WHATEVER IT TAKES
Pare incredibile: un’intricata crisi di natura geopolitica, ardua da comprendere anche per gli esperti, coinvolgente piú nazioni coi relativi apparati politici, economici e bellici, può venir osservata come fosse di colpo divenuta una cosa chiara ed esplicita: ciò grazie ad una semplice comparazione di due distinti aforismi di opposta provenienza.
Iniziatosi da poco il Terzo Millennio, nonostante la girandola delle notizie di parte e la mitica confusione tra velleità gigionesche e poteri smargiassi, siamo stati subito messi di fronte ad un problema internazionale, la cui complessità emerge attraverso uno scambio di battute; sulle quali non vi sarebbe da spendere neppure le poche righe accreditate dagli organi d’informazione, se non fossero uscite da due emerite chiostre di denti, i cui proprietari rientrano tra i personaggi VIP che attirano a sé le luci di tutte le ribalte.
Perciò, come la stampa e le TV sono costrette a fare di fronte a un outing di Lady Gaga, pure in questo caso, le due citazioni sono state ritenute una curiosità irrinunciabile e patrimonio culturale planetario fin dal primo pronunciamento; magari in sé un po’ banali, non del tutto definite, ma di immediato effetto ipnotico, nonché gonfie di recondite significanze, rappresentano quanto basta per venir edite a pieni voti dagli influencer intenzionali (e internazionali) che si prendono cura dei ghiottoni di notizie, arsi dalla sete di sapere.
Difficile tuttavia prendere un abbaglio piú grosso di una eventuale svalutazione: in quelle due battute sta racchiusa una causa primaria ben piú importante dell’origine del Covid e dei Geoglifi di Nazca. Esse ci dicono ciò che potrebbe accadere al nostro mondo nell’immediato futuro; pure se storiografi, studiosi esperti e opinionisti corsari, non troveranno mai la capacità di illustrarle a dovere con la chiarezza e l’efficacia che deriverebbero solo da una radicale interpretazione degli ideologismi implicati, e che stanno, in questo caso, alla base dei due neo-oracoli sibillini.
Ma purtroppo, un’ideologia che abbia oggigiorno il cattivo gusto di presentarsi all’opinione mondiale, condensata in due aforismi, quali volgari cachet per l’emicrania, non può in alcun modo venir recepita da un pubblico semi-incosciente né da uno troppo smaliziato. In sostanza, da nessun pubblico. Per eccesso o per difetto, le interpretazioni finiscono fuori campo; colpiscono a casaccio, comunque creando scompiglio e rovine: altri focolai d’incertezza, ulteriore sgomento, rassegnazione rabbiosa e avvilimenti disperati. Mine vaganti che, irrisolte nel tempo, si trasformeranno in cause motrici per future rivendicazioni e nuovi conflitti. Anche e soprattutto da quanti garantivano di muovere da motivazioni opposte.
In che modo e a quali fini ci piace usare la frase inglese (nel frattempo assunta a rango proverbiale, dapprima dagli economisti e subito dopo dai politici occidentali) di “Whatever it takes”? Secondo le traduzioni piú o meno letterali, si vorrebbe dire “A tutti i costi”, o “Quanto sarà richiesto”, o ancora “Qualunque cosa ciò comporti”. Varie strade per affermare un’unica verità molto semplice, piú pacata e meno altisonante dell’anglofilo litote: “Faremo tutto il possibile”. Detto in italiano (ho detto “in italiano”, non “all’italiana”) non suona poi cosí male (si consiglia comunque di verificare in seguito la consistenza attuativa).
Ho anticipato che gli aforismi sono due: il secondo è un antico detto che proviene dell’Estremo Oriente; con misurata eleganza unita ad un pizzico d’ironia sol-levantina (sotto la quale potrebbe covare anche una ventata di macabro giustizialismo integralista, non ho la competenza per negarlo) esso si esprime in quel che segue: “Spetta a chi ha legato il sonaglio al collo della tigre, il compito di toglierlo”.
Dalle conseguenze di quanto sta condensato in queste due frasi dipende il futuro, se non dell’intero mondo, almeno di quello dell’Europa, che, per motivi geografici, ma anche no, ci interessa da vicino.
Qui cerco di spiegarmi per benino, perché non vorrei venire frainteso; io ho tentato in molti modi di capire il significato delle due frasi. E quando dico il significato, non intendo solamente quello prêt-à-porter, ma anche tutte quelle cosine sottili sottili, conseguenti e collaterali, che si dicono e non si dicono, che si fanno capire col tono o con l’impostazione dei tratti facciali, o con lo sguardo fisso in un vuoto aspaziale, col volto impostato su un fastidioso camuffamento ieratico-paternalista, che di regola serve per far intendere alla nuora ciò che dovrebbe comprendere la suocera (o viceversa? non lo so, ma non ha importanza).
Quel che ne è scaturito mi ricorda un termine dialettale del mio Nord Est, un misto di austro-sloveno risciacquato nell’Isonzo: dicesi “zúf”, una pietanza dei poveri in cui si mette dentro di tutto e di piú (anzi di piú, no, perché altrimenti non sarebbero poveri), ma di tutto sí, essenzialmente pane raffermo, patate, polenta e avanzi. Una specie di minestrone-brodaglia, che in effetti, mancando il resto, può andar bene temporaneamente.
Allora mi sono detto: ma perché devo perder tempo ad interpretare queste due battute, che evidentemente servono ai leader politici, a far stare zitti i commentatori di mestiere e lasciar capire agli altri (non saprei chi siano questi altri oltre ai commentatori, ma sono sicuro che ci sono anche gli altri) quello che piú vogliono le loro ansie e paure esistenziali.
“Whatever it takes” vale perciò quanto: “Al momento opportuno faremo la nostra parte”; e quel che riguarda la tigre asiatica suona come: “Chi ha voluto la bicicletta adesso pedali!”.
Ma detto ciò, mi è subentrata una tristezza cosí soporifera, ma cosí soporifera, che mi sono subito addormentato sull’articolo incompiuto.
Al risveglio ho capito (ho capito cioè che mi ero addormentato). Non è un granché come punto d’arrivo, ma di questi tempi, essere consapevoli di avere avuto una coscienza dormiente (e sognare irrisolvibili catastrofi seguite da catastrofiche soluzioni) è già qualcosa.
A questo segno ho fatto una riflessione: “Guarda, guarda, vecchio mio! Questa coppia di frasi che al momento vedevi come una sorta di Scilla e Cariddi, imbufalirsi contro un’Arca targata EU 2022, alla deriva, diventa ora un fenomeno comprensibile, da studiare con la massima attenzione; nella misura però in cui venga decontestualizzato dalle note ed arcinote vicissitudini, che ci vengono somministrate con professionale perizia a pranzo e a cena, e riportato quindi alla sua originaria essenza; ovvero riducendo all’osso l’essenza di una domanda interiore molto forte, drammaticamente sviluppatasi nella parte superiore dell’anima e da questa posta alla sua parte inferiore (potevo dire a quel che resta dell’anima, ma mi suonava un po’ lugubre); domanda che, peraltro, già Shakespeare aveva saputo esprimere, con encomiabile arte, molto tempo prima, eternandola nell’amletico quesito.
Il “Whatever it takes” e il “Togliere il sonaglio dal collo della tigre” cominciano a funzionare a pieno regime e ad acquisire una dimensione enormemente significativa, quando ce le poniamo a noi stessi in stretta connessione con l’ andamento evolutivo indirizzato ai Mondi dello Spirito.
O il senso delle frasi viene preso come una provocazione diretta contro i paraventi nascosti di alcuni nostri intimi recessi, che faccia risuonare: «Quando tiri fuori il fatidico “Whatever it takes” intendi davvero dire che farai tutto quello che ti sarà umanamente possibile per progredire sul piano evolutivo della tua ascesi individuale?». Ed inoltre: «Se hai permesso l’avverarsi di questo caos (è indifferente in quale misura, vale anche l’esser stati semplicemente inerti o inefficaci a fermarlo), non trovi che sia cosa giusta e sacrosanta prenderti sul groppone la parte di responsabilità che ti compete e portartela dietro fin quando il suo peso non diverrà lieve lieve e si estinguerà del tutto?»; oppure restano una coppia di belle frasi, altisonanti e di buona fattura, che entrano in un orecchio e fuoriescono dall’altro.
In buona sostanza, nel primo richiamo si deve trovare il monito: fare tutto quello che è umanamente possibile e farlo sul serio. Ora mi domando: cosa c’è di piú “umanamente possibile” che incontrare la vita terrena assorbendo le correnti dell’esperienza psicosensibile ed elaborandole alla luce dell’intelletto? Qualcuno riesce a vedere qualcosa di meglio, di piú importante, di maggiormente valido?
Quindi è chiaro! Si tratta di conoscere, si tratta della CONOSCENZA; qui se ne parla in modo schietto e preciso; è l’operazione piú eclatante ed essenziale della vita umana. Quella che conferisce il senso ad ogni vita umana. Che può trasformare ogni anonimo esistere in un significativo e avvincente dono da gustare a centellini attimo dopo attimo.
Nell’altra circonlocuzione, se vogliamo forse un po’ piú involuta, possiamo percepire il secondo richiamo, pur esso decisivo e incontrovertibile: prendersi la responsabilità, assumersi una buona volta il peso di quel che significa starsene in questo mondo, in questa epoca, in mezzo agli altri! (dal momento che riesce difficile credere d’esser qui per fortuita coincidenza; nessuno può convincersi seriamente d’esser nato per un capriccio del destino). “Ma – ci si può anche domandare – responsabilità di che cosa? delle guerre? delle carestie? della corruzione? delle disuguaglianze? del clima?”.
Certamente sí; però si fa prima a dire su tutto ciò che sta succedendo all’uomo ed al suo habitat: eppure anche questo sforzo interpretativo non sarebbe sufficiente, perché, fissato in tal maniera, resterebbe una specie di moralismo, e come tutti i moralismi non serve a risollevare un’anima caduta né a risanare una coscienza malformata. I moralismi uccidono le migliori intenzioni, figuriamoci le altre!
Invece quell’impulso all’azione e alla responsabilità, di cui abbiamo parlato, dovrà venir rivolto al nostro modo di acquisire la conoscenza. Questa è la formula sulla quale Rudolf Steiner volle insistere fintanto che gli fu possibile: legare la via del conoscere ad un’operazione interiore di depurazione dell’anima, perché senza questo processo di autocatarsi, voluto e cercato, qualsiasi forma di conoscenza diventa deviante e precaria; soprattutto risulta impossibile fondare su di essa qualcosa capace di prosperare e favorire lo sviluppo del genere umano, a prescindere dalle forme e dai livelli raggiunti.
La controprova è immediata: basta considerare obiettivamente quello che noi – uomini del Terzo Millennio – abbiamo ottenuto e raggiunto fin qui, con la Scienza, scappata tutta da una parte e con la Filosofia e la Religione, che vivacchiano da un’altra, in una specie di Limbo greve e nebuloso, e non sono nemmeno in grado di comprendere in quale misura la loro latitanza possa aver influito sulle sorti dell’umanità contemporanea.
[Faccio una breve parentesi per chiarire un mio passaggio di poco fa; riferendomi a Rudolf Steiner ho parlato di una Sua “formula”: è un termine improprio che potrebbe disturbare la lettura di qualcuno. È ovvio che Rudolf Steiner non ha mai usato formule nel senso richiesto dalle scienze esatte; ma è altrettanto ovvio che la Sua Antroposofia è nata con l’intento chiaro e palese di essere l’ABC per una nuova scienza, che tenga in debito conto quella parte spirituale dell’uomo, del mondo e dell’universo, che di norma la ricerca scientifica ufficiale ha fin qui ignorato].
Le conseguenze di una tale omissione non sono piú differibili nel tempo. Qua e là, qualcuno se ne sta accorgendo; ma le forze avverse all’evoluzione umana se ne sono accorte molto prima di noi, e quindi fanno e faranno di tutto affinché una simile nuova scienza, fondata sullo Spirito, non possa trovare spazio, né venir accolta dagli uomini con la serietà e la lucida spassionatezza di cui essa ha bisogno per penetrare la cultura moderna e risollevarla dal suo decadimento materialistico.
Detto ciò, riprendo i due aforismi con i quali ho aperto lo scritto: sono convinto d’aver trovato nel primo (Whatever…) una forte propulsione alla conoscenza, proprio come quella descritta meravigliosamente da Rudolf Steiner nel primo capitolo della Filosofia della Libertà; ho poi creduto di poter trasformare l’ironia lapidaria della seconda citazione (il sonaglio della tigre…) nella forza della verità, che punta l’indice contro di me e mi apostrofa “se ti trovi in mezzo ai guai pensandoti estraneo e incolpevole, allora sei in un guaio ancora piú grosso”.
Sono quindi due belle spinte, sostanziose, consistenti: una di ordine conoscitivo, l’altra di esortazione etica; ma il problema ora è: come legarle assieme per comporle in un unico slancio?
Non sempre abbinando due facoltà distinte e separate vien fuori un esito positivo che rappresenti e valga, come minimo, la loro somma. C’è un detto antico (credo anche questo sia di provenienza dell’ Est) che suona cosí: “Lega assieme due uccelli: avranno quattro ali, ma non voleranno”.
Per cui bisogna trovare un collante eccezionale per fondere all’unisono questi due valori umani, sempre che vogliamo crederli tali, affinché la sintesi delle forze unite, si avveri nel modo migliore.
Ci sono partiti, divisioni, fazioni, schieramenti; e ci sono i loro sostenitori: se non ti collochi e non ti dichiari, ti vengono appresso e avvertono: «Guarda che cosí non si può. Devi decidere dove stare: o da una parte o dall’altra! Solo gli inetti pensano di cavarsela facendo l’altalena tra le due!».
Io, però, amavo le altalene fin da piccolo; non ci vedevo nulla di male. Poi sono cresciuto ed ho cominciato a detestare i ricatti morali. Lí del male ce ne vedevo parecchio. Tu devi fare cosí, devi fare cosà. Se non ti comporti cosí non sei un uomo. Se non voti per Tizio, non hai capito niente. Devi scegliere. Smettila di fingerti Penelope (ma evidentemente, io aspettavo Ulisse; magari per dirgliene due, per via del ritardo).
Nessuno ha mai chiesto il motivo o i motivi del mio non scegliere. A dire il vero non me li sono chiesti neppure io; ma ora che ci penso mi appaiono chiari, anzi chiarissimi! Non ho mai trovato la persona, l’idea, il partito, la fazione, la società, il club che mi sembrasse cosí interessante da aderirvi in tutto e per tutto. E in questa candida ambiguità concordavo, senza volerlo espressamente, con Groucho Marx: «Non m’iscriverei mai ad un’associazione, che mi prendesse come socio».
Il mondo degli accadimenti ha sempre riempito la mia vita di molte cose, alcune veramente ammirevoli e deliziose; ma nulla, ripeto, mai nulla, che potessi sentire come “definitivo”. Perciò navigavo a vista; e questo non veniva valutato in positivo dagli amici, che tuttavia, bontà loro! continuavano a frequentarmi, ritenendomi un po’ eccentrico, un po’ volubile, un po’ incostante, a seconda dei casi e di come tirava il vento (che, stando a Trieste, non ha bisogno di riti propiziatori).
Cosí, grazie ad alcuni eroi che non hanno mai smesso d’incalzarmi (e l’hanno saputo fare nella modalità del buon risultato) ho scoperto, di recente, d’aver ritagliato all’interno della mia interiorità una figura spirituale, conosciuta da sempre, ma che non sono mai riuscito a integrare in modo esauriente; l’avevo lasciata in sospeso, quasi aspettassi dall’alto (si fa per dire) il momento e la causa per completarla, onde far valere poi la sua determinazione.
Posso rivelarlo con serenità: si tratta del Cristo Gesú. Probabilmente non è una bella cosa che un uomo di 79 anni, dedito all’Antroposofia da 46, sveli a se stesso e agli altri, d’esser arrivato al punto di aver scoperto il Cristo. Ho la sensazione che molti ci siano giunti prima di me; anche se questa sensazione è contrastata dalla percezione di non aver trovato (nel punto d’arrivo) alcuna folla.
Ma dev’essere uno di quei pensieri impertinenti che mi sorgono solo per farmi deviare dal solco: è chiaro che, per essere ogni cammino umano prettamente individuale, anche il traguardo si presenterà di conseguenza libero dal peso delle attribuzioni mondane e dei loro contorni. In tal senso il Golgota è diverso dalla Mecca.
Perché ho voluto tirare in ballo la raffigurazione interiorizzata del Cristo Gesú? Perché la nostra possibilità di sceglier bene tra due o piú frangenti, si basa totalmente, esclusivamente, e incondizionatamente (i tre avverbi messi in fila, sono un tormentone, lo so, ma ci stavano tutti e non intendo ritrattarli) sul come abbiamo acquisito, sviluppato e fatto vivere nella nostra anima Colui che ne è sempre stato lo Sposo (l’averlo saputo a tutta prima, quale semplice nozione, oppure no, non cambia nulla).
La differenza è tutta qui: se scegliamo, decidiamo e agiamo senza il Cristo, possiamo anche far bene. Se invece scegliamo, decidiamo e agiamo col Cristo, facciamo il solo Bene.
Col Cristo Gesú, che, in quanto Logos, splende nel pensare; col Cristo Gesú, che in quanto Figlio di Dio e dell’Uomo, conferisce al nostro torpido sentire un calore particolare ed intimo; col Cristo Gesú, che convoglia nel nostro volere l’imperturbabile fermezza della Verità: si può sempre scegliere… quel che si vuole.
Per il semplice fatto (forse mai troppo sottolineato) che se la nostra scelta è giusta, ne gioiremo assieme a Lui; se è sbagliata, soffriremo assieme a Lui. In quanto Signore del Karma, ci concederà sempre la possibilità di trasformare le nostre sconfitte, omissioni, cadute e ricadute, in altrettante possibilità degne di esercitare l’Amore e la Libertà, proprio sul punto là dove abbiamo fallito; e saranno quell’Amore e quella Libertà che, volta per volta, saremo in grado di concepire e realizzare nel Suo nome.
Se uno spirito ortodosso, eccedente in zelo e vapori d’incenso, ci chiedesse anche una sola virgola di piú, la sua indicazione non verrebbe dal Dio della Misericordia, della Pietà, della Pace. Verrebbe da qualcosa d’altro; dovremmo preoccuparcene.
Perché vedete, cari amici, ritengo decisamente sbagliato rivolgersi al Cristo Gesú per chiederGli di aiutarci quando ci troviamo in una difficoltà di scelta. Egli è il Maestro della Libertà: sarebbe un assurdo che, per sopperire al nostro tentennamento, che in fondo è pure una nostra deficienza, intervenisse e ci indicasse la scelta da fare tra quelle possibili.
La vita, certamente, ci può mettere davanti a degli aut-aut terribili, talvolta esiziali, ma l’essere umano fu concepito proprio per andare incontro a tali momenti, recuperando in sé la forza di affrontarli.
A volte, i genitori, pensando di aiutarli, fanno il compito di casa o risolvono i problemini che avrebbero dovuto fare i loro figli. Ma questo tipo di aiuto è del tutto controproducente; basterebbe pensarci su un attimo.
In casi siffatti, il Cristo interiorizzato si riserva un compito diverso, ben piú prezioso e determinante per l’evoluzione umana, che non il semplice consiglio, o suggerimento sul da farsi per risolvere o aggirare il dilemma; sarebbe come chiederGli un espediente e far fare a Lui quel che in verità abbiamo voluto incontrare per penetrarlo col nostro pensare, sentire e volere. E che, è opportuno aggiungere, anche se non lo sembra, è calibrato sulle nostre misure e possibilità.
Ma poi, fermiamoci per un istante e riflettiamo. Cosa vogliamo dire quando parliamo della scelta “giusta”? Giusta per chi? Giusta secondo che cosa? Ci è già difficile ricordare quel che abbiamo mangiato ieri sera; non sappiamo neanche come dormiremo stanotte, e pretendiamo di sapere a priori la giustezza di una cosa?
Anche con la piccola, ridotta esperienza di vita che possiamo aver acquisito nel tempo, siamo in grado di riconoscere che un male può trasformarsi in un bene, e, per contro, un fatto, vissuto al momento come splendido e fortunoso, può rivelarsi in seguito una “grana” pazzesca, negativa e dura da sostenere.
L’opera del Cristo Gesú interiorizzato, va oltre il problema (piuttosto elementare se non infantile) del “questo è il mio bene / questo è il mio male”.
Egli, come riferimento di piena, completa positività, conferma in ogni singolo caso, la legge del Suo Amore per l’umano, particolarmente per l’umano che soffre e si trova aggrovigliato nelle spine degli eventi.
Lo rassicura: qualunque sia la scelta che effettueremo e della quale andremo a subire le inevitabili conseguenze in un prossimo o lontano futuro, Egli sarà con noi, sarà presente, ci resterà accanto, con la forza della Sua inesauribile disponibilità.
Nella ragione e nel torto; nel candore della buona fede e nella pusillanimità della riserva mentale; nell’esaltazione mistica di offrirsi al martirio e nella miseria di volerlo evitare caricando ad altri il proprio fardello: assieme a noi sosterrà ogni ripercussione karmica.
La Sua forza trasferita in noi, ci farà comprendere e appianare le ondate che abbiamo sollevato compiendo errori, mancanze e scelte scriteriate; e che (sapremo anche questo) non hanno danneggiato solo noi e le nostre personali esistenze.
Mi pare che, partendo dall’inizio e arrivando fin qui, si sia delineato un percorso positivo. Le parole di speranza, le parole di conforto, e tempi delle pie illusioni, non servono piú. Neanche le frasine ad effetto del “Whatever…” e della “Tigre col Sonaglio”, scoperta la loro sorniona ambivalenza, possono ancora nascondere l’inconsistenza di quanti cercano al di fuori di sé, una soluzione che non offenda le creature umane, già abbondantemente offese e calpestate dagli eventi, alla cui crescita e diffusione abbiamo tutti, in vari modi, dato il nostro obolo. A volte credendolo addirittura una contromisura, un freno, una interdizione.
Non so se l’universo abbia dei limiti, ma sono certo che in esso si esprime l’armonia e la saggezza di una dinamica vivificante: non contiene in alcun dove qualche cosa che si possa valutare come esclusivamente distruttivo.
Nei nostri piccoli universi umani invece questo “qualcosa” c’è, e quando si presenta sulla scena del mondo, si scatenano i Cavalieri dell’Apocalisse.
In tal caso è meglio dedicarsi a difendere la pace e la prosperità comuni o è meglio mettersi dalla parte dei Fuorilegge dell’Evoluzione, sperando di partecipare alla spartizione del bottino? E se crediamo di non avere il coraggio e le forze sufficienti per respingere le loro feroci razzie e devastazioni, cosa vogliamo fare?
Raggranellare qualche soldo e assumere I Sette Samurai (o i Magnifici Sette) per tener lontana la magagna in cui ci siamo purtroppo impastati?
Cavalieri Oscuri, Banditi, Fuorilegge, Uomini e omuncoli; noi tentiamo con le nostre scarne, labili parole, di distinguerli, di classificarli, di stabilire delle gradualità.
Ma questa non è l’opera del Cristo Gesú, questa è l’opera di chi ha ancora tanto cammino da fare e si confonde alla prima biforcazione di strade che incontra.
Se la sua meta è nel mondo che conosce, ama e al quale è attaccato, porterà, oltre agli altri, anche il peso dell’ incertezza della scelta.
Se invece la meta è quella di far vivere il Cristo Gesú nell’anima, non indugerà nemmeno per un attimo; prenderà la via che al pensare, sentire e volere individuali apparirà chiara ed esplicita.
Con la consapevolezza (ecco l’opera del Cristo) che una volta intrapresa, quella sarà d’ora in poi la sua Via. Dal suo compimento potrà venire soltanto il Bene.
Angelo Lombroni