Alla pagina 152 della Filosofia della Libertà (Editrice Antroposofica, Milano 1966) poche righe sopra la “Prima Aggiunta alla Seconda Edizione”, Rudolf Steiner ci offre questo pensiero: «La Moralità è una proprietà specificatamente umana e la Libertà è il modo umano di essere morali».
Dopo averlo letto, riletto, copiato, ricopiato, meditato e strameditato per quasi quarant’anni, oggi sento di poter cominciare a spiegare tali parole nella dinamicità, nell’estensione e anche nelle implicazioni che le congiungono alla vita pratica ed immediata. Il tutto, naturalmente, in relazione alla mia personale esperienza che, come sempre, può venir condivisa o respinta.
Prima, un tentativo del genere non mi sarebbe stato possibile. Perché?
Perché si tratta, a mio parere, di una concezione che travalica ogni prospettiva; si tratta di una di quelle intuizioni che per venire soltanto attenzionate nella loro dimensione, richiedono una preparazione interiore lunga e costante (cosa, quest’ultima, non abituale per il mio DNA); eppure, quand’anche lo fosse, le cose non sarebbero mutate di molto; l’anima del ricercatore dilettante fatica sempre a riconoscersi proiettata in un’espansione di quel livello, perciò la teme, la evita, ne distoglie lo sguardo. Talvolta mormora un apprezzamento, del tipo: «Bello! Davvero bello!», e con un tale giudizio affossa ogni ulteriore sforzo di andare avanti.
Infatti il bello (se proprio dev’esserci un bello) è tutto qui: l’affermazione che Rudolf Steiner fece piú di un secolo or sono, giunge a manifestazione soltanto se si decide di portarla dentro di sé, nel proprio cammino interiore. E quando dico “manifestazione” non intendo ancora dire “maturazione”.
Certamente il Dottore ha raccomandato a quanti abbiano deciso di seguire la sua Antroposofia, di limitarsi ad accogliere, in un primo momento, le comunicazioni spirituali della Scienza dello Spirito, senza formulare pregiudizi; ma ciò non implica in alcun modo il mettere a tacere le domande e le questioni che insorgono anche dal semplice ascolto o dalle letture.
Se si dovesse credere a questo, allora pure gli esercizi della meditazione e della concentrazione dovrebbero venir banditi, in quanto coinvolgenti in parte le forze della logica razionale, che, prese di per sé, di fronte ad un tentativo di ascesi interiore, valgono quanto una preparazione presunta ed incompleta rispetto ad una rifinita e consapevole.
Dire «Molto bello!» senza aver capito nulla, è l’accontentamento di chi si sente cosí povero di spirito da cercare con impegno, a tratti commovente, di non darlo a vedere a nessuno; prima di tutti a se stesso.
Quando però il turbinío esistenziale chiude finalmente il rubinetto dei banalismi estetici e quello dei commenti che fungono unicamente da paravento al nostro “non-saper-cosa-dire”, allora, forse, si può tentare di costruire qualcosa che regga a piú d’un soffio di vento.
Ai bambini non si può parlare di progetti; si può invogliarli a comporre dei pensierini, oppure dei disegni, magari suggerendo un tema, come per esempio, la famiglia, la casa o l’automobile. Ma anche qui ci sono dei limiti; tutto dev’essere semplice, di portata modesta; sarebbe inutile, pure dannoso, pretendere di piú.
Forse è per questo che fin da piccolo non ho trovato nessuno che mi accennasse all’esistenza di qualcosa di grande, qualcosa di estremamente rilevante, qualcosa in grado di apparire come un progetto enorme, fantastico; un Grande Disegno in cui poter credere, per cui poter lavorare, lottare, magari soffrire e poi vincere.
Allora finivo per crearmeli da solo, questi Grandi Disegni; me li inventavo di volta in volta, cosí come mi piaceva che fossero. A dieci anni provavo una forte attrazione per l’archeologia, poi verso i quindici, m’innamorai della fantascienza, anche se dai primi romanzetti che mi passava mio zio non ci capivo molto. Entrato nell’età liceale, mi appassionai ai gialli noire dell’epoca (anche perché pieni di riferimenti al sesso). E contemporaneamente le mie avventure immaginarie salivano di tono, si sviluppavano nell’astratto, beffandosi delle situazioni contingenti da cui partivano.
Con Salgari ero il Pirata piú temuto e rispettato, con Verne, l’Esploratore piú audace e coraggioso, con Fleming lo Spione cinico, disinvolto. tombeur de femme. Avevo il sospetto di non poter tirare avanti cosí, ma d’altra parte non vedevo alcun male nel far lavorare l’immaginazione: era un aiutino per controbilanciare lo squallore del quotidiano, dove di bello, di epico e di appagante non c’era mai nulla, proprio nulla.
Quando poi all’università volli passare da Giurisprudenza a Scienze Politiche, ero oramai deciso a fare il giornalista d’assalto. Mi proiettavo mentalmente nei piú pericolosi luoghi di guerra e di morte, per riversare sul mondo degli appassionati ascoltatori, i miei reportage terribili e veritieri. Ne ero talmente convinto che solo pochi mesi dopo, mi ritrovai in Liguria (con delega pro tempore al Piemonte e Val d’Aosta) a vendere pipe, accendigas e articoli per fumatori per una ditta di Milano (vedi un po’ come vanno le cose tra fantasia e realtà, quando il soggetto si costringe a saltare da un campo all’altro, nel fantozziano ghiribizzo di giocare a tennis con la propria solitudine).
Giravo su un camioncino Fiat 600, carrozzato Coriasco, di quelli grigi, usati prima dalla SIP e poi ceduti al sottobosco dell’usato. Attraversavo regioni, città, paesotti, valli e montagne. Ascoltavo attraverso un registratore portatile le canzoni piú in voga del momento; qualche volta cantavo anch’io, qualche altra piangevo, ma in tutti i casi mi convincevo lentamente che in questo mondo, quello che “…soltanto adesso io ti guardo”, esistono solo piccoli progetti, piccoli disegni. Se cercavi il “cielo in una stanza” , ti trovavi in bocca il “sapore di sale” di Gino Paoli, e allora con una punta di sgomento ti chiedevi assieme a Rita Pavone: “Mio cuore, tu stai soffrendo! Cosa posso fare per te?”. Ma a rispondere c’era solo “The Sound of Silence” di Paul Simon. E, colmo dei colmi, all’epoca, ignoravo perfino il nome dell’autore.
Bene; in tutti i casi, le cose giravano cosí; il mondo girava per conto suo, io giravo per conto terzi e non potevo farci niente, se non vivere una vita vagamente stramba, semi-comprensibile. Oggi, rivisitando quel passato, sorrido un pochino tra me e me; provo un pizzico di simpatia per quel giovanotto, cosí impreparato e maldestro, ma altrettanto sentenzioso, e in un certo senso spietato fino all’autolesionismo, nel giungere in fretta e furia a conclusioni sgangherate, scambiandole per caposaldi essenziali rivelatori di vita.
Eh sí! Ci sono troppe contraddizioni; viviamo di contraddizioni, ci inganniamo di continuo e solo raramente, molto raramente, avvertiamo che quel famoso “qualcosa-che-non-va” non va per colpa nostra. Per la nostra cronica, penosa, ridicola caparbietà a ritenere “giusto” soltanto quel che ci dà piacere e ci conviene, lasciando tutto il resto all’eventualità di una remota verifica, che non attueremo mai, se non costretti dai boomerang del karma, cioè proprio quando la verifica perde ogni valore.
Oggi pochi ricordano con il Manzoni, che per stare saldi in quel famoso “giusto” non basta avere la ragione; ci deve essere anche un altro che abbia il torto, e che lo riconosca palesemente, con la stessa forza con la quale noi avanziamo la difesa dei nostri offesi diritti.
Alcuni sostengono che i “moralismi” manzoniani lasciano il tempo che trovano. Forse è vero, quella del Manzoni è una realtà superata, e non può venir riproposta; ma mi dovrebbero spiegare il motivo per cui, attualizzando I Promessi Sposi con la magia di un cyber-clik, e trasformandoli in una coppia ultramodernizzata, Lorenzo Tramaglino risulterebbe di maggior credibilità come rapper dal corpo ricoperto di tatuaggi e Lucia Mondella piú affidabile, in quanto country-influencer con piercing infilati da per tutto.
In un recente passato, la moralità era sognata troppo idealisticamente, non era un’etica vera e propria, bensí un’etica piccolina; un’etichetta. Oggi però la sete di libertà assoluta e incontrastata disonora tutte le etichette del passato, travolge ogni regola di comportamento e di relazione sociale, e toglie la verecondia perfino a quelli che sarebbero disposti a pagare per riprendersela.
Questo tuttavia non si concretizza quasi mai; in sua vece, l’opposto domina il campo, sorretto dai Demoni della Menzogna e dell’Ipocrisia (che, in pratica, sarebbe sempre la vecchia menzogna, imbellettata a mo’ di mascherone e vestita da Damigella del Carnevale Veneziano).
Da ipocriti diciamo di sí, da ipocriti diciamo di no; da ipocriti stiamo zitti; da ipocriti scegliamo, partecipiamo, collaboriamo, formuliamo giudizi, sputiamo sentenze, da ipocriti ci rammaricano le disgrazie altrui, da ipocriti escogitiamo mille attenuanti per le malefatte personali.
Nulla facciamo per lo stato e per le istituzioni, anzi, là dove è possibile cerchiamo di sottrarci ai doveri civici, scavalcando le procedure o corrompendone i percorsi; ma da queste istituzioni pretendiamo poi di tutto e di piú; se ci pare di non aver avuto sufficiente riscontro, non esitiamo a chiamare in giudizio ministeri ed enti pubblici, al grido di: «Avete leso i miei diritti!».
Come se gli uomini incaricati di amministrare e tutelare i popoli fossero diversi da quelli che, a livelli variamente stratificati, siamo noi stessi, con le nostre brame, le nostre fobie, e le nostre lacune. L’ego di un manovale o di un garzone del barbiere, non si discosta molto da quello di un giurista, di un amministratore delegato, o di un deputato. Premier, Leader, VIP, CEO o Tycoon sono tali (solo transitoriamente) per i rotocalchi della mondanità e per il popolo dei faciloni semplicistici.
Pare d’essere in un mondo dove gli Altolocati s’incontrano con Minusquam nell’unico punto comune possibile: hanno ottenuto (senza studiare) la laurea a pieni voti presso la Hypocrisy University of LiarLand, ed ora si esplicano nel modo a loro piú congeniale; i primi, fingendo di voler governare rettamente, i secondi, recitando la parte di bravi e onesti cittadini. In effetti, ricordando Orwell, si può dire che, nel Tempo dell’Inganno Universale, chi afferma una verità è un ribaldo sovversivo.
Ecco perché il Pensiero di Rudolf Steiner mi si è incastrato nell’anima fin dal primo incontro con la Filosofia della Libertà. Appartenente all’umanità di questo periodo, ed essendo quindi bastevolmente corrotto fino al midollo (si fa per dire, ma il flash è d’obbligo) quale tipo di comprensione avrei potuto formulare sul pensiero di Rudolf Steiner richiamato prima, che non fosse una pura fuggevole, stantía sensazione di un imprecisato benessere interiore tutto da avverarsi e in cui poter sperare, mentre mi dibatto tra i morsi delle necessità incombenti da una parte e i rosicchíi dell’angoscia esistenziale dall’altra?
Correva l’anno 1976, avevo smesso di vendere tabacchiere e filtri nel Nord Ovest, ero rientrato a casa, dove la fidanzatina (che credevo in attesa del sottoscritto) stanca della mia lontananza, si era sistemata per conto suo; quindi non mi restava altro che riprendere gli studi interrotti di Scienze Politiche, trovarmi un nuovo lavoro, cercare una fidanzatina meno volatile e, in alternativa, continuare a sognare sui Grandi Disegni.
Nel giro di pochi anni, venni esaudito su ogni punto: tornai all’Università, fui introdotti nel campo del lavoro assicurativo, conobbi una signora che in breve divenne mia moglie, e qualcuno, che non dimenticherò mai, mi presentò prima La Logica Contro l’Uomo di Massimo Scaligero e subito dopo La Filosofia Della Libertà di Rudolf Steiner: ora il Grande Disegno c’era, non era piú un parto della fantasticheria giovanile.
Certo! Non solo a quel tempo ignoravo gli sviluppi futuri che il quartetto karmico mi stava orchestrando, ma per lungo tempo non mi riuscí neppur di capire che gli starter avevano già sparato il colpo d’avvio e mi ritrovavo impegnato in una competizione su quattro specialità.
Tuttavia, inconsciamente preoccupato per l’ampiezza del range sperimentale, ridussi subito la mia partecipazione a tre soli test, tagliando fuori l’Università che mi appariva (in quel momento) troppo teorica per darmi i risultati concreti che invece perseguivo e di cui avevo bisogno.
In buona sostanza venivo necessitato, ma continuavo a ritenermi libero di scegliere, secondo il costume epocale; e tale contraddizione – che avrei dovuto assolutamente in qualche modo chiarire e affrontare con me stesso – si protrasse per decine di anni, rendendo i corsi del mio matrimonio e quello del lavoro sempre piú pesanti e difficoltosi.
Come può, un 35enne di belle speranze, cogliere intuitivamente il seguente arcano:
► o la Logica (contro l’Uomo) decide di immergersi nella Filosofia (della Libertà), e la Filosofia (della Libertà), dal canto suo, la rifornisce dell’energia necessaria (dicesi anche Moralità) per convertirla in autentica Forza-Logos;
► oppure il Grande Disegno, per quanto diligentemente coltivato in pectore, si sfalda in una serie innumerevole di disegnini, fino a quando l’esistenza stessa non si trasforma in un album-raccolta di fumetti? (ci metto l’interrogativo perché in fondo la frase era nata come una domanda).
«Il seguace del monismo – afferma Rudolf Steiner nel punto della sua Filosofia precedentemente indicato – sa che la moralità è una proprietà specificatamente umana…». Ed io, che fin qui non ero mai stato seguace di niente, mi chiedevo: «Che intende Rudolf Steiner per “proprietà”?».
Normalmente si crede che una proprietà debba essere qualcosa di simile alla facoltà; i termini però non combaciano; posso dire; «sono proprietario di una casa», oppure: «ho la facoltà di parola», ma sono due cose distinte: nella prima viene sottinteso uno status duraturo dell’avere, l’altra è una disponibilità temporanea al fare. Possesso e potenzialità non si sormontano. A meno che uno non disponga, magari senza saperlo prima, di una potenzialità; in tal caso il possesso c’è, ma è puramente virtuale. Se, in seguito, la potenzialità viene espressa grazie ad una coscienza capace di afferrarla all’interno di sé, allora essa può trasformarsi in una proprietà, in quanto riconosciuta ed esperita dal soggetto.
Questa è un’evenienza che riguarda ciascun essere umano, nessuno escluso; diventa allora piú efficace, piú comprensibile, l’avverbio “specificatamente” usato dal Dottore (bisognerebbe soprattutto andare a controllare la versione originale in lingua tedesca!). L’avverbio ha senza dubbio un valore rafforzativo, ma solo ora, dopo averci riflettuto sopra per un bel po’, finalmente realizzo che esso era stato messo lí a significare la sua appartenenza a tutto il genere umano.
A questo punto si potrebbe anche pensare che il termine in questione abbia il medesimo senso di carattere, caratteristica o caratteriale. Ma non è cosí. Nessuno può definirsi padrone del suo carattere, anzi. Quasi sempre la realtà sta agli antipodi. Mentre invece, è corretto sentirsi proprietari di una forza, che abbiamo scoperto da noi e in noi, come congenita, ma al contempo inespressa; nell’affinarla, nell’apprenderne tempi e modalità d’impiego, diventarne legittimi proprietari, ma non per un fatto di natura, o per un automatismo di crescita, bensí per uno sviluppo interiore voluto e cercato, che ci ha visto partecipi, a volte pure in mezzo ad impedimenti e disagi, e qualche volta grazie a questi.
«…E la libertà è il modo umano e di essere morali» Anche la seconda parte del pensiero di Rudolf Steiner, si presenta in un modo estremamente gradevole, ma ermetico, all’anima del lettore; talmente gradevole che spesso, dopo averne acquisito l’immediato significato, la si lascia lí come un ricco mazzo di fiori al centro tavola, lieti e sicuri del suo bel figurare.
Devo dire che, di fronte a tale inciso, sono passato, per un periodo di tempo piuttosto lungo, attraverso contrastanti sentimenti; non vi trovavo nulla da comprendere razionalmente, ma sapevo già che questo non era il problema. Il problema invece stava tutto nella mia incapacità di saldare il concetto di Moralità con quello della Libertà.
Voglio dire che pur apparendomi come due grandi temi diversi, avvertivo che Rudolf Steiner invitava il lettore a creare una connessione, a stabilire tra essi un vincolo dal quale emergesse tanto indissolubile quanto essenziale la forte reciprocità del rapporto.
Dovetti prenderla alla larga, e aiutarmi con parecchi passaggi-ponte; avevo bisogno di intuizioni ma anche di sensazioni e sentimenti che le convalidassero; non mi servivano piattaforme astratte su cui erigere ipotetiche strutture congetturali.
Sono venuto a sapere proprio in questi giorni, che a seguito dei misfatti verificatisi negli Stati Uniti, le autorità hanno pensato bene di adottare, quale provvedimento contenitivo, il limite della maggiore età (21 anni) per l’ acquisto di armi d’assalto nei negozi specializzati (e mi auguro anche nelle vendite online).
La notizia (che in apparenza non dovrebbe entrare per nulla con il tema Libertà-Moralità) ha fatto traboccare il (mio) vaso e sulla spinta di quest’ultima scelleratezza, penso d’essere riuscito a collegare il significato della Libertà con quello della Moralità. È molto semplice: il mondo degli ipocriti si esclude a priori da ogni possibilità del collegamento.
Fino a che pensiamo, sentiamo, amiamo, odiamo, ci diamo da fare da ipocriti, fintanto che, da ipocriti ci autoconsideriamo galantuomini, la Libertà sarà percepibile esclusivamente (sottolineo esclusivamente) in quella mastodontica statua che vorrebbe illuminare il porto di New York (e se possibile pure il mondo intero). Se ricordo bene, Fabrizio De André, in una sua canzone, la dipinse come “La Grimilde di Manhattan”; e la Moralità resterà invece circoscritta ai sermoni e alle omelie dei “cult dispencer”, quale stimolo toccante, a volte imperioso a volte commovente, capace di far vibrare le corde animiche degli ascoltatori per qualche manciata di minuti.
Naturalmente sono partito dagli States in quanto la Statua della loro Libertà è un tentativo di gigantismo emblematico piuttosto difficile da trascurare; ma non è che in Europa o nelle restanti parti del globo, le cose vadano poi meglio. Statue, simboli e totem sostituiscono da tempo idee, concezioni e produzioni intuitive. La Moralità invece è scomparsa senza lapidi e commemorazioni.
Perfino nel proporre i suoi raccapriccianti, sterili slogan, la pubblicità ricorre con notevole frequenza al leit motiv di “Libertà no problem!”, “Tempo libero senza pensieri!”, “Via con zero pensieri!” o amenità di tal fatta, per puntualizzare (o suggerire, o sottolineare) che il problema della libertà umana non c’entra per nulla con la facoltà del pensare. Per quanto invece attiene alla Moralità, il moralismo perbenistico ed il buonismo da quattro soldi, sono piú che sufficienti per convincere le cricche dei follower, che nell’attuale guazzabuglio animico c’è posto anche per la rettitudine.
«Límitati a perseguire il tuo benessere, la tua felicità e a consumare i prodotti che ti propiniamo indefessamente; a pensare, ci pensiamo noi, che sappiamo come fare. E poi tu ci hai votato, tu ci hai eletto, ci hai dato i tuoi endorsement, hai fatto in modo che andassimo a governare; di che cosa dovresti lamentarti? Fino ad oggi hai avuto la pancia piena e tutti i diritti della democrazia parlamentare per dessert. Ti abbiamo pure aumentato il numero delle partite di calcio, inventando nuove Coppe e Trofei, per dilettarti e mantenere la tua salute psicofisica su di tono. Sí, è vero! Qua e là volano missili, piovono bombe, si lanciano granate e sparano i cannoni; ma è solo per farti vedere quel che succede se t’intestardisci col problema della Libertà. Sono esempi edificanti per farti apprezzare quel che hai già e che, con quei tuoi pruriti intestini, potresti perdere da un momento all’altro. Accontentati dunque di quel che hai oggi e non andare in cerca di complicazioni gratuite adottando ideologismi di parte come fossero orfanelli del Terzo Mondo. Nell’epoca nostra, la Libertà, o è un problema di lana caprina gestito da cavillosi topi di biblioteca, oppure è un agitarsi di popolazioni particolarmente rozze ed arretrate, utili tuttavia a monitorare il progresso altrui, e perciò le loro tribolazioni si giustificano da sé, sia sul piano della storia che su quello del gioco degli equilibri sans frontières. Eppoi, quanto viene distrutto oggi, sarà da ricostruire ex novo domani; con buona volontà, un pizzico di fortuna e con la gioia di banche, imprenditori e affaristi, tutto tornerà, forse, anche meglio di prima».
Sarebbe dunque questo il senso ultimo del moderno pacifista: trasformare le potenziali virtú dell’umano in stati di necessità subumani. Del resto, c’è già riuscito con la filosofia, la scienza e l’arte, non vedo la ragione per cui non debba riuscirci anche con la socialità.
► Per quanti desiderano, malgrado tutto, operare contro l’andamento descritto ed evitare in qualche modo gli ulteriori sfaceli che ne conseguiranno;
► per quanti hanno ancora a cuore il pensiero di Rudolf Steiner, che ci aveva anticipato ampiamente il quadro dell’attuale situazione;
► per quanti ritengono ipocriti e malvagi tutti gli aiuti, i soccorsi, le promesse e le garanzie provenienti dai veri nemici dell’umanità;
abbiamo una Scienza dello Spirito, abbiamo l’Antroposofia del Dott. Steiner, abbiamo la Filosofia della Libertà.
In essa risulta che:
«la Libertà è il modo umano di essere morali».
Se vogliamo lo possiamo dire con parole diverse; non credo vi sia alcun male; non si tratta di tradurre o di interpretare; si tratta di giungere per strade diverse alla medesima meta, e questo, credo, sia non soltanto un esercizio interiore legittimo e prezioso, ma anche un dovuto segno di rispetto nei confronti di colui che ce ne ha offerto la possibilità.
Nella mia versione “ il modo umano d’essere morali” si esplica cosí: «Il cammino verso la Libertà è un processo di guarigione generalmente lungo, discontinuo, che presenta talvolta aspetti anche cruenti; ma solo attraverso questo cammino, gli esseri umani che abbiano coltivato l’idea della Moralità e se ne siano dati una precisa conformazione interiore, diventeranno Uomini Liberi (ovvero accederanno alla fase evolutiva che Rudolf Steiner ebbe a chiamare dell’Individualismo Etico)».
Non pretendo in alcun modo di far passare la mia parafrasi per l’unica veritiera possibile; anzi, sono fermamente convinto che ognuno debba sentirsi libero di cogliere nelle parole del Dottore quella parte della loro essenziale valenza, verso cui sente maggiore richiamo.
Ma, come sempre, una cosa è sostenere di volerlo fare, un’altra cosa è farlo.
Angelo Lombroni