Elogio della pazienza

Considerazioni

Elogio della pazienza

In memoria di Beppo Spazzino

Con l’ esercizio della pazienza, la paura si trasforma in coraggio.

Chi l’ha detto?

Lo dico io.

Lo hai sperimentato di persona?

No, ma ho incontrato delle figure umane che me l’hanno fatto capire.

Ad esempio?

Romeo di Villanova e Beppo Spazzino.

E chi sarebbero?

Ora ti spiego. Prima però devo fare un’introduzione.

(Ahi!).

 

 

Chi va piano

 

“Chi va piano va sano e va lontano”. Almeno cosí ho creduto per un tempo piuttosto lungo, si può dire da quando, entrato nell’età della ragione, ho appreso questo detto sulla cui veridicità non ho mai avanzato dubbi.

 

«Ma – cantava Modugno, come – tutti i sogni nell’alba sva­niscon perché / quando tramonta la luna li porta con sé», pure la mia sicurezza, solidificatasi nella bontà del motto, ahimé! si è miseramente sgretolata davanti al giudizio della mia nipotina, Sabrina; la quale (cinque anni appena compiuti) nel sentirmelo recitare, ha ribadito che non poteva essere vero, per il semplice fatto che se uno va piano, andrà forse sano, ma non andrà lon­tano; se per davvero va piano, è molto probabile che vada vicino o non molto piú in là.

 

Questo proferimento, si è svolto, mentre seduta sul divano, guardava in tv, con un certo distacco, uno dei suoi cartoni pre­feriti e, in contemporanea, leggeva un giornalino a fumetti che le avevo comperato poco prima.

 

È uno di quei momenti in cui un adulto, ove non sia sorretto da particolari convincimenti, potrebbe anche chiedersi “Ma che ci sto a fare io qui al mondo?”. Poiché, grazie al Cielo, di questi convincimenti ne ho ancora un discreto approvvigionamento, ho schivato l’amletico interrogativo, ma certamente sono rimasto sbalordito. Sbalordito da una logica completamente nuova, aliena, fresca, frizzante; una logica non piú mia e neppure del mondo, non di questo, almeno. Una logica immediata che vede quello che  annose esperienze maturate, scolpite dal tempo, non riescono a vedere piú.

 

E fu cosí che ricordai: avevo avuto un caso analogo molti anni or sono, quando lessi una frase di Massimo Scaligero in cui precisava che un cartello stradale, o una mappa, non indicano soltanto la strada giusta per raggiungere la mèta, ma, prima ancora, svelano la nostra “non conoscenza” del percorso.

 

Anni dopo, venni colpito da un’altra gàbola simile alle precedenti: si trattava stavolta del “Mosè salvato dalle acque del Nilo”; piú che una rivelazione, mi venne un dubbio, che in altre situazioni non mi sarebbe sorto, mettendo in crisi l’archivio delle nozioni acquisite. Il bambino Mosè fu salvato grazie all’azione delle acque del Nilo, o contro l’azione delle acque del Nilo? La lettura è la medesima, ma la differenza è notevole. In un caso le acque rappresentano la salvezza, nell’altro il pericolo da cui trarsi fuori.

 

In virtú di questi sbalzi di comprensione capaci di ruotare la realtà di 180° (la recente rad­drizzatura del quadro di Mondrian rappresenta l’ultima chicca) e presentare quindi uno scenario completamente diverso da quello cui ci si era abituati con lo starsene poggiati un po’ supinamente sul bagaglio delle esperienze compiute o prese a prestito) ultimamente, nello sfogliare le pagine ormai ingiallite della rivista Antroposofia (Giugno 1956) ho trovato una conferenza di Rudolf Steiner intitolata “Coraggio e Paura dell’Anima”.

 

Sarà che di solito non capisco le cose al volo, sarà che le vecchie edizioni italiane delle con­ferenze del Dottore non rappresentano il meglio in fatto di grammatica, sintassi, e nella traduzione dei contenuti ci sarebbero pure alcune precisazioni da fare, ho letto e riletto il testo per almeno una mezza dozzina di volte, prima di arrivare a qualcosa di solido.

 

Qui mi ricollego con gli esempi descritti in precedenza, e senza i quali forse avrei dovuto leggere quelle pagine d’Antroposofia per dozzine di volte, prima di approdare ad un barlume di comprensione.

 

In sintesi, ciò che fu detto da Rudolf Steiner in quella occasione, riguarda il modo umano di volgere alla conoscenza delle cose; c’è da rilevare subito una profonda differenza tra lo studio delle cose naturali e quello che riguarda le cose dello Spirito. In sostanza, lo studio del fisico e quello del metafisico richiedono due approcci diversi, due impostazioni interiori, solo inizialmente simili tra loro, che tuttavia non riguardano l’intensità delle medesime, ma costringono lo sperimentatore ad esercitare la propria coscienza, in un crescendo di valori, cui normalmente, negli studi ordinari, non si presta attenzione, in quanto non ne viene recepito il fabbisogno.

 

Posso svolgere un intero piano d’istruzione scolastica, dalle classi elementari fino alla laurea, senza altre necessità che quelle di porre attenzione, esercitarmi, ricordare e metterci la buona volontà fino ad un determinato grado.

 

Ma se il mio intento è acquisire le conoscenze dei Mondi Superiori, allora, in aggiunta alle suddette condizioni di base, si renderà necessaria (e indispensabile) un’ulteriore qualità, la quale non può venire appresa e neppure insegnata, se non la si attinge a quelle forze primordiali di vita con cui venne creato l’universo e nelle quali in origine fu concepita l’idea dell’uomo.

 

Le realtà del mondo sono state rese comprensibili proprio per abituarci in qualche modo ad andare oltre; non ci serve un mondo che sta in piedi entro i limiti della ragione, come altrettanto non ci serve una cultura che sentenzi: «Basta; ora sappiamo tutto». Frase presuntuosa, tipica del­l’arroganza di alcuni intellettuali, e quanto mai infelice, da mettere alla pari con l’altra che le fa da pendant: «Ignorabimus. Non riusciremo mai a sapere tutto. Ci sono limiti invalicabili».

 

Entrambe hanno creato catastrofi mondiali. Perché oltre a quei limiti vi sono un’infinità di cose per le quali la ragione fin qui adoperata diventa inutile, frenante, re­trograda. È un peso, una zavorra, che soltanto la nostra scarsa voglia di progredire in senso conoscitivo può giu­stificare. A questo punto, l’affermazione di voler cono­scere le verità dei Mondi dello Spirito diventerebbe una coperta sotto cui nascondere una ritrosia dell’anima.

 

Quindi, se ho bene inteso il pensiero del Dottore, quando vedi che i limiti posti dalla razionalità fanno da  paravento al non voler andare oltre, devi trovare in te il coraggio per proseguire.

 

Don Abbondio e il cardinale Federigo

 

Ma come si fa? Dal momento che don Abbondio (in presenza del Cardinal Federigo) ha esclamato: «Il co­raggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare!» ci siamo sentiti tutti un po’ assolti dentro la ragnatela delle umane debolezze.

 

Ma contemporaneamente sappiamo bene che non è cosí e che bisogna andare avanti, anche perché, se non lo fai da solo, sarà il flusso degli eventi a compiere lo sforzo.

 

Quante volte abbiamo detto a qualcuno, oppure lo hanno detto a noi: «Coraggio! Qui ci vuole coraggio!». «Devi farti coraggio!», o la forma equivalente: «Animo! Animo, amico bello!». Sono formule dialettiche che a volte funzionano, a volte un po’ meno, ma generalmente lasciano il tempo che trovano.

 

Perché dunque si incoraggia o ci si fa coraggio? Perché nell’anima dell’uomo in cui albergano tante belle cose, anche trascendenti, vi è pure la Paura. L’anima è paurosa; noi siamo paurosi. Ma non lo diciamo; non lo vogliamo ammettere e cerchiamo a tutti i costi di apparire forti e coraggiosi.

 

Ora, tanto per essere onesti, possiamo noi, nel tempo attuale, parlare di coraggio? Di vero coraggio? Io credo che non sappiamo nemmeno da dove cominciare. Se ci chiediamo cosa sia il coraggio, ci mettiamo subito in difficoltà. Tutti sappiamo, per contro, che il coraggio è l’opposto della paura. E quella la conosciamo bene, sia per esperienza diretta che indiretta, anche se non ci piace ammetterlo. La paura è una dispersività, una specie di sgretolamento del polo opposto, rap­presentato dal coraggio. Il fatto sembra strano ma è cosí, ci sono mille modi di provare la paura, ma ce n’è uno solo nell’avere coraggio. Credo sia dovuto al fatto che la virtú è sempre unica, mentre il suo contrario è proprio il frantumarsi della sua integrità.

 

Allora, se non riusciamo ancora a parlare del vero coraggio, facciamo come ci insegna l’antica saggezza giapponese del Teatro Kabuki: parliamo della Paura. Perché è sempre bene partire da quel che si sa e non da quel che si crede di sapere. Rappresentiamoci quindi questa benedetta paura nelle sue infinite varianti, e vediamo se da questa analisi discendente sapremo poi risalire, fino a scoprire cosa sia e dove stia di casa il coraggio. Uso l’aggettivo “benedetta” solo perché, nel presente contesto, può diventare un mezzo utile per indirizzarci al vero.

 

Quando si parte da una estremità (nel caso in esame il polo ben noto della paura) e si vuole arrivare all’altra che le sta contrapposta, è d’obbligo passare prima per il punto di mezzo. Come la matematica, pure la geometria non scherza.

 

I punti di mezzo sono facili da intuire astrattamente, ma difficili da assimilare e mantenere dopo aver accolto il loro valore. Anche per essi vale la regola del molteplice, nel senso che l’esistenza ci offre ogni giorno la possibilità di scoprirli; ma per lo piú tendono a passare inosservati, perché la coscienza dialettica dell’uomo moderno li trova scarsamente significativi; e, si sa, quando il segnale è debole, il ricevente si spazientisce, cambia frequenza, alla ricerca di un qualcosa che soddisfi la sua urgenza di concretezza.

 

Sole

 

Il momento del mezzogiorno, con il sole alto nel cielo sopra le nostre teste, è, ad esempio, il punto di mezzo tra il crescere e il declinare del chiarore diur­no; prima e dopo quell’ora, le ombre so­no piú grandi e invasive, cosí come le stagioni di primavera e di autunno se­gnano il punto di mezzo tra la vigoria prorompente della natura e il suo ritrar­si nel sonno dell’inverno.

 

Salvo le dovute eccezioni, l’età umana tra i trentacinque e quarantanove anni, rappresenta la massima espansione delle funzioni intellettive e psicofisiche capaci di unificare e armonizzare; ed infatti, tanto per rafforzare la nostra riflessione con un richiamo illustre, “nel mezzo del cammin di nostra vita” abbiamo inteso bene come possano muoversi le forze nobili nell’anima umana.

 

Quale potrebbe essere dunque il punto di mezzo tra la paura e il coraggio?

 

Qualcuno potrà pensare all’imperturbabilità o all’atarassia, ma se si pensa a fondo si vedrà presto che la risposta non è applicabile alla realtà umana. Oppure, come sostengono alcuni: «Io sono una persona mite, però se mi stuzzicano sul nervo scoperto, divento una belva!». Ma anche questa vanteria, perché di vanteria si tratta, dice poco o niente ai fini della tesi.

 

Propongo invece di riflettere ancora su un pensiero di Alessandro Manzoni, tratto anche questo dai Promessi Sposi. Dice l’Autore: «Pazienza; una magra, scarna parola».

 

Eh sí, la pazienza è scarna, magra, non dà soddisfazione; quasi sempre riduce chi la pratica ad un rassegnato servaggio al proprio destino. Se la calma è la virtú dei forti, sembra quasi che la pazienza sia per qualche misterioso contrappeso il conforto dei deboli. Magari sarà cosí; tutte le opinioni hanno diritto di essere ascoltate. Ma una cosa è ascoltare, un’altra è accoglierle e crederci.

 

In base a quanto scritto circa le interpretazioni originali da parte di coscienze particolarmente sveglie, con la loro possibilità di vedere cose che le anime invecchiate ed esposte all’azione delle intemperie non sanno piú vedere (di cui ho riportato i resoconti) anche la parola “pazienza” potrebbe venir riconvertita; dopo un profondo, onesto esame interiore con noi stessi, forse potremmo toglierla dal novero delle “resistenze passive” e ascriverla in quello delle “azioni decisive e valorose”.

 

Certo, se vogliamo dare risalto solo agli esempi simbolici piú popolari ed enfatici, non dob­biamo cercare tra la folla dei “pazienti” senza volto; vorrei però ricordare che c’è un monumento per quegli eroi di tutti i tempi e di tutte le battaglie, dei quali non si saprà mai il nome né le gesta, ed è il monumento al Milite Ignoto; se venisse stilato un elenco anche solo approssimativo dei valori rappresentati, credo di poter dire che pochi abbiano dato tanto a molti. E l’hanno fatto nel silenzio dell’anonimato piú assoluto.

 

I sei giorni della creazione

I sei giorni della creazione

 

Perciò andiamo a rivedere un po’ il nostro concetto, o meglio la nostra rappresentazione di “pa­zienza”, e cominciamo a pensare che, forse, il coraggio, potrebbe anche  nascere da quel punto in poi. A pensarlo, infatti, ci vuole già una piccola dose di coraggio.

 

L’universo venne creato in sei giorni. I bambini nascono dopo nove mesi di gestazione. Chi accetta l’idea antroposofica della reincarnazione, sa che essa in alcuni casi può verificarsi anche dopo otto-nove secoli. Forse anche per tutte le altre cose che ci riguardano bisognerebbe imparare ad attendere con pazienza l’arrivo del momento giusto, del punto di mezzo che sta tra la paura e il coraggio. Quando questo momento arriva, sarà bene tenerselo stretto stretto: indietro non si torna.

 

Quindi il Manzoni avrebbe dunque preso un granchio? Nean­che per sogno. La pazienza è davvero “una magra, scarna parola”, ma lo è per chi non sa dello Spirito, non conosce l’evoluzione e la missione dell’anima umana, ignora il concetto di uomo, di individuo moralmente libero, e per conseguenza, qualunque forma di ascesi gli venga proposta, sarebbe scartata sul nascere. Questo per affermare la posizione esattamente opposta: la cosiddetta “pazienza” sta alla base di qualunque pratica di ascetismo si voglia intraprendere.

 

La colpa è quindi ignorare la nostra situazione piú intima e vitale; che non è la tensione tra Oriente e Occidente, né la crisi energetica, né la pandemia, né il rincaro delle bollette, né i governi della politica, che ora corrono di qua, ora corrono di là, promettono rosei futuri e si rimangiano i crepuscoli passati pur di agguantare il potere e non sanno a che santo appellarsi per mascherare ancora una volta la scarsa attitudine all’impegno assunto.

 

A quanti vengono a trovarsi in una condizione del genere, è inutile imputare colpevolezze, è inutile addossargli il peso di giudizi negativi. Ognuno è libero di fare come gli pare. Governanti e governati compresi. Ma sicuramente, da una condizione umana perdurante di questo genere, pos­siamo almeno apprendere che paura e ignoranza sono strettamente connesse e riunite in un patto segreto fortemente avverso all’uomo.

 

Per starsene seduti su una sedia a sdraio, crogiolandosi al sole, e ascoltare le voci del mondo tramite cellulare o altri marchingegni, non occorrono attrezzature e preparazioni speciali. Ma se vuoi scalare le vette piú alte o esplorare gli abissi marini, allora devi essere bene addestrato, avere l’equipaggiamento necessario e saperlo anche usare con una certa abilità.

 

Ripresa subacquea di Jean Cousteau

Ripresa subacquea di Jean Cousteau

 

Altrimenti non ti resta che leggere i racconti di Walter Bonatti o guardare i filmati di Jean Cousteau (dopo però non contestare le azioni compiute da altri o lamentarti d’esser stato ignorato quando criticavi a destra e a manca).

 

Una delle varie ragioni per le quali la parola “pazienza” si è sbrindellata nel tempo fino ad indicare una sopporta­zione remissiva, considerata sgradevole (pertanto motivo principale per inveire contro il proprio destino) sta nel fatto che il suo etimo dal latino patio patire, è pervenuto ai nostri giorni soltanto col significato di patire. Cosa questa verso cui nessuno è ragionevolmente disponibile.

 

Ma se in una coscienza pensante umana si facesse lentamente strada il concetto di karma, allargando tale pen­siero non solo al puro corso dei propri avvenimenti, ma in un piú ampio contesto, in una visione corale di se stessi e dell’umanità in genere, allora il patire potrebbe acquistare una tonalità molto diversa. Accanto al concetto di karma, la coscienza pensante potrebbe congiungersi con quello di evoluzione dell’anima indirizzata allo Spirito; pure in tal caso il senso del soffrire comincerebbe a presentarsi in modo inusuale, gli aspetti esecrabili sparirebbero, emergerebbero altri da considerare utili se non addirittura irrinunciabili.

 

Chi fu Romeo di Villanova? Noi lo conosciamo esclusivamente per quanto citato da Dante nel VI Canto del Paradiso della sua Divina Commedia. Ma questo è rilevante ai fini prettamente letterari. Romeo di Villanova venne scelto dal Poeta, tra i misconosciuti che hanno dato tanto agli altri senza badare a se stessi, e lo hanno fatto in sordina, lontani da sbandieramenti e proclami. I loro silenzi, in questi casi, sono protetti da una modestia tenace, divenuta in tutto e per tutto forza di una vita interiore capace di esprimersi con pacato riserbo, in un esempio di dignità, di coraggio decisionale, frutti d’una compostezza che sovrasta i tumulti del mondo. Dante gli dedica questi versi: «E se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto / assai lo loda, e piú lo loderebbe».

 

Per mantener fede al mio impegno dovrei ora collegare un cotal personaggio, con la figura, sicuramente meno letteraria e forse un tantino piú recondita, di Beppo Spazzino. Per trovarlo, non serve consultare testi storici; c’è da leggere il romanzo “Momo” di Michael Ende (già autore de La Storia Infinita, entrambi racconti bellissimi che fanno sognare i bambini, ma possono ridestare anche le anime adulte momentaneamente assopite).

 

Beppo

 

Beppo Spazzino non è il personaggio centrale della storia: è una figura di contorno, un amico e un consigliere fidato di Momo. Oltre alla saggezza istintiva del cuore, Beppo possiede pure una filosofia di vita, dalla quale mi sono permesso di attingere in abbondanza, senza aver avuto l’autorizzazione preventiva da parte di Herr Ende, il quale, sapendolo, sono certo che ne sarebbe rimasto contento. Dunque, Beppe Spazzino si chiama cosí perché il suo lavoro quotidiano è tenere pulita la strada. Nelle città del mondo ci sono ovviamente moltissime strade; tutte hanno bisogno di una manutenzione giornaliera. Questa può verificarsi a volte sí e a volte no; dipende dal Municipio, dalla Giunta Comunale e dagli abitanti. Ma la strada che Beppo Spazzino pulisce ogni giorno, dall’alba al tramonto, non è una strada qualunque: è un vialone alberato che non finisce mai, lastricato da grandi pietroni rettangolari che gli conferiscono una configurazione geometrica tendente all’infinito, anche se Beppo direbbe che è solo una questione di prospettiva.

 

Gli amici, vedendolo intento all’opera con la sua brava scopa di saggina, a pulire pietrone dopo pietrone, gli chiedono: «Come fai a non stancarti, a non annoiarti, con un lavoro cosí monotono? Ogni giorno la stessa strada, le stesse pietre, le stesse immondizie, come fai a lavorare zitto zitto, con la pioggia e col sole, sempre solerte, preciso e di buona lena? A vederti fare, sembri quasi contento, si direbbe che provi gusto! Sei forse un autolesionista?»

 

Al che, Beppe si ferma, appoggiandosi per un attimo al manico della scopa, e spiega ai curiosi: «Vedete amici, sicuramente come dite voi, ci sarebbe da diventar matti se guardassi al mio lavoro in senso globale. Il vialone è grande e quando s’ incomincia a pulire non se ne vede la fine. Ma il segreto è tutto qui: non dovete guardare troppo in avanti, guai! Se lo fate, vi smarrite e, quel ch’è peggio, perderete le forze. Invece voi dovete prendere in considerazione un solo pietrone alla volta. Dovete rivolgergli la parola, fargli capire che lo riconoscete, che lui è proprio lui e che ora voi siete qui per dargli una bella spazzolata, liberarlo dagli ingombri e dalle cose che lo deturpano, in modo che per tutta la giornata possa sentirsi fresco e pulito. La gente gli camminerà sopra piú volentieri e lui ne sarà felice: saprà di aver assolto la sua funzione nel modo giusto, per gli altri e per se stesso. Poi, dopo aver pulito ben bene il Pietrone N°1, compresi gli angolini e gli interstizi (che quelli sono i piú difficili!) lo saluterete e passerete al Pietrone N° 2, già in attesa del vostro intervento. Gli direte: «Ciao, Pietrone N° 2, come va?» e ricomincerete tutto da capo. Vi posso garantire che non vi annoierete, perché ogni Pietrone è fatto a modo suo, ha le sue esigenze. Per questo bisogna lavoraci sopra per parecchio tempo, per conoscerli bene uno ad uno. Sapete com’è, all’inizio sembrano tutti uguali, ma poi, strada facendo, si scoprono cose incredibili, ci si conosce meglio ed anche un lavoro come il mio, che visto da fuori può apparire faticoso e monotono, diventa in fondo una passeggiata tra vecchi amici».

 

Che dire? A me viene da affermare in modo perentorio che qui ci troviamo davanti ad uno di quei particolarissimi casi della vita umana in cui la virtú della Pazienza si è cosí tanto fortificata nel tempo, grazie all’esercizio quotidiano svolto con dedizione e amore, da diventare autentico Coraggio.

 

È un coraggio diverso da quello di Sigfrido, eroe di wagneriana memoria, che non poteva provare la paura in quanto non la conosceva proprio. Quelli erano altri tempi e gli uomini (almeno alcuni) potevano godere di doni particolari, concessi da quel Mondo degli Dei, che tuttavia entrava già nella fase declinante.

 

Oggi non ci sono piú dei, non ci sono piú doni; la pacchia è finita e ciascuno deve, se vuole, trovare in sé il miglior motivo da attribuire alla propria vita. Motivo che potrebbe essere gigantesco e trascendentale, quanto piccolo piccolo, microscopico; praticamente invisibile ad occhio non esercitato.

 

Beppo Spazzino nulla sapeva di tutto ciò, e quand’anche l’avesse saputo, gli sarebbe servito poco o niente. Orgoglio personale, echi d’eroiche virtú, squilli di gesta epiche, non avrebbero mai fatto parte della sua esperienza. Aveva già il suo bel da fare da portare avanti, e un uomo che porta nel segreto del suo cuore, in tutta umiltà, quel Grande Impegno che il suo Io (ovvero il senso, il motivo e la sostanza del suo stesso esistere) gli ha assegnato, è già un Eroe.

 

Che lo sappia o meno, non ha importanza; anzi, per qualcuno è meglio non saperlo mai. Potrebbe distrarsi.

 

 

Angelo Lombroni