Otto giorni fa, quando ho cercato di spiegare la natura della ricerca scientifico-spirituale e la sua relazione con il Mondo spirituale, mi sono preso la libertà di far notare che non è affatto sorprendente per coloro che stanno all’interno di questa scienza spirituale – perché in un certo senso riconoscono in essa le mete della loro vita – che questa scienza spirituale trovi la piú varia opposizione, incomprensione e cosí via dai piú diversi punti di vista del presente. Ora non considero assolutamente mio compito entrare in una discussione sulle singole opposizioni o sui singoli punti di vista da cui nascono tali malintesi e opposizioni, perché c’è un altro punto di vista che si può prendere nei confronti di questa tematica, cioè quello di cercare di scoprire le radici di ogni possibile opposizione alla Scienza dello Spirito. Se si comprendono queste radici, allora anche molte cose individuali dell’opposizione diventano spiegabili. Ora, vorrei però dichiarare che ciò che da anni mi è permesso di presentare in questo luogo come Scienza dello Spirito non è la stessa cosa di quella che altrove viene chiamata “Teosofia”. Perché ciò che oggi viene a volte definita Teosofia offre pochi spunti per essere d’accordo con lei. La Scienza dello Spirito qui rappresentata può essere chiamata teosofica da un punto di vista legittimo, non da quello dei pregiudizi contemporanei, né da quello di qualsiasi aspirazione ambiziosa che si attribuisca il nome Teosofia. E questo giustifica l’argomento di questa sera, che è quello di discutere la relazione tra la Teosofia e ciò che nella stessa natura umana si ribella a questa Teosofia. Si potrebbe definirlo come uno stato d’animo troppo spesso frequente, che per passione, per sentimento, ma spesso anche per una certa convinzione, pensa di doversi rivoltare contro la Teosofia, e che qui sarà definito Antisofia.
Se considerate oggi ciò che è stato detto otto giorni fa, ricorderete come sia stata attirata l’attenzione sul fatto che la Scienza spirituale – che oggi possiamo definire teosofica, perché la Scienza spirituale deve essere intesa come teosofica – la Teosofia dunque, arriva alle sue intuizioni quando l’anima umana non rimane semplicemente dove si trova nella vita quotidiana, ma quando questa anima umana, attraverso il proprio impulso, attraverso la propria attività, subisce uno sviluppo in se stessa. E tale sviluppo può essere realizzato. Dagli accenni dati nella prima conferenza di questo inverno, abbiamo visto che attraverso un tale sviluppo l’anima umana arriva a una condizione interiore abbastanza diversa da quella che ha nella vita quotidiana, che il modo di sentire, il modo di porsi nel mondo diventa alquanto diverso da quello che ha nella vita quotidiana. Attraverso lo sviluppo qui inteso, nell’anima umana nasce, per cosí dire, qualcosa che è come un sé superiore nel sé ordinario, un sé superiore che, per usare l’espressione di Fichte, è dotato di sensi superiori, di sensi che percepiscono un vero mondo spirituale, cosí come l’anima percepisce il mondo fisico naturale con l’aiuto dei sensi fisici.
La base di tutta la Teosofia è che la conoscenza non è da ricercarsi nello stato ordinario dell’anima, ma in uno stato ancora da sviluppare. Si vede però subito che un certo presupposto è alla base di quanto appena detto, un presupposto che, tuttavia, non rimane un grande presupposto per colui che intraprende realmente il cammino indicato nella descrizione di questo sviluppo. Quello che sembrava essere un presupposto, diventa per lui un’esperienza reale, un fatto sperimentato. Il prerequisito sembra essere quello che fondamentalmente vive come un desiderio in ogni anima umana, per quanto si possa obiettare e per quanto gli si obietti; sembra essere un presupposto che l’uomo, se solo scende abbastanza in profondità nella sua anima, troverà qualcosa in quest’anima che lo lega al mondo divino-spirituale, che è il principio dell’esistenza. La meta, il desiderio di ogni anima umana è di trovare nel proprio sé il punto dove l’anima autocosciente è radicata nel fondamento cosmico divino-spirituale. E a questo scopo, a questo anelito, si riconosce pienamente e consapevolmente tutto ciò che si chiama Teosofia, o che ha almeno il diritto di definirsi tale. Di conseguenza, la definizione “Antisofia” sarebbe molto facile da afferrare in un’idea, in un concetto. Sarebbe un’opposizione a tutto ciò che vive nell’anelito verso questo scopo: di cogliere cioè quel punto profondo dell’anima umana in cui essa è collegata con le eterne fonti primordiali dell’esistenza.
Come può svilupparsi una tale Antisofia nell’anima umana? All’inizio si potrebbe pensare che è paradossale, strano, che un’opposizione possa sorgere contro ciò che si deve riconoscere come la piú nobile aspirazione dell’anima umana. Ma ecco: proprio la Scienza dello Spirito mostra che l’Antisofia non è qualcosa di cosí interamente arbitrario nell’anima umana, ma che al contrario è fondata nell’anima umana in un rapporto necessario in un certo senso, che appartiene in un certo modo alla natura, all’essenza di quest’anima umana. In realtà, l’anima umana non ha una mentalità teosofica fin dall’inizio; in effetti, sin dall’inizio, ha una mentalità antisofianica. Bisogna approfondire alcune delle riflessioni della stessa Scienza dello Spirito se si vuole apprezzare in modo adeguato questa affermazione apparentemente paradossale.
Quando il ricercatore spirituale sperimenta veramente qualcosa di ciò che è stato descritto nella lezione precedente, quando raggiunge l’altra condizione della sua anima, cioè il passaggio caratteristico dello stato d’animo, allora entra in un vero mondo spirituale. Davanti al suo sguardo spirituale, ciò che può essere chiamata natura esteriore, mondo dei sensi esteriore, è allora come se si spegnesse istantaneamente: è ancora presente solo come un ricordo di ciò che è stato sperimentato nella coscienza ordinaria, mentre gli appare un mondo spirituale reale, concreto, un mondo spirituale in cui l’anima umana può essere riconosciuta non solo nel tempo che vive tra la nascita, o il concepimento, e la morte, ma può anche essere riconosciuta nel tempo tra la morte e una prossima nascita.
Nell’ultima conferenza è già stata richiamata l’attenzione sulle ripetute vite terrene. L’uomo si riferisce dunque a quell’esistenza in cui è uno Spirito tra gli Spiriti, in cui si trova quando, con la morte, ha deposto la sua esistenza corporea. E questo mondo è sperimentato come la natura esterna, è esperienza per i sensi esterni; in questo mondo l’anima è con quelle forze che non solo sono di fronte all’uomo nella coscienza ordinaria, ma che compongono questa stessa coscienza ordinaria. Sí, questo è anche il mondo che costruisce gli strumenti per la coscienza ordinaria e l’intera corporeità con tutto il sistema nervoso. Diventa una verità per il ricercatore spirituale che noi, come esseri umani, non solo siamo costruiti a partire da ciò che si trova nella linea dell’ereditarietà, ciò che discende dai nostri antenati, ma che nel sistema di queste forze fisiche interviene ciò che discende dalle regioni dell’anima spirituale e rappresenta un sistema di forze spirituali che si impossessano dell’organizzazione fisica dataci dal padre e dalla madre, e in essa formano plasticamente ciò che dobbiamo diventare secondo le precedenti vite terrene che abbiamo vissuto. Qualcosa come il dilatarsi della memoria avviene attraverso quella scienza spirituale di cui ho parlato l’ultima volta, un dilatarsi della memoria di là dalla presente esistenza terrena in regioni di un’esperienza spirituale.
Quando consideriamo cosí il mondo e il divenire umano, si pone davanti all’anima in un modo molto speciale un certo confine che si verifica in questa vita umana, un certo crocevia. È il crocevia che si trova nel primo sviluppo infantile dell’essere umano. Lí vediamo come l’uomo nel primissimo sviluppo dell’infanzia vive qualcosa come una vita onirica, vive qualcosa come una vita che deve prima acquisire la piena chiarezza della coscienza dell’Io, la piena chiarezza del ricordo delle esperienze.
Quella della prima età dell’infanzia è una coscienza spenta. Nell’esistenza l’uomo dorme o sogna, per cosí dire, se stesso; ciò per cui ci sentiamo effettivamente umani, la nostra vita interiore sviluppata con il suo chiaro centro di autocoscienza, appare solo ad un certo punto, ad una svolta della nostra vita infantile. Secondo la Scienza dello Spirito, cosa si manifesta effettivamente prima di questa svolta?
Quando il ricercatore spirituale guarda il bambino prima che abbia raggiunto questo punto di svolta, vede come le forze spirituali, che sono scese dal mondo spirituale e hanno afferrato l’organismo per formarlo plasticamente in accordo con le precedenti vite terrene, lavorino pienamente su tutto l’organismo. E poiché la totalità delle forze spirituali che compongono l’anima dell’essere umano si riversa in tutto ciò che vive e tesse nell’organismo, che lo forma, lo costruisce e lo organizza in modo tale che possa poi diventare lo strumento dell’essere autocosciente, perché quindi tutte le forze dell’anima sono utilizzate per costruire questo organismo, non rimane nulla nella primissima infanzia che possa in qualche modo tradursi in una chiara autocoscienza. Tutte le forze dell’anima sono utilizzate per costruire l’organismo; e una coscienza che utilizza se stessa per costruire l’essere organico può al massimo raggiungere lo stato di sogno, ma è in gran parte una coscienza addormentata.
Cosa si verifica allora per l’essere umano in quel punto di svolta di cui ho parlato?
Gradualmente l’organismo, il corpo, presenta sempre piú resistenza. Si potrebbe descrivere questa resistenza dicendo che il corpo si solidifica progressivamente in se stesso; il sistema nervoso in particolare si solidifica, non può piú essere modellato completamente, plasticamente dalle forze dell’anima, offre resistenza. Vale a dire, solo una parte della forza dell’anima può riversarsi nell’organizzazione umana; un’altra parte è, per cosí dire, respinta, non può trovare sbocchi per farsi strada in questa organizzazione umana. Per mostrare cosa accade realmente posso usare un’immagine. Perché quando ci mettiamo davanti a uno specchio possiamo sempre vedere la nostra immagine? Lo possiamo perché i raggi di luce vengono rinviati dalla superficie riflettente. Non possiamo guardarci nel vetro trasparente perché i raggi di luce lo attraversano. Cosí è per il bambino nella sua prima infanzia: non può sviluppare l’autocoscienza, perché tutto ciò che è presente nei poteri dell’anima lo attraversa come i raggi di luce attraversano un semplice vetro. È solo a partire dal momento in cui l’organismo si è solidificato in se stesso che una parte della forza dell’anima viene riflessa, proprio come i raggi di luce vengono riflessi dal vetro dello specchio. La vita dell’anima si riflette allora in se stessa ed è ciò che risplende come autocoscienza. Questo è ciò che costituisce la nostra effettiva esperienza essenzialmente umana nella vita terrena. E quando la svolta è avvenuta, viviamo in questa vita riflessa dell’anima.
Cosa significa adesso lo sviluppo del ricercatore spirituale in relazione a questa vita dell’anima? Direi che, come l’ho descritto la volta scorsa, è davvero come un salto nell’abisso. È tale che il ricercatore spirituale deve lasciare la regione della vita dell’anima riflessa; dopo questa svolta, deve lasciare tutto ciò che è appena emerso come vita animica e deve penetrare in quelle forze creativamente attive e formatrici che erano presenti prima di questa svolta. In ciò che è presente nell’essere umano prima di questa svolta nella piú tenera età infantile, il ricercatore spirituale deve ora immergersi con piena coscienza, con quella coscienza che si è formata nella vita riflessa dell’anima. S’immerge allora in quelle forze che costruiscono l’organismo dell’essere umano nella piú tenera infanzia, che poi non si possono piú percepire, perché l’organismo si trasforma, per cosí dire, in uno specchio. Il lavoro del ricercatore spirituale deve effettivamente far superare questo abisso. Da quella che è una vita animica riflessa dalla natura organica, deve entrare nella vita animico-spirituale creatrice. Deve, per usare una espressione filosofica, passare dal creato al creativo. Poi, quando si immerge in quelle profondità che stanno, in un certo modo, dietro lo specchio organico, percepisce qualcosa di molto preciso. Allora percepisce veramente quel punto in cui l’anima si unisce al mondo creativo, fonte cosmica dell’esistenza.
Ma in piú egli percepisce qualcos’altro: percepisce come abbia un significato il fatto che tutto questo sia avvenuto. Se non ci fosse stata la svolta, se non ci fosse stato il salto indietro, l’uomo non sarebbe mai potuto arrivare al pieno sviluppo della coscienza terrestre, alla chiara consapevolezza di sé. In questo senso, la vita sulla Terra è l’educazione all’autocoscienza. Il ricercatore spirituale può penetrare in quella regione, di cui altrimenti fa l’esperienza solo come in un sogno, solo se prima ha ottenuto i requisiti necessari nella vita terrena, se si è educato all’autocoscienza, e se poi è penetrato con questa autocoscienza in quella regione dove altrimenti si vive senza autocoscienza.
Da questo risulta però evidente che la cosa piú preziosa che l’uomo può acquisire per la vita terrena, e per la quale entriamo effettivamente nella vita terrena, cioè l’autocoscienza consapevole, è preclusa alla vita terrestre ordinaria come esperienza delle radici reali dell’esistenza. Nella vita quotidiana e nella scienza ordinaria, l’uomo vive all’interno di ciò che, dopo questa svolta, tesse e intreccia la sua vita animica. Deve viverci dentro per poter raggiungere la sua meta terrena. Questo non vuol dire che, in quanto ricercatore spirituale, non possa uscirne e gettare uno sguardo nell’altra regione dove si trovano le sue radici. Forse posso anche esprimermi in questo modo: l’uomo deve uscire dalla regione della natura creatrice per confrontarsi con il suo essere ripiegato su se stesso e ritrovarsi cosí in relazione con la natura animico-spirituale che è legata alle fonti dell’esistenza.
Come vediamo, a causa del suo compito terreno, l’uomo è effettivamente separato da quella regione in cui egli, in quanto ricercatore spirituale, deve trovare ciò che può essere trovato nella Scienza dello Spirito. Se l’uomo, senza avere una formazione scientifico-spirituale, dovesse mai mettere insieme ciò che può sperimentare in una regione o nell’altra, non sarebbe mai in grado di arrivare a una posizione veramente chiara all’interno del mondo in simili momenti di confuso amalgama. Tutta la sensibilità umana si basa sul fatto che l’essere umano sia separato dalle fonti e dalle radici dell’esistenza, dove si può trovare il mondo spirituale nella sua intimità. E quanto piú l’uomo vuole vivere nel mondo dei sensi, quanto piú chiaramente vuole collocarsi in esso e sentirsi in esso, tanto piú deve allontanarsi dal mondo superiore. Ciò che abbiamo come conoscenza pratica ordinaria di tutti i giorni ha precisamente la sua forza, il suo potere, grazie a quell’allontanamento che ho appena descritto.
C’è dunque da meravigliarsi se l’essere umano impara prima ad apprezzare ciò che ha essendo posto fuori dal mondo spirituale? Nella vita ordinaria non è nel mondo spirituale, non è in quello che è la fonte della sua esistenza. E si è dovuto tirarlo fuori, affinché vivesse la sua esistenza terrena in modo corrispondente. Nell’essere umano si sviluppa in questo modo naturalmente l’apprezzamento di tutto ciò che non è collegato alla fonte dell’esistenza. Si sviluppa un apprezzamento di una conoscenza e un’adesione a tutto ciò che è al di fuori della fonte dell’esistenza. Quindi, nel momento in cui gli appare qualcosa che vuole portargli notizie da un mondo in cui inizialmente non fa parte, è naturale che l’uomo con una tale visione la rifiuti. Perché deve in fondo concepirlo come qualcosa al di fuori di dove si trova naturalmente. Attraverso la vita nella sua anima, l’uomo non è dunque disposto a riconoscere ciò che, per cosí sua interna coesione, nella misura in cui si pone al di fuori di questa radice animico-spirituale del mondo.
Nella vita ordinaria, l’uomo è antisofianico, non teosofico, e sarebbe ingenuo credere che la vita ordinaria possa essere diversa da quella dell’Antisofia. Può però diventare teosofico quando nell’anima gli sorge dapprima una nostalgia, come un ricordo di una patria perduta, e poi, attraverso un sano riconoscimento, sorge sempre di piú in lui l’impulso a penetrare nella radice animico-spirituale del mondo stesso. L’atteggiamento teosofico deve prima essere acquisito dall’atteggiamento antisofianico. In un’epoca come la nostra, avviene essenzialmente il contrario per molte anime. Nella nostra epoca, in cui la cultura esterna ha raggiunto risultati cosí ammirevoli, si è sviluppato qualcosa che fa nascere un’inclinazione naturale per l’esperienza esterna, che respinge il desiderio appena indicato. È abbastanza comprensibile, soprattutto nel nostro tempo, che l’anima umana sia antisofianica. Ma bisogna riconoscere per il nostro tempo la necessità di un approfondimento teosofico dell’umanità in tutta la natura dello sviluppo umano da un lato, e dall’altro proprio in ciò che si manifesta nel presente. Perché l’osservatore dello sviluppo dello spirito umano si trova di fronte a molte cose. Ne indichiamo una che può mostrarci come nel nostro tempo uno stato d’animo antisofianico sia qualcosa di scontato.
Diogene Laerzio racconta che una volta al vecchio sapiente greco Pitagora, che era considerato un uomo molto saggio, fu chiesto da Leon, il sovrano di Flionte, come si situava effettivamente nella vita, come percepiva la vita. Si dice che Pitagora abbia detto quanto segue: «Mi sembra che la vita sia come un insieme di feste. Ci sono dunque delle persone che vengono per prendere parte ai giochi come combattenti; altri vengono come commercianti per il profitto; ma c’è un terzo tipo di persone che vengono solo per guardare la festa. Non vengono per unirsi ai giochi con la loro partecipazione personale, né per il gusto di vincere, ma per guardare. Ecco come mi appare la vita: alcuni perseguono il loro piacere, altri il loro guadagno; ma poi c’è chi, come me, si definisce filosofo in quanto ricercatore della verità. Essi sono qui per guardare la vita; si sentono come trasportati da una patria spirituale al mondo terreno, guardano la vita e poi ritornano alla patria spirituale».
Ora, naturalmente, si deve prendere un tale discorso come un confronto, come un’immagine. E probabilmente si otterrebbe la comprensione completa di Pitagora solo se si aggiungesse qualcosa di complementare, senza cui questo detto potrebbe essere interpretato molto facilmente come se i filosofi fossero solo cialtroni e buoni a nulla. Per Pitagora, naturalmente, significava che i filosofi, con la loro ricerca, possono essere utili ai loro simili non solo stimolandoli a cercare, ma anche cercando ciò che non è direttamente utile alla vita. Ma questo è ciò che, evolvendo sempre di piú in se stesso, conduce alla radice dell’esistenza; cosí che ciò che è considerato, per cosí dire, “senza scopo”, è ciò che conduce all’eterno nell’anima umana. È questo che si dovrebbe aggiungere. Ma Pitagora intendeva esprimere qualcosa di particolare: cioè che nello sviluppo dell’anima umana si trova l’impulso di immergersi nell’eternamente imperituro, in ciò che non è messo al servizio dell’utilità esteriore, ma che è approfondito in se stesso; che si deve quindi sviluppare qualcosa nell’anima che non può essere applicato direttamente nella vita esteriore, ma che l’anima umana sviluppa da un impulso interiore, da un desiderio interiore e dalla determinazione. Il riconoscimento di tale aspirazione si trova in Pitagora, nel lontano passato della vita intellettuale europea.
Rudolf Steiner (1a parte – continua)
Conferenza tenuta a Berlino il 6 novembre 1913.
O.O. N° 63 – Traduzione di Angiola Lagarde.
Da uno stenoscritto non rivisto dall’Autore.