Pochi giorni fa, da qualche parte, ho trovato questo pensiero attribuito a Nelson Mandela: «Nella mia vita, non ho subíto sconfitte, perché ho vinto oppure ho imparato».
Una frase meravigliosa che mi sono affrettato a ricopiare con cura nel mio diario delle cose da non dimenticare; una specie di balsamo per l’anima nei casi di afflizione, sbandamento, o di uno di quei momenti particolari in cui è facile cadere e dai quali è difficile uscir fuori e recuperare.
Era inevitabile che prima o poi mi capitasse l’occasione di tirare un parallelismo con la situazione in corso attinente la politica generale e geopolitica in particolare, quella che ci sta angustiando da mesi: in una parte, palesandosi come cronaca di morte e distruzione, in altre, geograficamente meno esposte, producendo inevitabili complicazioni, altrettanto nefaste e preoccupanti.
Assieme a molti, anch’io mi sono chiesto: “Come andrà a finire?”
Che poi tutto sommato equivale alla domanda di sempre: “Chi la spunterà su chi?”.
E cosí sono entrato, quasi senza accorgermene, nel tema di questo nuovo articolo: Vincitori e Vinti. Ma chi può dirsi l’uno e chi può dirsi l’altro se su questa terra tutto è transitorio?
Un tema che appassiona, seduce e contemporaneamente impedisce di pensare ad altre cose, magari piú importanti. Eppure di fronte a uno scontro, a un litigio, a una sfida, di fronte al fatto di sangue di invasori, di aggrediti e di invasati (no, non è una svista, forse non c’entra, ma io non toglierei l’aggettivo) la nostra anima non può resistere alla tentazione, si lascia invasare pure lei e lo vive come obbligo di parteggiamento.
Avverte la ferrea morsa del dover agire, fare qualcosa e farla con urgenza; di prendere posizione, d’intervenire (a debita distanza, si capisce, perché abbiamo anche noi i nostri impegni), insomma di schierarsi per il pro o per il contro. Un bel dilemma, che tende a confonderci ancor piú di quando credevamo di non essere confusi.
«Ma davanti al sopruso, davanti allo strapotere e all’arroganza – sosteneva un’amica di Cesena, calcando un po’ l’accento locale – se un uomo è un uomo, non può mica starsene lí con le mani in mano!».
Io ribadivo che tale riflessione le veniva spontanea in quanto donna, pertanto esonerata dal compito dell’“uomo che deve fare l’uomo”; ricordo però che questo non la calmava affatto.
Cavalcando le onde dei media con l’esuberante eccitazione dei cowboy da rodeo, abbiamo oggi gli ingredienti per poter scatenare un nuovo conflitto a largo raggio; li abbiamo raccolti in misura completa, per il semplice motivo (sarà magari una fissazione incoerente come sono a volte le fissazioni quando non celano presagi) che era proprio questa la congiunzione che, in fondo in fondo, cercavamo.
Anzi, rettifico immediatamente: questo è il punto di congiungimento al quale siamo stati condotti, al quale ci siamo lasciati condurre, grazie ad una maniaca pretesa di ostentare disinvoltura e spensieratezza di fronte a cose serie e gravi; comportamento specifico di bravi materialisti moderni, inconsapevoli di molte cose e consapevoli di poche altre, perfettamente inutili: tipo manomettere i telefonini, usare i computer per ficcare il naso in faccende che non ci riguardano, e far volare i droni-spioni in barba al diritto di privacy.
Una società umana che abbia da lungo tempo perduto di vista (per non dire rifiutato) lo Spirito, come elemento essenziale, fondante qualsiasi forma di civiltà e di progresso, non può fare altro (tra pantomime di tregua e periodi di vacanza dei foreign fighters) che tornare allo scontro armato; come ai vecchi tempi accuratamente illustrati da A.C. Clarke in “2001: Odissea dello Spazio”; il possesso della pozza d’acqua, irrinunciabile per le due bande di scimmioni, diventa l’elemento determinante per scatenare la primordiale contesa.
Ovviamente, da parecchi secoli, nessuno di noi è uno scimmione; tant’è vero che quei bruti, illo tempore, fracassavano i crani nemici con clave d’osso, mentre noi attualmente disponiamo di arsenali militari sofisticatissimi e zeppi di armi segrete una piú letale dell’altra.
Il che, per chi lo vuole, sta a significare che, almeno in fatto d’eleganza formale, siamo, in un qualche modo, progrediti.
Già: in un qualche modo (sarò a digiuno di ottimismo, ma temo che non sia stato scelto il modo migliore).
Per molti anni addietro, nei secoli scorsi, ma anche ai giorni nostri, gli esperti di psicanalisi e di sociologia avevano risolto, o almeno cosí a qualcuno pareva, il problema fondamentale di una collettività umana impegnata nella marcia evolutiva. Al pari delle specie animali che regolavano il numero dei sopravvivendi mediante il suicidio di massa, fino a tornare ad esprimere un numero compatibile con le condizioni di base, anche gli esseri umani – dicevano i convinti della brillante analogia psudoscientifica – sono affetti da una sorta di cupio dissolvi, la quale avrebbe la funzione di “tanatòmetro regolatore” o valvola di sfogo; permetterebbe quindi, in alcuni periodi di particolare criticità, la fuoriuscita dalla marcia evolutiva di elementi instabili, inadatti o comunque problematici: elementi che pertanto non avrebbero portato giovamento alcuno al miglioramento della specie, ma avrebbero soltanto creato ritardi ed impedimenti e quindi di conseguenza potevano venir facilmente radiati dal progetto evolutivo, permettendo ai superstiti un avanzamento piú spedito e altamente selezionato.
È un’idea un po’ pazza, magari perversa, ma ci siamo andati vicino.
Che il meccanismo (chiamiamolo cosí) del cupio dissolvi sia già in atto, a livello di singoli membri, o anche a livello di etnie, istituzioni, banche, industrie, gruppi ecologici, confessioni religiose, confederazioni, sindacati, partiti politici e non, tifoserie, comunelle, organismi malavitosi e/o di tendenza, centri corruttivi e consorterie varie, lo sapevamo da un pezzo. Basta seguirne le vicende anche senza eccessivo approfondimento.
Ma c’è una bella differenza: che mentre le bestie si suicidano spinte da un istinto naturale, che le induce al fatto, noi tendiamo ad adoperare il rituale del “suicidio assistito” (il quale può variare a seconda dei climi, delle competenze e del genio estetico) applicandolo per via indiretta ai destinatari, non sempre edotti e preparati in merito; a partire dalla classica rivoltellata alla nuca, o dalla tradizionale scarica di pallettoni alla schiena (oppure la pugnalata, per chi desidera evitare rumorosi esibizionismi) fino all’avvelenamento al plutonio, e allo sterminio di massa mediante bombardamento e assedio, tutto è rivolto ad eliminare fisicamente l’altro o gli altri, onde dimostrare urbi et orbi che il mio diritto ad esistere è il piú forte e incontestabile.
Traduco per gli estimatori delle sfide all’O.K. Corral: questo è il concetto del Vincitore (potrei anche dire di “colui che crede di esserlo”, ma sarebbe una precisazione che in fondo si morde la coda).
Quand’anche non lo confermassimo palesemente, ce lo portiamo dentro come riferimento per le nostre vicissitudini, per i nostri indirizzi e per i nostri traguardi. È divenuto la bussola orientativa della odierna ambizione.
Alla sua legittimazione completa mancherebbero ancora le certificazioni del consenso informato e la notifica delle clausole compromissorie, da contrattualizzare con le vittime designate (o con i loro aventi diritto) ma è una pura questione di modulistica, alla quale molte ONG (ma anche alcune OG) stanno già provvedendo.
Forse pure il Presidente Draghi e il governatore Erdogan. tra uno spuntino e un caffè, durante l’incontro ad Ankara, ne hanno parlato. Non avendo prove, la butto là come semplice spunto intuitivo.
Nella mia città (Trieste) in questi giorni è stato recuperato il gusto della manifestazione di piazza e dei relativi cortei di sostenitori/oppositori; era dai tempi del Covid dell’anno scorso, che non si trovava piú il motivo per sbandierare, tambureggiare, sfilare a passo di cucaracha, insultare le forze dell’ordine e provocare danni nel centro cittadino. Se la messa in scena fosse stata soltanto un pochino, come dire? meno pedestre… ma no, ecco, solo lievemente piú raffinata, avremmo potuto anche competere con le manifestazioni delle città famose per i giochi di tradizione folkloristica, come, per dirne alcuni, il Palio di Siena, la Giostra del Saracino di Arezzo, la Corsa dei Ceri di Todi, la Quintana di Foligno, o gli Scacchi Viventi di Marostica.
Invece le cronache dei primi mesi ‘21, ci hanno mostrato solo alcuni gruppi di manifestanti innaffiati dai getti d’acqua delle autopompe comunali, che resistevano stoicamente alla doccia forzata nelle loro mantelline impermeabili dai colori sgargianti (a proposito, chi gliele aveva procurate?). Non credo tuttavia che ciò possa costituire un incentivo all’attrattiva turistica o allo studio sulle usanze locali da parte dei dilettanti d’antropologia comparata.
Però abbiamo subito saputo rimediare (visto che tra gli effetti della guerra, la pandemia persistente, la siccità, l’inflazione e il rincaro delle bollette energetiche, non c’era null’altro di serio contro cui protestare) e pertanto abbiamo preso di mira il “Progetto Ovovia”.
Per quanti ne fossero ancora all’oscuro, bisogna sapere che la Giunta Municipale ha varato e approvato la costruzione di una gigantesca “ovovia”, la quale partendo dal mare (Porto Vecchio) innalzerà i visitatori fino all’altipiano, con la possibilità di una deviazione per il Santuario del Monte Grisa, già da tempo meta di fedeli, vacanzieri e intrufoloni giocosi, collezionisti di santini, merendine e interminabili serie di selfie sul cocuzzolo panoramico antistante il Tempio e affacciato sul golfo, a testimonianza del “c’ero anch’io”, con i quali affliggere in seguito, dopo il rientro a casa, amici e parenti.
Grata del provvedimento, la cittadinanza si è di colpo schierata su due fronti opposti; le cause (apparenti) sono, come sempre, molteplici: l’impatto ecologico, la devastazione delle zone boschive, il costo stratosferico dell’impresa, il sogno interrotto di un quieto vivere bucolico da parte dei proprietari di villette e terreni interessati alla cessione delle servitú di passaggio, e via dicendo. Ma le ragioni vere vengono da ancora piú lontano e sono inossidabili quanto l’acciaio AISI 316.
Ogni scontro locale di Trieste e dintorni riferisce il desiderio di primeggiare dei grandi gruppi etnico-politico-religiosi che in buona sostanza formano la struttura portante di questa polis: Comunità Serbo-Ortodossa, Comunità Slovena, Centro Greco Ortodosso, Comunità Israelitica, Associazione Partigiani e Reduci, Associazione delle Province Istriane, le Comunità Dalmate, i Fogolârs Furlans, i FiloAustriaci & Volkspartei, La Destra Isontina e dulcis in fundo, le M.M.P.R. (Minoranze Miste Prive di Rappresentanza).
Un carosello di fronte al quale pure il folto numero dei partiti politici presenti deve prendere atto, ridisegnare il quadro organico e rimestare il proprio pentolone.
È quindi del tutto naturale se per una qualunque variante che tocchi le corde sensibili di molti (e l’ovovia è la regina di questo tipo di varianti) si scateni la piazza, ovviamente non presentando con educata pacatezza, un piano d’interventi, con le precise motivazioni per fare o per non fare, ma semplicemente mettendo alla berlina, con sberleffi e insulti, gli avversari del momento, presentandoli alla pubblica opinione ora come geni salvatori del popolo, ora come traditori malavitosi e corrotti, a seconda del balletto rituale di suddivisioni ideologiche e di apparentamenti strategici, intrecciati dalle allegre brigate di cui sopra.
Due note marginali: 1) nulla di nuovo sotto il sole; 2) tutto ciò non succede esclusivamente dalle mie parti. Ma di certo gli attuali discendenti degli abitanti dei confini orientali del paese, portano sul groppone il peso di una storia piuttosto difficile da comprendere senza averla vissuta in loco. E forse la faida interminabile dei “Montecchi e Capuleti”, in cui i cittadini amano immedesimarsi e sbizzarrirsi, per chi volesse studiarne l’origine, nasce proprio da questa tendenza all’esasperazione che caratterizza la sarabanda di autoctoni, sopraggiunti e infiltrati, conquistatasi nel tempo il ruolo di patrona della città.
Questo resoconto, nettamente soggettivo e aggravato da una malinconica visione, ancora piú soggettiva dell’altra, non dev’essere scambiato per un espediente defatigatorio; vuole soltanto ricongiungersi con l’argomento principale, recando alcuni spunti che, opportunamente allargati, possono sostenere l’interrogativo di fondo, il quale, come tutti gli interrogativi di fondo che si rispettino, tende ad emergere, ora a tratti imprecisi e abbozzati, ora in modo stabile e consolidato, dai flutti degli eventi in cui, con qualche squarcio di accortezza, nel bene e nel male, stiamo nuotando un po’ tutti.
«La vita è un processo di guarigione piú o meno doloroso nella misura in cui l’anima è ammalata nella conoscenza di sé» (G. Meyrink, La Faccia Verde).
Ecco qua. Chissà perché, nel leggere questa definizione non ho provato gli squilli di tromba e il rullo di tamburi che avevo invece avvertito in sottofondo nell’affermazione dell’Invictus Mr. Mandela.
Meyrink lavora in profondità e i suoi pensieri ci mettono parecchio tempo per salire alla superficie (intendo, la mia superficie) e offrire cosí in modo palese il loro messaggio, che annuncia, senza trionfalismi e retorica, il vero significato di una medicina ritenuta, fino a poco fa, troppo amara per venir considerata benefica.
Ma oggi, ringraziando il senno del poi, comprendo appieno la forza e la verità di questa seconda affermazione: rende nettamente piú labile e malfondata la prima (anche se posteriore nel tempo). È una conseguenza del tutto naturale: ubi maior, minor cessat. Non è un demerito di Mandela (che continua ad avere la stima e l’ammirazione di tanti, me compreso) e non è neppure una vittoria di Meyrink, che certamente nello stendere il suo aforisma sulla vita, non ha badato a competitori né a traguardi da raggiungere.
Per affermarsi nel mondo, la verità non ha bisogno di ricorrere a guerre e di perseguire vittorie; sono i nostri ego intrisi di bramosia e di paure, che pretendono di affermarsi adoperando brandelli di verità e mulinandoli come fossero manganelli.
La vittoria è un mostro che si nutre di sconfitte altrui; perciò non può essere duratura. Si esalta beandosi del senso d’onnipotenza temporale, il quale funziona come le sostanze allucinogene e conduce gli assoggettati a vivere e morire nella menzogna.
Ogni sconfitta è d’altro canto un ulteriore vilipendio dell’anima, che, nonostante l’ottimismo di Mandela, raramente porta in sé, come controvalore, la saggezza di un apprendimento profondo. Di regola produce rabbia, frustrazione e sete di vendetta.
Il concetto di vittoria, per quanto lo si giri e rigiri, presume lo scontro, la lizza, la contesa: la guerra. Di vincitori e di vinti, di buoni e di cattivi, di ragione e di torto, di bene e di male, possiamo parlare, ma solo prima che le armi inizino il loro festival infernale.
Dopo, restano soltanto i fragori: tuonano, uccidono, ma non dicono piú nulla. Riscuotono l’interesse di quanti sono intenzionati a non estinguere i fuochi dell’odio che alimentano i conflitti. Sappiamo attraverso le pagine della storia, se non per esperienza diretta, che prima o poi tutto cesserà, ma solo per una questione di tempo e di logorío del sistema nervoso; non c’è altro. I morti che si potranno seppellire, verranno sepolti, i feriti curati, i prigionieri scambiati; si distribuiranno medagliette e patacche; si innalzeranno monumenti e targhe commemorative; con il concorso di nazioni, enti e organizzazioni benefiche si provvederà alla ricostruzione del distrutto. Cosí tutti potranno abbracciarsi, complimentandosi l’un l’altro ed esclamare: «È scoppiata la Pace!».
Ma quale pace? Quella degli uomini? Quell’inafferrabile pace che fa capolino qua e là nel corso degli eventi quasi a dire: «Guardatemi! Ci sono anch’io. Esisto. Basterebbe prendermi in considerazione come eventualità». Una povera, flebile voce, sempre coperta dalle sirene d’allarme.
No, cari amici, no: la Pace consiste esclusivamente in quel che manca – sia pure in misura diversa, ma manca a tutti – nella conoscenza di sé. Nella vera conoscenza di sé è sempre rintracciabile la Pace, e non può essere altro che quella interiore, profondamente, altamente interiore.
Nelle infinite forme dell’ignoranza di sé, non c’è altro, invece, che una lunga interminabile sfilza di tunnel esistenziali, che alternano tratti di oscurità con altri di luce artificiale e non finiscono mai, finché l’anima dell’uomo non deciderà di uscire dal Labirinto delle Gallerie in cui si è cacciata.
Purtroppo ci sono uomini che prendono in considerazione la pace soltanto come intervallo utile per riempire gli arsenali svuotati e rimpiazzare le perdite subite dai reparti tattici (eufemismo militare per indicare l’assieme dell’organico militare: dal pelapatate al Super Rambo Spaccatutto).
Dovremmo costruire dei Musei della Pace, e farli visitare mediante uscite didattiche, affinché le nuove generazioni vedano con i loro occhi che ci sono stati dei periodi di tempo, anche abbastanza lunghi, nei quali i loro padri, nonni e avi, si sono dedicati a costruire, a edificare, a legiferare e mantenere degli assetti sociali avendo a cuore il benessere di tutti, che è poi il diritto di tutti a vivere in serena comunione con gli altri.
Come mi accade spesso, quando svolgo delle digressioni un po’ urticanti divento dispersivo e le parole in questi casi mi vengono fuori spinte dalla voglia di contestare. Ciò che vorrei davvero saper esprimere, è che per mio conto non ci sono guerre o sconfitte, non ci sono vincitori né vinti, né buoni né cattivi. Parlo ovviamente di fatti relativi ad esseri umani.
Quando uno di noi viene al mondo e si affaccia alla luce del sole, inizia un percorso, un’avventura, un cammino esistenziale, in cui potrà accadere di tutto, sempre nei limiti di ciò che può accadere a un abitante di questo pianeta; il che rappresenta una vasta gamma di possibilità che sarebbe inutile star qui ad elencare, in quanto, almeno teoricamente, ne siamo edotti a sufficienza.
Tuttavia questo “esserne edotti a sufficienza” non ha nulla a che fare con la conoscenza di sé. Essa non è un fatto di natura, eppure rientra nella nostra natura l’accorgerci della sua presente potenzialità, coltivandola e sviluppandola nel miglior modo possibile.
Quindi a maggior ragione c’è da domandarsi: da dove viene la nostra febbrile bellicosità, con la quale vorremmo far tremare il mondo intero? Come mai tendiamo ad accenderci come fiammiferi per cose, situazioni, simpatie o repulsioni, talmente piccole, talmente futili, da far restare sgomenti quanti s’interesseranno un giorno a raccontarle?
Strada facendo, lungo le ripetute vite terrene, abbiamo assimilato, tra molte cose, anche il senso della realizzazione di un desiderio, il fine di un progetto da attuare, e ce ne siamo innamorati al punto che un compimento in merito lo viviamo come un successo, una gratifica all’autostima, una vincita personale che si merita un brindisi; mentre l’opposto, il mancato conseguimento dell’obiettivo, è considerato una sconfitta, non di rado cocente; roba da nasconderci sottoterra e non farci vedere da qualcuno che ci riconosce e sarebbe capacissimo di venirci incontro, con quel suo dannato sorrisetto, a chiederci: «Beh, com’è andata poi a finire con quella tua faccenda?».
Non abbiamo assimilato mai l’importanza di conoscerci a fondo. Ma per la regola del contrappasso ci siamo invece specializzati a scovare e smascherare la malignità altrui. E ciò innesca ogni volta un detonatore.
Dalla tenera età dell’infanzia, abbiamo appreso la legge della giungla, umana ma non troppo: la legge del piú forte, la legge della soccombenza; e in quest’ultima, la vasta gamma delle modalità di perdere. Perché nel pensiero che ha fatto sorgere tale legge, anche questo si deve dire: per vincere c’è un unico modo, per perdere i modi sono tanti e ben diversificati fra loro. Possiamo venir battuti, possiamo venir derisi, umiliati. Tutto questo gioca in maniera fondamentale nella nostra anima, e quindi va a plasmare la psiche, l’indole, il carattere dei soggetti colpiti.
Per ovvia conseguenza, tendiamo a misurare il nostro valore secondo la quantità di sogni e desideri che siamo stati abili a realizzare, a ostentare in società in modo da ottenere un feedback di ammirata accondiscendenza e di presunto rispetto, in cui si cela ovviamente l’invidia. Ma questo importa poco, anzi, rientra nel gioco delle parti. C’è perfino qualcuno che vive per questo.
Oppure, per contro, tendiamo a negarci ogni talento o buona disposizione, ad annientare ogni valore sorgente, soffocandolo nel rimorso di “Quanto avrei potuto essere (buono, bravo, bello, astuto, ricco, forte…) e invece non sono riuscito a diventarlo (per colpa di… ecc. ecc.)”.
Personalmente la ritengo una follia, pericolosa e irrecuperabile. Siamo al limite della paranoia. Dov’è la coscienza di sé? Dov’è la consapevolezza ferma e precisa, capace di orientare la nostra vita, le nostre decisioni, i nostri giudizi? Certamente da qualche parte deve pur vivere il concetto di Vittoria, ma non è certo nelle lotte fratricide causate dall’attribuire agli altri la colpa delle nostre imperfezioni, né tanto meno dall’agognare ingordi scopi terreni, che questo concetto salterà fuori bello e pulito.
Nelle esistenze in cui viviamo non ci sono vittorie da conseguire (quindi neppure sconfitte da subire): ma proprio da queste esistenze in cui viviamo ci giungono ininterrottamente le condizioni per poterci sentire vittoriosi là dove ogni singola avventura umana vuole e deve incontrare il suo destino.
La sfida non funziona mai tra uomo e uomo: ci rimettono sempre tutti e due. Chi crede di aver vinto si porta dietro una falsa opinione di sé, che sotto il peso di nuovi eventi dovrà in qualche modo svelarsi; chi crede d’aver perso, in realtà ha già perduto se stesso nei meandri del rancore.
La rabbia e l’indignazione in questi casi dovrebbero venir indirizzate al vero responsabile. Ma il vero responsabile, ossia quel piccolo-grande centro di potere e di sopraffazione che alberga e impera dentro ciascun uomo, se ne guarda bene.
La visione del mondo e dei suoi aspetti ci appare pertanto distorta e deludente; ma forse il motivo sta nel fatto che il nostro senso della vista ha perduto l’attendibilità di un tempo ed è giunta l’ora di cercare un buon oculista.
Avrò avuto dieci o undici anni; frequentavo allora la Scuola Media Inferiore P. A. di Trieste. Un giorno l’insegnante m’incaricò di andare dal Preside per prendere delle circolari appena giunte. Ero molto emozionato: il Preside era un essere mitico, metà comandante supremo e metà dispensatore di terribili castighi; tutti in qualche modo temevamo quella figura alta, ieratica, che parlava con voce stentorea e grande proprietà di linguaggio, e i cui toni apparivano sempre minacciosi e incombenti come nuvole di un temporale imminente.
Sicché bussai all’uscio dello studio, attesi il benestare ed entrai; il Preside stava in piedi al centro dell’ufficio e parlava con una insegnante che conoscevo appena di vista. Mi indicò il pacchetto di fogli che dovevo prendere dalla sua scrivania, e mentre in punta dei piedi mi avviavo verso l’uscita, chissà perché, mi venne l’estro di passare in mezzo ai due interlocutori, dal momento che, a mio parere, tra loro c’era uno spazio sufficiente a farmi passare.
«Non si passa mai tra due adulti che stanno parlando!» sentii subito tuonare alle mie spalle. E cosí, un po’ sorpreso, imbarazzato e mortificato per la mia mancanza, tornai indietro e rifeci il percorso di prima, aggirando però con circospezione il gruppo dei due. Giunto quasi all’uscio, li sentii ridacchiare tra loro e il Preside esclamare: «Proprio stupido ’sto ragazzo! Crede cosí di aver rimediato alla sua sbadataggine».
In effetto, “il ragazzo” era convinto di aver posto un rimedio al danno provocato; un rimedio magari ridicolo, plateale, ma eseguito in silenzio, rapidamente, senza repliche o tentennamenti, soprattutto eseguito in spontaneità. Qualcosa avrebbe dovuto pur dire a quei due adulti, esperti educatori scolastici. Invece niente; per loro fui solo uno “stupido ragazzo”.
A quei tempi, non conoscevo moltissime cose; tra esse, pure le regole dell’etichetta burocratico-amministrativa impartita dal Ministero della Pubblica Istruzione. E se devo essere sincero, continuo a non capirle nemmeno oggi, che son trascorsi sei decenni e otto mesi.
Ma una cosa è non conoscere, un’altra è non capire. L’aneddoto che ho voluto riportare mi serve appunto per mettere nel dovuto risalto questa distinzione, che è di enorme importanza per chi ritenga di avere ancora molte cose da apprendere e da valutare, indipendentemente dal numero degli anni che gli restano.
Anche dalle storie minime c’è da ricavare una morale che, trascurata o non afferrata, la consegnerebbe all’oblio del tempo; nel contesto, la mia sofferenza di essere stato colto impreparato e privo di tatto era in fondo dettata da un senso di paura ben piú vasto dell’azione in sé. Ma ricordando l’accaduto, nel corso degli anni seguenti, ho cominciato ad intuire anche la paura di quei due insegnanti. Una paura nascosta, remota, praticamente impossibile da individuare; anche perché, di solito, coperta dalla paura della cavia che, sottoposta alla prova, attira a sé l’attenzione dei presenti.
Il Preside voleva confermare davanti alla collega e subordinata il potere e la capacità di capo esecutore dell’istituto, che non perde un’occasione per far trionfare la sua versione della legge della scuola, in qualsiasi situazione essa sia minata; ma in verità temeva che, se avesse lasciato correre la piccola occasione che maldestramente gli avevo offerto in quel momento, la fama proverbiale della sua autorevolezza avrebbe potuto venir sminuita.
E l’insegnante, che allora volle unire la propria risatina a quella del capo, lo fece, magari di controvoglia, chissà, per ostentare la deferenza nei confronti del superiore, appoggiandolo nello scherno di un soggetto debole (il sottoscritto), il quale non meritava proprio la botta della battutina ingenerosa. Oggi il tutto verrebbe messo a verbale nel capitolo “abuso di provvedimento correttivo”. Ma a quel tempo, era già molto uscire di scena con la mia codina fra le gambe, mentre i due dimenavano allegramente le loro.
Quindi la Paura: ecco l’arma infernale che domina le scene del mondo, alimenta e aggroviglia tutte le situazioni, e agisce tanto piú indisturbata quanto invisibile e impercepibile ai sensi comuni. Si confonde, si maschera ogni volta con camuffamenti diversi, per cui rimane irriconoscibile sullo sfondo dei contendenti in lotta, convinti di pugnare per un ideale, per una terra, per una famiglia, per una fede, per un partito.
Non sospettano neppure lontanamente che anche le ragioni piú evidenti e profonde, tutte ampiamente giustificabili sul piano dei moralismi correnti, sono soltanto effetti collaterali di una patologia fobica, messa in atto da un ego che, pur sapendo della propria morte, vorrebbe durare in eterno nel corpo e con il volto che in quel momento sa d’avere.
Dai tempi di Caino e Abele, la pace è stata sostituita dalla paura, e a sua volta la paura si è subito suddivisa in due parti ben distinte: la paura di non vincere e quella di vedersi soccombere. Se le anime umane non cadono nella prima, vengono afferrate dalla seconda.
Dalla notte dei tempi gli uomini si picchiano di santa ragione (diciamo cosí) solo per far vedere a se stessi e al mondo di non aver paura di nessuno; senza saperlo però convalidano l’opinione della mia amica cesenate riguardo al fatto che quando un uomo è un uomo…Per lei e per tanti altri è un mito impossibile da sfatare. Manca il motivo per volerlo fare. Per avvertire la necessità di farlo.
Ora io sto pensando esattamente al contrario. Mi dico: se un uomo è davvero un uomo, non ricorrerà mai ad un atto di violenza; qualunque siano le motivazioni in campo, un atto di violenza è quel che riduce l’uomo ad un organismo vivente bramoso di affermare se stesso: nulla piú.
Conosciamo tutti, o quasi, il detto evangelico “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”.
Pensiamo un po’: chi sarebbero questi uomini di “buona volontà”? I combattenti, gli assaltatori, i veterani, i difensori, i conquistadores, i servi del sangue e delle ferite?
No, no, gli uomini di buona volontà dobbiamo andarli a cercare da tutt’altra parte. Pure loro combattono l’unica interminabile vera battaglia che possa a ragione definirsi tale, quella della vita e dell’esistenza terrena, che non porta nel suo interno tregue, armistizi, tradimenti e riserve mentali. È uno scontro diretto con se stessi: la natura inferiore, contro quella dell’Origine.
La trasformazione radicale dei nostri ego e il loro lungo tormentoso cammino verso l’Io superiore è la causa determinante d’ogni conflitto umano. Capirlo sarebbe già un enorme progresso, un passo avanti nella direzione giusta.
Con il dare corso ai nostri progetti, basandoci unicamente sulla molteplicità degli effetti, che ci inducono a tutte le forme di scontro, da quello verbale a quello atomico, continueremo a ignorare la causa che li genera incessantemente, e che è il terrore dell’ego davanti alla Via dello Spirito.
Saremo costretti ancora allo sforzo dell’esistere, a rinnovare la gogna di Sisifo.
Ma se non vado errato, quello era un supplizio, non era un atto di buona volontà.
Angelo Lombroni