L’opera di Nishida Kitarō è singolare, perché è la conversione del pensiero puro filosofico dell’Occidente nell’esperienza sovrasensibile come indicato dalla Tradizione. Noi stessi abbiamo sostenuto in uno dei nostri studi (Cfr. East & West Nuova Serie, Vol. 11, n. 4, p. 249) che le piú grandi conquiste della filosofia occidentale, culminate in Germania nel pensiero di Fichte, Schelling e Hegel, e in Italia in quello di Vico, Rosmini, Gioberti, Spaventa e Gentile, avevano il compito di condurre l’intellettuale moderno a un’esperienza di pensiero puro, o di pensiero pre-dialettico, o di forza-pensiero, presente e tuttavia sempre morente in ogni pensiero. Poiché un simile pensiero opera come forza viva, o come forza di verità, capace di affrontare e di risolvere i problemi dell’uomo, irrisolvibili dialetticamente. Infatti finora sono state offerte solo soluzioni dialettiche, incapaci di cogliere la realtà: quella del corpo e dell’anima, della natura e della storia.
Se esaminiamo il volume A Study of Good (tradotto da V. H. Viglielmo – Commissione nazionale giapponese per l’Unesco, 1961) notiamo che Nishida ha intuito il significato ultimo dell’esperienza razionalistica dell’uomo; ha capito che la logica di Hegel è il movimento dello Spirito completamente disceso nella materialità e al punto di afferrare nuovamente se stesso come libertà. Perché questa libertà comincia dove lo Spirito trova se stesso nell’esperienza sensibile: solo, privato della metafisica, delle tradizioni e delle visioni, cosí che possa ricevere forza soltanto dal suo isolamento per la conoscenza del mondo; e anche se questo è il mondo sensibile, il mondo dell’oggettività disanimata, l’atto con cui lo Spirito conosce, è in sé sovrasensibile. È lo Spirito che continua la sua storia. Anche se non ne è consapevole. Anche se vede solo materia, corpi, quantità, molteplicità, il movimento del pensiero in quel mondo è movimento sovrasensibile. Essendo consapevole di quell’essenza sovrasensibile, lo Spirito sperimenta la libertà: un esperimento che non potrebbe intraprendere quando percepisce metafisicamente il mondo, e la visione metafisica del mondo lo condiziona.
Come fa Nishida a recuperare la via del “vuoto”, o del nulla assoluto? Non bisogna dimenticare che Nishida era un discepolo Zen, e che quindi poteva comprendere il significato ultimo del pensiero, che è inevitabilmente il pensiero che pensa lo Zen; altrimenti lo Zen non sarebbe nulla. Se non iniziasse con l’essere un’attività di pensiero, la pratica dello Zen non sarebbe valida; non parliamo di contenuti che possono essere introdotti nella coscienza senza essere penetrati dal pensiero, ma che, essendo stati cosí penetrati dal pensiero, che non è pensiero ordinario, vivono e sono sempre il movimento del pensiero: ma non del pensiero riflesso o astratto, bensí del pensiero in cui tutto lo Spirito si esprime, o è in procinto di esprimere se stesso.
Una simile intuizione spiega la logica dell’identità di sé delle contraddizioni assolute di Nishida. Il pensiero che si fa espressione passiva della molteplicità esteriore non può cessare di essere il pensiero che emana dallo Spirito; ma deve essere riscoperto, perché, facendosi espressione della molteplicità, perde la coscienza del proprio movimento. Quest’ultimo, divenendo una forma della molteplicità, sembra essere il movimento della molteplicità, da cui nasce la scienza materialistica; ma è il movimento dello Spirito che, per mezzo del pensiero, può essere riscoperto. Il pensiero deve cogliere il proprio movimento: questo movimento è “esperienza pura”, tanto ricercata oggi da positivisti e fenomenologi, ma ricercata invano. Le contraddizioni estreme sono il confine ultimo del passaggio del pensiero dal suo essere incantato nel sensibile alla percezione della sua natura sovrasensibile. Il pensiero che compie una simile esperienza, sostanzialmente annulla le sue catene di “nome” e “forma”, e diventa pura sostanza di pensiero; ed è in questo la prima forma del vuoto, ma ugualmente la comunione con l’essenza creatrice del mondo.
Il pensiero di Nishida Kitarō rappresenta forse in Estremo Oriente il piú serio punto di incontro tra l’antica visione mistica e la moderna esperienza dei concetti. Questa esperienza ha luogo in Occidente a condizione che lo Spirito estingua se stesso, che la metafisica scompaia (ciò che Hegel, Fichte, Schelling abbiano realmente voluto dire nel linguaggio della filosofia resta ancora da capire: rimane da vedere se nei loro sistemi non si sia espresso l’ultimo bagliore di un pensiero ancora capace di immergersi nel sovrasensibile, ciò che ora è il “nulla” proprio perché è divenuto astrazione. Questo sfugge a Sartre, come a tutti coloro che non sanno trovare nel pensiero l’annullamento dell’essere che cercano).
Certi pensatori orientali, figli dell’antica vocazione metafisica, possono costituire il ponte tra il metafisico e il fisico, tra il mistico e la visione realistica, a condizione che non si lascino intrappolare in ciò in cui il filosofare occidentale è caduto di recente: la dialettica fine a se stessa. La dialettica non è il pensiero nel suo momento creativo, non è lo Spirito, ma la sua determinazione contingente.
La dialettica che diviene automatica e diviene ricerca, visione del mondo, filosofia o anti-filosofia, idealismo o anti-idealismo, spiritualismo o materialismo, non è il veicolo dello Spirito, non è il veicolo della verità, ma il processo espressivo che ha dominato l’uomo; ovvero il processo espressivo privo di contenuto interiore; processo dell’uomo ormai impotente ad esprimere la propria essenza, ma capace solo di esprimere la propria impotenza. I termini che circolano nella letteratura filosofica, “essere”, “esistere”, “base”, “essenza”, “fenomeno”, “nulla”, “verità”, “logismo” eccetera, sono in verità parole vuote: non dicono nulla. Non c’è niente dietro di loro. È semplicemente un automatismo dialettico che veste la natura di una determinata persona filosofeggiante, che probabilmente filosofeggia perché non sa cosa sia il pensiero; non conosce ciò attraverso cui conosce qualcosa.
Nishida, quindi, si trova in Giappone come una speranza, come l’indicazione di una via. Figlio di antico ceppo metafisico, egli vede il mondo, lo scenario del mondo, la natura, la storia, con un occhio libero da dialettismi. Conosce la filosofia ma rimane metafisico; comprende che esiste un solo mondo fisico reale, ma che quel mondo è metafisico nella sua concretezza. La realtà è metafisica e solo attraverso questo può essere fisica; gli antichi maestri taoisti, i maestri Zen, gli asceti buddisti avevano ragione nel considerare il “vuoto” come essenza. Ma la loro era solo una visione donata dagli Dei, grazie a un’arte della contemplazione il cui segreto è stato perduto. Tuttavia, ciò che era visione nei tempi antichi rifiorisce nel figlio di questo tempo come pensiero cosciente.
Nel pensiero cosciente può venir continuata l’arte della visione antica: questo è il senso della scienza. Ma se il pensiero cosciente perde il contatto con lo Spirito, dal quale tuttavia deriva, la sua attività diventa retorica, rinuncia alla virtú creatrice interna, cade nella sfera della quantità, è sopraffatta dal formalismo, dalla metodologia, dalla tecnica. Questo è il pericolo della scienza moderna, ma è anche il pericolo del mondo: che la verità possa limitarsi al misurabile, che non è la realtà, ma qualcosa che è astratto dalla realtà e che si comincia erroneamente a considerare come tutta la realtà. Infatti, non si sa piú afferrare ciò che è oltre il misurabile, non c’è piú un movimento di pensiero per esso; mentre il pensiero dovrebbe essere riconosciuto già come presenza di ciò che non è misurabile. Da questo dovrebbe essere conosciuto il pensiero, il pensiero attraverso cui, in verità, tutto si decide. L’intimo sconosciuto.
Ma – osserva Nishida – il pensiero può non essere conosciuto se si limita a filosofare; il suo movimento non è la filosofia, ma ciò che non ha nulla dietro di sé, se non l’illimitatezza dello Spirito, come atto interiore. La filosofia è un prodotto, non una condizione. Il conoscere è il momento vivente dello Spirito, ma colui che si limita a filosofare non lo sa; a meno che il filosofare non sia la forma dell’esperienza pura, junsui keiken, cioè della pura esperienza del pensiero.
La filosofia dell’Estremo Oriente ci ha regalato una scuola interessante: la cosiddetta “Scuola di Kyoto”, Kyoto-ha, che è cresciuta proprio in quella Università. Il risveglio del Giappone alla filosofia occidentale iniziò nei primi decenni di questo secolo, e avvenne nel segno di un contatto regolare con i grandi pensatori tedeschi, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, con la fenomenologia di Husserl e l’esistenzialismo di Heidegger e Jaspers. La “Scuola di Kyoto” è la radice del pensiero di Nishida e può essere considerata l’aspetto piú vivo della filosofia giapponese, proprio per le ragioni citate: per non aver perso il logos nella logica, per non aver perso la linfa vitale delle idee nella dialettica, per aver mantenuto il contatto con le forze dell’antica ispirazione, mentre si addentrava nel mondo dei concetti e cercava di cogliere l’essere nell’attività razionale.
L’opera di Nishida, Zen no Kengû, è fondamentale perché può essere considerata la sintesi “positiva” delle diverse correnti del pensiero occidentale. Ha compreso il meglio di esso, perché ha saputo come distinguere la dialettica dal puro movimento del pensiero, che non è dialettico, e restituisce la verità, che è luce, alla dialettica. La “Scuola di Kyoto” è indubbiamente in linea con quel pensiero, anche se il successore di Nishida, Tanabe Hajime, aprendosi alla filosofia della scienza, ha rivalutato la teleologia kantiana, accettando allo stesso tempo il fenomenalismo di Edmund Husserl; con questo ha in qualche modo rinunciato al valore della “pura conoscenza”, che si muove come essenza del mondo oggettivo nella coscienza risvegliata, e che Nishida affermava. Il pensiero di quest’ultimo è stato piú fedelmente sostenuto dal suo discepolo Koyama, che ha contribuito alla conoscenza della sua opera in Occidente.
Il significato delle nostre considerazioni è il seguente: l’opera di Nishida è importante dal punto di vista di una comprensione autentica, di una nuova comprensione urgente, perché porta un orientamento che le ultime filosofie rischiano di perdere, se non l’hanno già perso: un orientamento senza il quale il dialettismo può dimostrare ogni cosa, essere sempre vero, perché non è il pensiero che penetra nello stato di fatto, ma lo stato di fatto che rende il pensiero asservito a se stesso. Cosí ogni ideologia è buona come pretesto ideale per realizzare ciò a cui si è attratti dalla propria natura, non dallo Spirito.
E la filosofia diventa l’abito filosofico di determinate posizioni, apparentemente mentali, ma in effetti psicofisiche.
Ciò che Nishida indica dovrebbe rendere attento un ricercatore serio. Per quale motivo questo vivace pensatore, nonostante la sua chiara conoscenza della logica occidentale e delle diverse evoluzioni della dialettica, indica ancora come punto di riferimento originario della conoscenza il “vuoto” o il “nulla”? Quel “vuoto”, quel “nulla”, non sono l’astrazione del pensiero, ma l’esperienza della vita intima del pensiero, in sé informale e pre-dialettico, da non essere colto dalla razionalità ma determinante la razionalità; questa quindi può anche essere la razionalità che riempie il movimento vero e luminoso e penetrante del pensiero, come la razionalità astratta, presa dal pensiero vivente, e che rappresenta, con il meccanismo della parola, il movimento del pensiero che non c’è; il movimento qui è il movimento della natura: psico-fisico, non ideale.
Nell’opera di Nishida si trova una posizione di pensiero piú creativa, dal punto di vista di una rivitalizzazione dello Zen, di quella propria al centro filosofico di Sendai, iniziata da due interessanti pensatori, Eugen Herrigel – il cui lavoro Zen Art in Archery, è molto apprezzato – e Karl Loewith. Perché l’arte di Nishida è l’arte raffinata del pensare, che non elude la propria presenza e si coglie in un’intensa continuità che, sentita là dove nasce, conduce consapevolmente ai limiti individuali, al livello di una libertà e di una lucida immensità che è il vuoto dell’essere, ma la ricchezza illimitata di tutto ciò che nasce e continuerà a nascere nel mondo. È l’esperienza del pensiero puro, che non dipende da “fatti spirituali”, da miti, da atteggiamenti interiori, da mediazioni mistiche, ma attinge direttamente alla sorgente spirituale.
Questo è perseguito dai misticismi tradizionali, senza possibilità dell’immediatezza che il pensiero, essendo puro pensiero, attua coscientemente. Ma è puro pensiero, possibilità aperta al pensatore di questo tempo, che può arrivare a sperimentare con la razionalità, cosí come a viverla fino al limite, al momento del suo sorgere; mentre gli insegnamenti dei resuscitatori dello Zen propongono atteggiamenti, visioni di vita, modi di essere, sentimenti, che già implicano il movimento del pensiero, senza il quale non potrebbero sorgere, ma hanno il compito di distrarre il pensiero dalla sua stessa essenza, proprio perché presumono di darlo. Ma non lo danno, ne danno solo una parte, perché si pongono come “oggetti dello Spirito”, presentando se stessi come Spirito e presupponendo che l’asceta potrebbe non conoscerlo. Altrimenti quest’ultimo si dedicherebbe alla sua attività che li fa sorgere, piuttosto che ad essi.
Il pensiero è l’ultimo nato dello Spirito, attraverso il quale, però, lo Spirito comincia ad entrare direttamente nel mondo; ma può entrare solo a condizione che non prenda per contenuto del mondo ciò che gli sorge davanti grazie alla sua attività; la forma del mondo è già la sua penetrazione in esso. Solo la consapevolezza di questa impetuosa entrata nel mondo può offrire allo Spirito i mezzi per evitare la mitizzazione della natura o del soprannaturale, e di osservarli come contenuti che rivela offrendo loro forma. E questa è la via piú alta dei ricercatori di questo tempo, che la pigrizia intellettuale impedisce alla maggior parte degli uomini di conoscere, e che Nishida, resuscitatore della tradizione inestinguibile, ha oggettivamente intuito.
Massimo Scaligero
Tradotto da: East and West, Dicembre 1962, Vol. 13, No. 4.
Link all’articolo originale inglese: “Nishida and Living Thought”