale della Germania. Il poeta cominciò a studiare l’italiano e il russo, e a leggere con l’aiuto di Lou Turgeniew e Tolstoj, nonché a frequentare la vita letteraria berlinese particolarmente vivace in quel periodo, in cui stava affermandosi – soprattutto sulle scene – il naturalismo, non senza reazioni significative, come conferma la simpatia di Rilke per Maeterlinck.
Il 23 gennaio al Residenztheater il poeta assisté a una Matinée con la rappresentazione di L’Intruse dello scrittore belga, con l’introduzione di Rudolf Steiner, con cui sorge un contatto che si sviluppò nei mesi seguenti. A quel tempo Steiner dirigeva il «Magazin für Litteratur» che si era arricchito di un inserto teatrale molto seguito: i «Dramaturgische Blätter» che era l’organo dell’importante associazione teatrale: “Bühne-Verein”. Su questo supplemento Rilke pubblica nel numero del 24 settembre 1898 un intervento di replica a un articolo Fritz Selten sul monologo. La replica, nello stile di Rilke, è gentile, confermando una attenzione già vivace per il teatro. In un intenso crescendo affiora già il suo spessore intellettuale e spirituale. Il saggio, Il valore del monologo, s’incentra criticamente sulla parola, su quella del teatro naturalista, quella dei «cosiddetti moderni». La parola, per Rilke, è quella che sconfina, che si protende verso il silenzio, che è la sua negazione, ma anche in suo mistico compimento. È la parola della quotidianità, della dialettica, sorta dal pensiero riflesso, dal pensiero non vivo, quella che critica Rilke, in consonanza con Maeterlinck, che anticipa la sacralità del poeta e della poesia del Rilke maturo. In calce all’intervento rilkiano vi è una considerazione di Steiner, che, in quanto responsabile della pubblicazione, ammette che l’articolo di Rilke lo ha sollecitato a una riflessione sul valore della parola che trova il suo completamento nella musica e massimamente in quella di Wagner.
Tale riflessione si sviluppa in un successivo nuovo intervento rilkiano, Ancora una parola sul “Valore del monologo. Lettera aperta a Rudolf Steiner. Si viene cosí a creare un dialogo di intensa spiritualità, in cui Rilke, ribadendo la sua intuizione, nel numero 40 del 10 ottobre 1898 della rivista, prende ancora piú nettamente le distanze dalla drammaturgia naturalista, allora egemonica sulle scene berlinesi, a difesa della tradizione della poesia: «Ma non si deve dimenticare che io non pensavo a quelle parole solitarie, in cui le grandi epoche del passato vivono nascoste in mezzo a noi. …È stata la parola del dialogo, la parola minuta, quotidiana, mutevole quella che ho osservato. …Ognuno interroghi se stesso se nei momenti piú importanti della propria vita vi sono state parole». E quali? «Pensi agli amanti, che nei giorni del loro incontro le parole tengono lontani e che poi si riconoscono nel loro primo momento di silenzio». E la meditazione si approfondisce fino a giungere a quell’intuizione, che divenne la ‘verità’ della sua poesia con la scoperta della parola poetica, quella creatrice, magica autentica che è anche silenzio: «Chi non si ricorda degli istanti in cui ci è sembrato che parole povere e logore in bocca all’amata giungessero a noi per la prima volta, irradiando giovinezza? Qualcuno dice: “luce”, ma è come se dicesse: “diecimila soli”; qualcuno dice: “giorno”, e tu senti “eternità”. E in un istante lo capisci: è stata la sua anima a parlare; non per mezzo di lui, non da quella piccola parola che domani avrai già dimenticato, ma per mezzo della luce, forse del suono, del paesaggio. Poiché quando un’anima parla, essa si trova in tutte le cose, risveglia tutte le cose, dà loro una voce e ciò che confessa è sempre un canto. …Può essere che la vita operi nelle parole come fa il fiume nel suo letto; quando diventa libero e forte, straripa sopra ogni cosa e nessuno può scorgere le sue rive».
Il saggio che tocca le intensità dell’esperienza poetica rilkiana si conclude, rivolgendosi a Steiner, al “Dottore”, con quello stile di signorile, rispettosa eleganza non solo formale che ancora si praticava nella cultura europea del tempo: «Mi rimetto a Lei, egregio Dottore, sperando che vorrà utilizzare qualcuna di queste indicazioni per la sua rivista. In ogni caso La ringrazio per il suggerimento che la sua nota ha suscitato in me; mi sento obbligato di presentarle qui i frutti. Con particolare stima Suo devoto, Rainer Maria Rilke».
La collaborazione non proseguí. Steiner si ritirò dalla rivista nel 1900, mentre Rilke intraprese, su consiglio di Lou, i suoi indispensabili “anni di formazione” con lunghi viaggi e soggiorni all’estero. La prima tappa fu la Toscana. Erano, infatti, gli anni in cui nella cultura europea era assai forte una corrente di riscoperta creativa del Rinascimento e Firenze era la città giusta per approfondire questa tendenza artistica. Ma la vera esperienza creatrice avvenne nei loro due viaggi in Russia – con una visita a Tolstoj – che sono all’origine di una delle piú intense raccolte poetiche Das Stundenbuch, Il Libro d’Ore, pubblicato nel 1905, che rivela quella profonda corrente di misticismo laico per percorre la sua produzione lirica. In questo ‘breviario’ lirico affiora uno dei temi piú caratteristici della sua spiritualità poetica:
O Signore, concedi a ciascuno la sua morte:
frutto di quella vita
in cui trovò amore, senso e pena.
Noi siamo solo la buccia e la foglia.
La grande morte che ognuno ha in sé
è il frutto attorno a cui ruota ogni cosa.
Il distacco da Lou coincise con quel periodo caratteristico di tutta la vita di continui viaggi, con lunghe soste all’inizio nella colonia degli artisti a Worpswede vicino Brema, in cui conosce la scultrice Clara Westhoff, che sposa già nel 1901. Insieme si trasferiscono a Parigi, dove Rilke per un breve periodo diventa segretario di Auguste Rodin, da cui apprende intimamente la centralità dell’oggetto sia in scultura sia anche nella scrittura. È la grande esperienza del Dinggedicht, della poesia-oggetto, che traversa la raccolta Buch der Bilder (1902-1906). Si allontana da Rodin (non deve essere stato un segretario efficiente) per viaggi a Roma, in Svezia, che divenne, in parte, lo sfondo del suo unico romanzo-antiromanzo, I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), che scompagina la tradizione realista e naturalista, ancora assai viva, attraverso una sapiente rarefazione della story con una apertura che trova nella raffigurazione la sua stessa giustificazione. È la scomparsa della trama, ridotta a un esile filo narrativo, per intensificare le atmosfere evocate e appena tratteggiate con un linguaggio che tende alla poesia, alla prosa poetica.
Intanto i viaggi – ospite fisso di mecenati, preferibilmente di dame della nobiltà o dell’alta borghesia – s’intensificano con brevi soggiorni come quello del 1906 a Napoli e a Capri, dove compone una delle sue liriche piú suggestive, che già anticipa l’ultima stagione poetica:
Canto Marino (Capri, Marina Piccola)
Soffio antichissimo del mare,
vento del mare a notte:
a nessuno tu vieni;
per chi vegli
resisterti
è una prova
soffio antichissimo del mare
che spiri
quasi solo per rocce primordiali,
nient’altro che spazio
trascinando con te da lontano…
Oh, come ti sente una
pianta di fico gravida di gemme
alta nella luna.
Nello stesso anno esce la composizione che incontrò il maggior successo popolare Canzone d’amore e di morte dell’alfiere Christoph Rilke, che riunisce, con una cadenza lirica da ballata tradizionale, a mo’ di storia tardo-romantica, i motivi della sua poetica, amore e morte, che maturavano verso quello che divenne il suo capolavoro, le Elegie di Duino. Nel 1909 il poeta conosce la principessa Maria von Thurn-Taxis, che diviene la sua protettrice principale, e che lo ospita nel Castello di Duino, presso Trieste, nel 1912, dove, come in una rivelazione epifanica, scrive le prime due Elegie. Già il luogo è suggestivo; il castello medievale sorge a picco sul mare sull’estremità delle rocce del Carso, e nella solitudine, sugli spalti, il poeta percepisce un flusso intenso della creazione poetica, che esprime la sua peripezia verso una novella epifania del sacro. È una sacralità insidiosa per l’uomo della modernità, dell’uomo di quel mondo in cui Dio è morto, e dove pur risuona fascinosa e remota la voce tremenda del mistero, nuovo e insieme arcaico, che affiora nella potente figura dell’angelo, non la figurina edulcorata della devozione addomesticata, bensí l’angelo quale messaggero divino, armato e inflessibile, di cui l’uomo della lontananza e dell’oblio dal divino non può piú sopportare l’ardente presenza. In una tensione epifanica l’angelo è l’inviato di giustizia delle gerarchie spirituali, ormai remote all’anima umana, come si percepisce con disorientante inquietudine nell’incipit della prima Elegia:
Chi, s’io gridassi, mi udrebbe mai dalle sfere
degli angeli? E se pure d’un tratto
uno mi stringesse al suo cuore: perirei della sua
piú forte esistenza. Poiché del terribile il bello
non è che il principio, che ancora noi sopportiamo,
e lo ammiriamo cosí, ché quieto disdegna
di annientarci. Ogni angelo è tremendo.
E cosí mi trattengo e serro in gola il richiamo
dell’oscuro singulto. Ah, di chi sappiamo
giovarci? D’angeli no, e neppure di uomini
…Ci rimane un albero,
forse, lungo il pendio, da rivedere
ogni giorno; ci rimane la strada di ieri
e fedele, viziata, una vecchia abitudine
che stava bene con noi e non se n’è andata e rimase.
Un albero, la strada di ieri quali simboli arcaici e perenni di un mondo perduto, alla vigilia – siamo nel 1912 – della fatale scomparsa del “mondo di ieri”, e questo giustifica il tono melanconico, sobrio e disperato, dell’elegia che ritorna come genere piú appropriato nell’abisso di una insicurezza spirituale, filosofica, artistica. Dalle arti figurative, ben note e frequentate dal poeta, da Monaco a Worpswede e a Parigi, Rilke mutua quello sgomento della forma e quell’ardimentosa ricerca, che aveva appreso dalle avanguardie. La Prima Elegia è a ridosso della genesi del futurismo e del cubismo; del 1907, è il quadro rivoluzionario di Les demoiselles d’Avignon di Picasso, e negli Anni Dieci a Parigi Giorgio de Chirico con il fratello Alberto Savinio idearono la “pittura metafisica”, congeniale alla scrittura rilkiana, mentre nel 1911 si apre a Monaco la mostra Der Blaue Reiter, nonché la crescente affermazione dell’espressionismo, da cui, tuttavia, il poeta non fu influenzato.
Rilke percepisce estreme tracce del neoplatonismo, e da queste sorge l’epifanico richiamo all’angelo, che però non è consolatorio, bensí tremendo, come terribile è la bellezza intesa quale dimensione dell’infinito che annienta l’umana finitudine. L’angelo rilkiano è anche la metamorfosi dell’invocazione divna nell’epoca della perfetta, compiuta secolarizzazione che paradossalmente evoca la nostalgia del sacro nella sua manifestazione quale bellezza, dispersa nell’informale eppure sempre presente, quale inesausto anelito dell’artista e dell’arte, intramontabile nostalgia dell’Altro, inteso al di là dei canoni della religione tradizionale. Questa ricerca del bello si conferma nelle insistenti interrogazioni iniziali, che traversano le Elegie per restare sospese, ché il processo creativo si arresta improvvisamente con lo scoppio della Grande Guerra che sorprese Rilke a Monaco. Il poeta rientrò a Vienna per prestare un breve servizio militare. Smobilitato torna soprattutto a Monaco, ma permane quel blocco della scrittura che lo ha segnato con la guerra.
Finalmente la pace lo raggiunge in Svizzera, dove da anni si erano trasferiti, in una terra di pace, Rudolf Steiner a Dornach, Hermann Hesse in Ticino. Dal 1922 abitò a Muzot fino alla morte nella torre medievale messagli a disposizione dal mercante e mecenate svizzero Werner Reinhardt, pur continuando a viaggiare molto, soprattutto all’interno della Svizzera, ma anche a Parigi, e a frequentare le sue protettrici e gli artisti dell’epoca, come Paul Valéry e André Gide. In questo periodo riprese e terminò in un crescendo di attività poetica le dieci Elegie di Duino e in un eccesso di attività anche i 29 Sonetti a Orfeo. È l’avvicinarsi della stanchezza, della debolezza, della morte ormai prossima che dischiude la scrittura di Rilke a estremi, suggestivi, monumentali messaggi, con un’assoluta, disperata, religiosa adesione alla terra, all’immanenza, quella che aveva appresa da Nietzsche:
Qui del dicibile è il tempo, qui la sua patria.
Parla ed ammetti. Piú che mai
vengono meno le cose, quella da vivere, perché
quel che le sostituisce e rimuove è un fare senza immagine.
L’angelo corre come un fil rouge per le dieci elegie ed è la chiave dell’intuizione quale remoto messaggio e messaggero di un mondo sommerso:
Terra, non è questo che vuoi: invisibile
sorgere in noi? – Non è il tuo sogno questo,
d’essere una volta invisibile? – Terra! Invisibile!
Che cosa, se non metamorfosi, è il compito a cui ci solleciti?
Raramente nel Novecento la poesia aveva raggiunto simili intensità nella consapevolezza del tramonto e nel medesimo tempo in una ineffabile percezione del mistero della vita e compresenza della morte. Rivolgendosi alla Terra intuisce:
Sempre avevi ragione, e l’dea tua santa
è la morte intima e familiare.
Vedi, io vivo. Di che? Non l’infanzia, e neppure il futuro
diminuiscono… Esorbitante esistenza
mi scaturisce dal cuore.
La Terra invisibile – dimensione del mistero, che sorregge le intuizioni e le rammemorazioni umane – è anche quel mondo scomparso che pur il poeta conosce in sé e che fornisce la spiegazione della tensione lirica e mistica delle Elegie, come ebbe a chiarire al suo traduttore polacco in una lettera da Muzot, incentrata sull’Angelo, il sigillo dell’opera:
Per l’angelo delle Elegie tutti i palazzi e le torri passate esistono perché già da lungo tempo invisibili, e le torri e i ponti ancora superstiti della nostra esistenza già invisibili, benché ancora (per noi) fisicamente durevoli. L’angelo delle Elegie è quell’essere che garantisce di riconoscere nell’invisibile un superiore grado di realtà. Perciò “tremendo” per noi, perché noi, suoi innamorati e trasformatori, ancora siamo attaccati al visibile. Tutti i mondi dell’universo si precipitano nell’invisibile, come nella loro piú immediata e profonda realtà.
Noi siamo, sia ribadito ancora una volta, nel senso delle Elegie, siamo noi questi trasformatori della terra, tutta la nostra esistenza, i voli e le cadute del nostro amore, tutto ci abilita a questo compito (accanto al quale essenzialmente non ne esiste altro).[Cit. in R.M. Rilke, Lettere da Muzot, Ghibli, Milano 2016].
La sua poesia si aggira in un paesaggio, un possibile approdo, che presenta molteplici prospettive che si unificano nel topos della dimensione terrena, ma non quella della sfuggente quotidianità, bensí quella che è una realtà ormai invisibile, quella appunto dove nietzschianamente non solo dio, ma gli dei sono morti, pur tuttavia insiste nell’intuizione del poeta, l’invisibile, il mistero, con la sua funzione dinamica di sollecitare l’uomo alla metamorfosi, alla trasformazione. In tal senso Rilke propone una via stretta che, attraverso il paesaggio del nichilismo contemporaneo, approda a una esperienza ancora possibile. L’angelo è tremendo e con la sua spada sbarra la strada, ma è pur sempre una visione che è sulla soglia della conoscenza. La metamorfosi unisce stranamente i due piú grandi autori praghesi, Rilke e Kafka, ma quasi in un movimento opposto, ché la metamorfosi di Gregor Samsa non si apre ad alcun angelo, ancorché tremendo. Ma con Kafka siamo in un’altra storia, in un’altra Praga.
Marino Freschi