Volgiamo ora lo sguardo a un fenomeno di tempi piú recenti, che menziono non per citare curiosità filosofiche, ma perché è veramente caratteristico della natura della vita intellettuale del nostro tempo.
Dall’America si è diffusa in Europa una visione del mondo chiamata pragmatismo, che lí è apprezzata da singole personalità. Rispetto a ciò che Pitagora esige da una visione del mondo, questa americana sembra piuttosto strana. In fondo, questa visione del mondo del pragmatismo non si chiede affatto se qualsiasi cosa che l’anima umana esprime, in quanto sua cognizione, sia vera o falsa davanti a qualsiasi altra cosa che non sia questa anima umana, ma solo se un’idea che l’uomo si forma come pensiero del mondo sia fruttuosa e utile alla vita. Cosí il pragmatismo non chiede se qualcosa sia vero o falso in qualsiasi senso oggettivo, ma, per esempio, s’interroga piuttosto come segue. Prendiamo subito uno dei concetti per l’uomo piú significativi: l’uomo deve pensare che c’è un io unico in lui? Egli non percepisce questo sé unico. Percepisce la successione delle sensazioni, delle concezioni, delle idee e cosí via. Ma è utile concepire la successione di sensazioni, concezioni, idee come se ci fosse un io comune; grazie a questo, l’essere umano compie ciò che compie a partire dall’anima, di getto. Grazie a questo la vita non si disperde. O andiamo all’idea piú elevata. Il pragmatismo non si preoccupa affatto della verità del concetto di Dio, ma si chiede: bisogna accettare il pensiero di un essere divino? E arriva alla risposta: è bene che si afferri il pensiero di un essere divino, perché se non si afferrasse il pensiero che il mondo sia governato da un essere divino primordiale, l’anima resterebbe tetra e desolata; è dunque un bene per l’anima se accetta questo pensiero. Qui il valore della visione del mondo è interpretato in senso opposto a quello di Pitagora. In lui, la visione del mondo consisteva nell’interpretare ciò che non è posto a beneficio della vita. Attualmente, però, si sta diffondendo una visione del mondo – e c’è la prospettiva che si impadronisca di molte menti – che afferma apertamente, e in pratica lo ha già fatto: «Prezioso è ciò che viene pensato come se ci fosse, affinché la vita proceda nel modo piú benefico per l’uomo!».
Possiamo vedere che lo sviluppo dell’umanità ha avuto luogo in modo tale che ciò che era considerato come il segno distintivo di una corretta visione del mondo è per cosí dire l’esatto contrario di ciò che è stato considerato tale nel sorgere della vita della visione del mondo europea. Questo è il percorso che lo sviluppo dell’umanità ha attraversato nel suo atteggiamento dalla Teosofia pitagorica alla moderna Antisofia pragmatica. Perché questo pragmatismo è profondamente antisofianico. È antisofianico perché considera tutte le idee che l’anima può formare su qualcosa che sta fuori dal mondo dei sensi dal punto di vista del valore pratico e dell’utilità per il mondo dei sensi. Questa è la cosa essenziale e questo è l’altro punto di vista che devo menzionare: che nell’anima degli uomini qualcosa si sta imponendo nei confronti del nostro presente, come uno stato d’animo antisofianico che prende il sopravvento. Come è diffuso oggi, quello che un tempo Du Bois-Reymond, da brillante rappresentante della scienza naturale, sviluppò (nel 1872) come suo discorso Ignorabimus in una riunione di naturalisti a Lipsia! Du Bois-Reymond ammette, e lo sviluppa in modo straordinariamente arguto, che ciò che si deve chiamare scienza nel giusto senso può avere a che fare solo con le leggi del mondo esteriore, il mondo dello spazio e del tempo, e non può mai permettere di comprendere nemmeno il minimo elemento della vita dell’anima come tale. Piú tardi, Du Bois-Reymond parla addirittura di “sette enigmi del mondo”:
- la natura della materia e della forza
- l’origine del movimento
- la prima comparsa della vita
- la disposizione finalizzata della natura
- l’emergenza della sensazione semplice e della coscienza
- il pensiero razionale e l’origine del linguaggio
- la libertà di volontà
di cui dice che la scienza non può afferrarli perché dipendono già da un campo che deve essere quello del “naturalismo”.
Du Bois-Reymond ha concluso in modo caratteristico le sue argomentazioni nel 1872, dicendo che se si voleva comprendere anche il piú piccolo elemento della vita dell’anima, si sarebbe dovuto penetrare in qualcosa di completamente diverso dall’elemento della scienza, che provasse l’unica via d’uscita: quella del soprannaturalismo. E ha aggiunto le parole significative che devono essere aggiunte non tanto come una prova, perché chiunque prenda i suoi argomenti può convincersi che non sono una prova di qualcosa che deriva da questo o da quello, o per cui si danno queste o quelle ragioni, ma sono aggiunte come qualcosa che egli afferma in modo abbastanza dogmatico dal suo stato d’animo: «Solo che, dove inizia il soprannaturalismo, finisce la scienza».
Cosa significa una tale aggiunta all’altra frase: «che per comprendere solo l’elemento mentale piú semplice si deve ricorrere al soprannaturalismo»? Cosa significa che si aggiunga: «Solo che dove inizia il soprannaturalismo finisce la scienza»? Se si guarda intorno a ciò che è la vita scientifica contemporanea, si può fare una scoperta singolare, che oggi posso presentare solo come una sorta di constatazione, ma che sarà pienamente chiarita da molte cose nelle conferenze seguenti. E per dire almeno qualche parola in questa seconda conferenza di questa serie contro un malinteso che sorge di continuo, faccio notare che tutte queste conferenze non vogliono in nessun modo essere in opposizione alla scienza contemporanea, ma sono tenute dal punto di vista di un pieno riconoscimento di questa scienza contemporanea, nella misura in cui questa si mantiene nei suoi limiti. Devo dirlo perché ci sono ancora e ancora accuse – non voglio dire in che modo – che queste conferenze si tengono qui in senso antiscientifico. Ma non è questo il caso. Anche se quindi un completo riconoscimento dei grandi brillanti e ammirevoli successi della scienza moderna è alla base di tutto ciò che viene detto qui, bisogna tuttavia sottolineare che può essere rigorosamente dimostrato che in nessun punto del vasto campo della vita scientifica c’è la minima giustificazione per l’affermazione che «dove inizia il soprannaturalismo, la scienza finisce»! Non c’è giustificazione. Si scopre che una tale affermazione è fatta senza alcuna giustificazione, per un atto di volontà, per un sentimento, per uno stato d’animo della psiche, uno stato d’animo antisofianico. E perché, questa deve essere la prossima domanda, viene fatta una tale affermazione? La Scienza dello Spirito potrà oggi fornire qualche idea al riguardo. Un tale stato d’animo può essere inteso dall’esterno come tale in base a tutto ciò che è stato discusso oggi.
Per approfondire la spiegazione spirituale-scientifica di ciò che ho caratterizzato in precedenza, devo però presupporre alcune cose. Ci sono molte cose nell’anima umana che possono essere descritte come esperienze animiche subcoscienti, come esperienze animiche che procedono in modo tale che sono sicuramente presenti nell’anima, che determinano la nostra vita animica, ma non brillano completamente nella chiara coscienza del giorno. Ci sono profondità della vita dell’anima umana che non si esprimono in concetti, idee, atti di volontà, almeno non in quelli coscienti, ma solo nel carattere, nel genere di volontà, nella natura della vita dell’anima umana. C’è una vita animica subconscia; e tutto ciò che può essere nella vita cosciente dell’anima e che allora vi gioca un certo ruolo, si trova anche nel subconscio. Affetti, passioni, simpatie e antipatie, che durante la vita ordinaria sentiamo chiaramente nell’anima in modo cosciente, possono trovarsi anche nelle regioni subconsce, ma non sono percepite, lavorano nell’anima come una forza naturale, lavorano nell’anima nello stesso modo in cui, per esempio, la digestione avviene inconsciamente nell’organismo, solo che sono spirituali e non fisiche. C’è tutta una parte della vita dell’anima subcosciente. E molto di ciò che l’uomo afferma nella vita, ciò che crede e intende nella vita, non lo crede e intende affatto sulla base di tali presupposti di cui è pienamente cosciente, ma lo crede e lo intende e lo rappresenta a partire dalla vita inconscia dell’anima, perché gli affetti, le inclinazioni di cui non è cosciente, lo spingono a farlo. Anche i migliori rappresentanti della psicologia empirica di oggi sono giunti alla conclusione che ciò che l’uomo afferma non risiede in tutta la sua portata nella semplice ragione, in ciò che l’uomo considera coscientemente.
Oggi c’è un intero settore della psicologia sperimentale che si occupa di questo. Stern è un rappresentante di questa corrente, che si occupa di mostrare come l’uomo, anche nelle affermazioni piú scientifiche, riceve qualcosa dalla sfumatura e la tonalità delle sue simpatie e antipatie, dalle sue inclinazioni e affetti. E anche la semplice psicologia esteriore dimostrerà a poco a poco che si tratta di un pregiudizio il credere di poter veramente rilevare tutto quello che nella vita quotidiana o nella scienza ordinaria lo porta a fare le sue affermazioni. Cosí oggi, anche per la psicologia o scienza dell’anima, non è affatto un’affermazione assurda se si definisce senza esitazione la scoperta appena menzionata affermando «dove comincia il soprannaturalismo, finisce la scienza» – perché questo è effettivamente espresso come sentimento di base da Du Bois-Reymond, ma è anche un pensiero di base di innumerevoli anime del presente che non ne sanno nulla – allora non c’è da meravigliarsi se lo si intende come emergente dalla vita subconscia dell’anima. Ma come si arriva a questo? Cosa spinge l’anima a porsi come dogma: dove inizia il sopra-naturalismo finisce la scienza? Che cosa funzionava allora nella vita dell’anima subconscia di Du Bois-Reymond e che cosa funziona oggi nella vita dell’anima subconscia di migliaia e migliaia di persone che stanno dando il loro contributo alla vita quando il detto si sente o è sentito come se fosse sottointeso nel loro subconscio? La scienza dello Spirito dà la seguente risposta in merito.
Nella vita umana conosciamo molto bene l’aspetto che chiamiamo paura, terrore, ansia. Quando questo effetto di paura, di terrore, si verifica nella vita ordinaria costituisce qualcosa che ogni anima umana conosce. Oggi ci sono anche studi scientifici molto interessanti sugli aspetti come la paura, lo spavento, l’ansia. Per esempio, consiglio a tutti di dare un’occhiata alle eccellenti indagini del ricercatore danese Lange sui movimenti della mente, tra questi ci sono quelli sulla paura, l’ansia e cosí via. Quando nell’esistenza ordinaria, sperimentiamo lo spavento, specialmente quando lo spavento raggiunge un certo grado, avviene qualcosa che stordisce leggermente l’essere umano in modo che non ha piú il controllo completo del suo organismo. Si diventa “paralizzati dalla paura”, si ha un’espressione del viso speciale, ma ci sono anche tutti i tipi di sintomi speciali nel corpo che accompagnano il terrore. Questi effetti collaterali sono già stati descritti abbastanza bene dalla scienza esterna, per esempio dal ricercatore menzionato sopra. La paura ha un effetto sulla natura vascolare dell’essere umano e viene rappresentato sintomaticamente in esso. Gli stati di alterazione corporea e soprattutto il bisogno di aggrapparsi a qualcosa di esterno si verificano con lo spavento. «Sto per cadere» è quello che hanno detto molte persone spaventate. Questo indica la natura dello spavento piú profondamente di quanto si pensi di solito. Ciò deriva dal fatto che quando l’anima sperimenta lo spavento, l’organismo subisce dei cambiamenti. Le forze dell’organismo si concentrano come spasmi sul sistema nervoso; questo è come se fosse sovraccarico di potere dell’anima e fa sí che certi vasi si tendano; questa tensione non può poi avere ulteriore effetto.
Ma ora arriva la ricerca spirituale che esamina l’anima umana quando è nell’attività del pensiero e dell’immaginazione, che è rivolta alla natura esterna, al mondo esterno. Perché si può indagare la natura di quel tipo di attività in cui c’è un’anima che lascia tutto il resto del corpo a riposo, in una certa condizione, e dirige il pensiero esterno all’esperimento esterno, all’osservazione esterna. In termini scientifico-spirituali, se ci si immerge nell’immagine di una tale persona, essa è esattamente uguale a quella di un’altra che è in uno stato di leggera paura. Per quanto paradossale questo possa sembrare, distogliere i poteri dell’anima dall’organismo nel suo insieme produce qualcosa di molto simile alla paura, come lo stordimento durante lo spavento.
Quella “freddezza” di pensiero che si deve produrre nell’osservazione scientifica è, per quanto paradossale possa sembrare, legata allo spavento, alla paura, soprattutto al timore; un ricercatore assiduo, che vive veramente dentro i suoi pensieri di ricerca, quando questi sono diretti verso l’esterno, o quando pensa a qualcosa che è nel mondo esterno, è in una condizione simile alla paura. Questo è ciò che distingue il risultato dato al mondo esterno dallo sviluppo spirituale: quest’ultimo si basa sul distacco delle attività dell’anima dal mero cervello, in modo che ciò che si verifica non sia il risultato di uno sforzo spasmodico unilaterale dell’attività dell’anima e il lasciar fluire una parte dell’attività del corpo a scapito dell’altra. E questo stato, legato alla paura, produce ciò che ho caratterizzato prima.
Questa paura di cui sto parlando ora può, naturalmente, essere negata da chiunque, perché avviene nel subconscio. Ma essa vi è ancora ben presente. Sotto un certo aspetto, il ricercatore che dirige il suo occhio verso il mondo esterno in modo continuo, fluente, è in uno stato d’animo che nelle regioni subconsce della vita della sua anima assomiglia a qualcosa che c’è coscientemente in un’anima che prova paura. E ora dirò qualcosa che sembra semplice, che non è stato pensato per essere semplice, ma che forse può suscitare una comprensione proprio attraverso la sua semplicità. Quando qualcuno ha paura, può entrare molto facilmente nello stato d’animo che può essere descritto dalle parole: “Devo aggrapparmi a qualcosa; ho bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi, altrimenti cadrò!”. Questo è lo stato d’animo del ricercatore scientifico, come è stato appena descritto: deve concentrarsi sul pensiero unilaterale; sviluppa inconsciamente la paura e ha bisogno di materia esterna data dai sensi a cui aggrapparsi, per non sprofondare nella paura inconscia; ma se non avanza verso la Teosofia, non trova nulla a cui aggrapparsi e, come l’uomo timoroso che vuole attaccarsi a qualche oggetto, si aggrappa allora alla materia. “Datemi qualcosa di concreto a cui io possa aggrapparmi!” questo è lo stato d’animo che vive nel subconscio dello scienziato comune. Questo porta all’effetto inconscio di considerare come scienza solo ciò che non ammette alcuna paura, perché si aderisce al disegno materialista del mondo. E questo crea l’atmosfera dell’Antisofia: dove inizia il soprannaturalismo, finisce la scienza, cioè finisce quella alla quale si può aderire.
Ma tutto questo indica qualcosa che deve essere comprensibilmente presente in un’epoca dove tutta la natura, tutto l’essere dell’epoca, esige sotto molti aspetti di essere assorbita nella contemplazione e nella natura esterna. Questo indica qualcosa che non vive personalmente nell’individuo, ma che vive realmente in tutti coloro che oggi sviluppano lo stato d’animo dell’Antisofia, se questo avviene in modo tale che venga detto: La Teosofia è qualcosa che supera la scienza, non c’è in essa alcuna certezza, essa abbandona il terreno sicuro della scienza; oppure se si verifica in modo tale che qualcuno dica: ciò che la gente considera come Teosofia porta solo a guai interiori o esteriori, in questo campo non c’è nulla di certo in senso scientifico, ma bisogna sviluppare una semplice fede che viene da qui o da lí. Oppure che qualcuno dica: il mio ordine familiare sarà distrutto se un membro della famiglia professa la Teosofia, o che un altro dica: se mi dedico alla Teosofia, i piaceri della vita saranno finiti per me; tutte queste cose non sono certo giuste, ma sono dettate da un certo stato d’animo: sono il travestimento dello stato d’animo dell’Antisofia. E questo sentimento antisofianico è comprensibile. Perché, per il vero teosofo, che sa che l’anima umana, per la sua salvezza e salute, deve sempre cercare la connessione con il mondo con il quale è collegata nelle sue radici piú profonde, nulla è piú comprensibile dello stato d’animo dell’Antisofia. Ogni tipo di opposizione, ogni tipo di incomprensione, ogni tipo anche di invettiva, di agitazione contro la Teosofia è comprensibile, del tutto comprensibile. E chiunque possa portare avanti tali incomprensioni, tali opposizioni e cose simili, dovrebbe sempre tenere a mente che, supponendo il peggio, per quanto possa infierire, o essere arrabbiato, o sfogare la sua rabbia contro la Teosofia, non dice niente d’incomprensibile e sorprendente per una persona teosofa, perché quest’ultima lo può capire. La persona che aderisce alla Teosofia differisce da lui solo per il fatto che colui che litiga o si infuria in questo modo di solito non sa lui stesso perché lo fa; perché le fonti di ciò si trovano nel subconscio, che di per sé stimola lo stato d’animo dell’Antisofia; mentre la mente teosofica può allo stesso tempo sapere che questo stato d’animo dell’Antisofia è la cosa piú naturale del mondo finché non si abbia compreso qual è il piú nobile intento dell’anima umana. Quello che si evidenzia quando si è nell’umore antisofianico non è solo che non si è giudicato bene, non si è pensato logicamente, bensí che non si è ancora fatto il passo per capire che la Teosofia attinge alle fonti dell’esistenza.
E anche chi non è un ricercatore spirituale può comprendere questa Teosofia, può assorbirla completamente, e nel senso spirituale della parola farne l’elisir vivente della sua vita animica. Perché? Perché ciò che viene sperimentato dal ricercatore spirituale, diciamo di là dall’esperienza ordinaria dei sensi, può essere espresso nello stesso linguaggio in cui si esprimono le esperienze della vita quotidiana e della scienza quotidiana. A questo mira lo sforzo di queste conferenze: che per le regioni spirituali venga utilizzato lo stesso linguaggio – non il linguaggio comune, ma il linguaggio del pensiero – come viene espresso nel mondo della scienza esterna. Si possono tuttavia verificare le cose piú strane, per esempio che, quando ci si sofferma in campo spirituale, in coloro che si oppongono alla Teosofia per spirito antisofianico non si può riconoscere il linguaggio che viene applicato alla vita esteriore e alla scienza esteriore.
Ciò che la Teosofia può essere per l’uomo è dargli la possibilità di una connessione con la fonte originaria della sua esistenza, quindi indicargli quel punto in cui le profondità della sua anima sono collegate con le profondità del mondo. Nella Teosofia l’uomo capta le forze divino-creative che lo organizzano, che vengono all’esistenza con lui e si impadroniscono del suo corpo per modellarlo plasticamente; con la Teosofia l’uomo si colloca all’interno di quella potenza universale che, oltre al corpo, può anche dare all’anima salute e forza, sicurezza e speranza e tutto ciò che le serve per vivere. In relazione a tutto ciò che è al di là del mondo fisico, come l’uomo penetra con la Teosofia nella fonte creativa dell’esistenza, cosí egli vi penetra anche in relazione alla sua vita morale. L’esistenza viene potenziata, elevata nel migliore dei sensi. Nella Teosofia l’uomo sente il suo destino, il suo valore, ma sente anche i suoi compiti e doveri nel mondo, perché si trova in verità collegato con quello di cui altrimenti è solo un membro inconscio. La vita al di fuori di questa fonte, la vita antisofianica, rende desolata l’esistenza dell’anima. Fondamentalmente, il vuoto dell’anima, il pessimismo, il dubbio sull’esistenza, il non essere in grado di far fronte ai doveri della propria vita, la mancanza di impulsi morali, tutto è derivato dallo stato d’animo antisofianico della vita.
La Teosofia non è lí per dare esortazioni e cose simili, ma per indicare la verità della vita. Chi riconosce questo contenuto di verità troverà da esso gli impulsi per la vita esteriore e anche per lo stesso campo morale. La Teosofia, per cosí dire, mette l’anima umana nella condizione che dovrebbe avere; perché dà all’anima ciò che la fa sentire come se fosse stata trasportata in una terra straniera dove però doveva andare. Perché la Teosofia non è ostile alla sfera terrestre. Se l’uomo capisce se stesso attraverso di essa, allora capisce se stesso in modo tale che deve risorgere da un luogo sconosciuto, in cui deve stare, per arrivare al suo pieno significato umano, nel mondo in cui ha le sue radici, in cui si trova la sua casa. E da questa conoscenza di essere a casa, da questo sentimento di casa che la Teosofia può dare, l’anima riceve il coraggio di vivere, la conoscenza della vita, la chiarezza sui suoi doveri, sugli impulsi della vita, che rimangono sempre oscuri e spenti sotto l’umore dell’Antisofia, anche se si pensa che siano comunque cosí luminosi e chiari. La Teosofia in verità produce quello stato d’animo che, se non si abusa della parola, può diventare uno stato d’animo monistico dell’anima, un sentimento di unità con lo Spirito che tesse e vive nel mondo. Teosofia è sapersi in questo Spirito, è un tale tipo di conoscenza in questo Spirito per cui si sa: ciò che vive e tesse in me è percorso e attraversato dallo Spirito che si muove in tutta l’esistenza.
I migliori spiriti della storia dell’umanità si sono comunque sentiti in sintonia con questa Teosofia, anche se non sempre si sono elevati a ciò che all’inizio del XX secolo si può dare come conoscenza del mondo, perché lo sviluppo mondiale progredisce. Quando Fichte, con i suoi nitidi flussi di pensiero, con interi libri, tenta di presentare la natura dell’Io umano e quando ciò che nasce per lui come uno stato d’animo da ben altri flussi di pensiero rispetto a quelli qui esposti si cristallizza, per cosí dire, nelle parole: «L’essere umano che sperimenta veramente se stesso nel suo Io sperimenta se stesso nel mondo spirituale», allora questo è lo stato d’animo teosofico, la coscienza teosofica del mondo. Questo è allora qualcosa che ha appena coniato in Fichte le belle parole che sembrano una conseguenza necessaria tirata fuori dalla coscienza del mondo teosofico.
È veramente grandioso come Fichte abbia coniato alcune frasi nelle sue conferenze Sulla missione del dotto, dove di nuovo quello che aveva pensato a lungo, moltissimo, e quello che sembra essere uno stato d’animo teosofico, si cristallizza nelle parole: «Quando mi sono riconosciuto nel mio Io, mentre stavo eretto nel mondo spirituale, allora mi sono riconosciuto anche nel mio destino!». Diremmo: che l’Io ha trovato il punto in cui è collegato nel proprio essere con le radici dell’essere nel mondo. E piú avanti Fichte dice: «Alzo coraggiosamente la testa alla minacciosa montagna rocciosa, alla cascata impetuosa, alle nuvole che s’infrangono nuotando in un mare di fuoco e dico: io sono eterno e sfido il tuo potere! Voi tutti scendete su di me! E tu terra e tu cielo mescolatevi in un tumulto selvaggio, e tutti voi elementi, spumeggiate, infuriate e stritolate in una battaglia selvaggia l’ultima briciola di sole del corpo che chiamo mio: la mia sola volontà con il suo saldo progetto si librerà coraggiosamente e freddamente sulle rovine dell’universo. Perché io ho preso in mano il mio destino ed è piú duraturo di voi; è eterno e io sono eterno come lui».
Questa è una voce che proviene da uno stato d’animo teosofico. In un’altra occasione, quando scrisse la prefazione al suo Sulla missione del dotto, disse parole significative contro lo spirito dell’Antisofia: «Che gli ideali non possono essere rappresentati nel mondo reale è qualcosa che noi sappiamo forse altrettanto bene degli altri. Noi sosteniamo soltanto che la realtà deve essere giudicata e modificata da coloro che sentono la necessità di farlo». Fichte dice (forse non mi permetterei di dirlo cosí facilmente se non l’avesse già detto Fichte): «Presupponiamo che non riescano a convincersi di questo, visto quello che sono, perdono ben poco nel processo e l’umanità non perde nulla. Questo rende solo chiaro che non si conti solo su di loro nel piano di nobilitazione dell’umanità. Continueranno senza dubbio il loro cammino; lasciate che la buona Natura regni su di loro e conceda loro pioggia e sole, buon cibo e circolazione indisturbata dei succhi e, allo stesso tempo, pensieri saggi».
Questo dice Fichte. E ci si sente uniti nello stato d’animo teosofico, anche se, come ho detto, gli spiriti dei tempi passati non potevano parlare del mondo spirituale in modo cosí concreto come è possibile oggi, ci si sente uniti a queste personalità che avevano un tale sentimento teosofico, un tale stato d’animo teosofico. Per questo, per quanto audacemente io parli in queste conferenze, mi sento sempre d’accordo con Goethe in ogni parola, in ogni frase, e soprattutto d’accordo con Goethe nello stato d’animo teosofico che pervade tutto ciò che egli ha pensato e scritto, pienamente e vividamente; in modo da poter dire anche una buona parola in riferimento allo stato d’animo teosofico e dell’Antisofia, parola con la quale mi permetto di chiudere questa presente riflessione su Teosofia e Antisofia. Goethe aveva sentito un proposito piuttosto antisofianico da una mente brillante e importante, da Albrecht von Haller. Ma Albrecht von Haller, sebbene fosse un grande naturalista del suo tempo, viveva fondamentalmente in uno stato d’animo particolarmente antisofianico; esprime comunque una parola di Antisofia quando dice: «Nessuno Spirito creato penetra nell’interno della natura. Beato colui al quale essa mostra solo l’involucro esterno!».
Goethe sentiva questo, anche se non usa le parole Teosofia e Antisofia, come uno stato d’animo antisofianico. E caratterizza un po’ drasticamente, ma con le parole con le quali voleva rifiutare un tale modo di vedere le cose, l’impressione che gli faceva la parola antisofianica di Haller, esprimendo il pensiero che l’anima dovrebbe, per cosí dire, perdersi sotto un tale modo di vedere le cose, dovrebbe perdere la forza e la dignità che le sono date per riconoscersi:
«All’Interno della Natura
– o filisteo! –
non penetra nessuno spirito creato».
A me e ai miei simili
potete risparmiare questo mònito!
Ecco ciò che pensiamo: in ogni luogo
noi siamo nel suo interno.
«Beato è già colui al quale
lei palesa almeno il guscio esterno!».
Da sessant’anni lo sento ripetere
e impreco a questa voce, ma in segreto;
mi vo dicendo mille e mille volte:
tutto ella dona con dovizia e gioia,
non ha Natura nocciolo, né guscio,
ella è tutto in una volta sola;
tu esamina te stesso piú che puoi,
se tu sia nocciolo o guscio.
Rudolf Steiner (2a parte – Fine)
Conferenza tenuta a Berlino il 6 novembre 1913.
O.O. N° 63 – Traduzione di Angiola Lagarde.
Da uno stenoscritto non rivisto dall’Autore.