Cosa succede a un certo punto, quando l’anima si libera dal corpo? Ciò che accade lí, ciò che diventa un’esperienza istantanea, può essere approssimativamente descritto nel modo seguente.
Se prendiamo il corpo umano cosí come viene indagato dalla scienza ufficiale con i suoi strumenti, dovrebbe essere chiaro, anche a livello logico, che questo corpo umano deve essere permeato da qualcosa che non segue le sue leggi e la sua necessità interiore. Quali sono queste leggi e queste necessità? Ebbene, si manifestano nella morte, quando il corpo umano fisico si avvicina alla dissoluzione. Che viene quindi lasciato alle sue leggi. Secondo una certa logica, che ho già spiegato qui, si può dedurre da quanto detto che nell’uomo deve esserci qualcosa di piú elevato di questo corpo fisico. Ma se non c’è fin dall’inizio un sano senso di verità per ciò che la Scienza dello Spirito è in grado di esplorare dalle basi primordiali dell’esistenza, in queste considerazioni logiche deve sempre rimanere un certo margine che rende possibili le obiezioni.
Ma che cosa succede quando si verifica davvero quell’evento che può essere chiamato Iniziazione, attraverso il quale l’esploratore spirituale sperimenta se stesso interiormente in modo indipendente dal suo essere fisico-corporeo? Lí ha veramente la sua corporeità al di fuori di sé, si vede fuori dal proprio corpo, non ce l’ha intorno a sé. E come gli appare? Non bisogna credere che sia cosí bello e piacevole fluttuare fuori dal proprio corpo e che questo sia disteso nel letto, intatto e rassicurante. Non è cosí.
Tuttavia, ciò che si percepisce quando ci si è preparati in modo corretto è qualcosa di molto strano. Vale a dire che non si conosce il corpo nelle forze in cui vive, ma lo si conosce nelle forze che sono già presenti durante tutta la vita come forze di decomposizione, di morte, si conosce ciò che lavora alla distruzione del corpo durante tutta la vita. Se ci si vuole esprimere in modo scientifico, erudito, si può dire: si impara a conoscere la morte latente nel corpo. Dappertutto si conoscono le tendenze del corpo a distruggere gli atomi, ad assimilarsi agli elementi della terra; si impara a conoscere come il corpo vuole dissolversi. Si può esprimere ciò che si prova nei confronti del proprio corpo attraverso un confronto; non si tratta però di una semplice immagine, ma è utilizzato per esprimere le esperienze interiori che devono essere fatte.
Considerate la fiamma di una candela. La candela si consuma. Il materiale bruciando viene distrutto. Finché il combustibile è ancora presente, la fiamma può essere presente. Ma per quale motivo la fiamma è lí, per quale motivo è presente, esiste? Solo grazie al fatto che il combustibile brucia gradualmente, si dissolve. Se si vuole evitare che il combustibile si dissolva, bisogna spegnere la fiamma. Non si può pretendere che la candela rimanga intatta e che la fiamma sia sempre presente. Si può avere la visione e il vantaggio della fiamma solo mentre si consuma il combustibile. A titolo di paragone, nella visione sovrasensibile il proprio corpo fisico appare come una fiamma ardente che si consuma. Il corpo appare come il combustibile, insieme alla fiamma, che bruciano. Si sa cosa succede nel corpo, in quello che c’è in lui, cioè che nel corpo è presente la tendenza a consumare se stesso. Come la fiamma nasce in una candela con il consumo del materiale che brucia, cosí, dalle sue forze di morte, nasce nell’uomo quella che nella vita ordinaria viene chiamata coscienza dell’Io. Non si potrebbe mai sperimentare questo se non si portasse la morte nel proprio corpo.
È cosí per l’essere umano. Mettetevi ipoteticamente al posto di un corpo umano che sia talmente integrato nel mondo da non poter morire, da non avere, oltre alle forze che lo fanno crescere e diventare grande, anche le forze che lo consumano con la stessa certezza con cui la fiamma consuma la candela: il suo Io si spegnerebbe, l’Io non ci sarebbe piú! Questa è l’impressionante intuizione che si raggiunge come ricercatore spirituale, quell’impressionante intuizione che deve essere riassunta nelle parole: “non portiamo in noi solo le forze della crescita, ma anche le forze della morte”; e il fatto che le portiamo in noi, che abbiamo in noi la tendenza alla morte, ci dà la possibilità di vivere tra la nascita e la morte con la coscienza dell’Io.
Lo si nota in un processo interiore ben preciso: quando, come ricercatori spirituali, si è ormai fuori dal corpo fisico si avverte che sta avvenendo una trasformazione nell’Io. L’Io diventa qualcosa che non si desidera che diventi. Da un pensiero, che per altro accompagna sempre la vita, senza il quale non si è nemmeno presenti allo stato di veglia, l’Io, questo Io che altrimenti si ha nella vita normale, diventa qualcosa che allora non si ha in sé, che si ha di fronte, proprio come se fiammeggiasse dall’immagine della morte corporea: l’Io diventa un ricordo. Questo è il passaggio significativo dalla cognizione extra-spirituale a quella spirituale: che si ha l’Io in sé solo come mero ricordo, di cui però si sa: “è lí, lo si può guardare come un ricordo, ma non lo si può avere in sé adesso”. In questo modo, spiritualmente, si impara a conoscere la morte e il suo legame con l’Io, come avviene nella normale vita umana.
Ora l’esplorazione spirituale può continuare. Ciò che sperimentiamo nell’anima può essere suddiviso in tre gruppi di esperienze spirituali. Due gruppi di questa esperienza spirituale vanno innanzitutto sottolineati come particolarmente importanti e significativi: il pensiero immaginativo e la volontà. Quando siamo nella vita quotidiana, dobbiamo accompagnare questa vita quotidiana con i nostri pensieri. Cosa saremmo come esseri umani se non andassimo in giro per il mondo a pensare, se non potessimo pensare alle cose? Cosa saremmo come esseri umani se non avessimo l’impulso di fare questo o quello, di eseguire questo o quello? La volontà e il pensiero sono le forze della vita dell’anima che accompagnano sempre l’uomo nella sua quotidianità.
Se si avanza nella ricerca spirituale fino all’esperienza dell’anima al di fuori del corpo, si scopre ulteriormente che non si può includere nell’esperienza non corporea ciò che, come essere umano, si sente effettivamente nell’esperienza ordinaria: pensare, immaginare. I pensieri quotidiani, anche quelli della scienza ordinaria, che si appoggiano sull’esperienza dei sensi esterni, devono essere lasciati fuori; svaniscono, direi, quando si entra nella coscienza fuori dal corpo. Perciò, per il ricercatore spirituale è pienamente comprensibile quando colui che vuole affidarsi solo alla vita dell’immaginazione, come viene ottenuta dalla vita esteriore, dice come il professor Forel: «La coscienza si addormenterà molto presto quando non ci sarà piú nulla da introdurre dall’esterno». Questo è comprensibile per una coscienza che vuole affidarsi solo al mondo esterno, perché le impressioni che provengono dal mondo esterno non possono essere portate nella vita del sonno né nell’esperienza di ricerca spirituale. Per chi diventa un ricercatore spirituale, questo provoca qualcosa di immensamente angosciante, provoca qualcosa che lo fa sentire separato da tutto ciò a cui si è attaccati nella vita esteriore, che si considera prezioso nella vita esteriore, sí, di cui si può persino dire a se stessi: se non lo si ha nella vita normale, ti addormenti. Come ricercatori spirituali, dovete entrare in una vita in cui non potete avere questo, in cui dovete rinunciare a tutto ciò che siete stati abituati a pensare nella vita ordinaria. E cosa si sperimenta allora in relazione a ciò che nella vita normale si esprime come pensiero, quando i pensieri che di solito non si hanno piú sono svaniti, quando si è rimasti davanti alla soglia entrando nel mondo spirituale, cosa si sperimenta allora? Vorrei esporre ciò che si prova in quel momento.
Prima di tutto, si sperimenta ciò che fa il sonno. Sapere come agisce il sonno è già un’esperienza significativa. Ora si impara, anche se in modo piuttosto limitato, ad essere d’accordo con il pensatore materialista che dice: il cervello necessario per pensare e un pensiero deve essere basato su certi movimenti nel nostro cervello. È vero, assolutamente vero! E qualsiasi obiezione al materialismo che dica che i pensieri possono esistere senza il cervello è da respingere a priori. Il pensiero, infatti, non è il mezzo con cui ci inseriamo nel mondo spirituale quando vi entriamo come ricercatori spirituali. Là non troviamo i pensieri. Ma troviamo qualcos’altro, che è ciò che crea il pensiero nel cervello. Ma cosa porta il cervello a compiere movimenti molto specifici in modo che diventi uno specchio del pensiero? Sono innanzitutto le forze animico-spirituali. Là operano le forze animico-spirituali che il ricercatore spirituale trova dietro il pensiero, non nel pensiero. È quindi d’accordo con ciò che il ricercatore materialista, se rimane nei limiti del suo campo, può dire: cioè che i pensieri quotidiani sono conseguenze del cervello. Ma ciò che avviene nel cervello, tramite il quale la corporeità si trasforma prima in uno specchio, e poi di nuovo in uno specchio del pensiero, è il lavoro che fa l’anima spirituale dietro di esso.
Come ricercatori spirituali andiamo davvero oltre la vita quotidiana, nel regno della creazione del mondo. Quindi, impariamo anche a comprendere la vita del sonno, a partecipare durante la notte a come ciò che sta dietro al sonno e che ripara le parti logorate del nostro cervello. Diventiamo spettatori di questo lavoro rigenerativo sul corpo, conosciamo il lavoro, l’attività del sonno. Conosciamo i pensieri che ci affliggono durante la giornata da un lato e come ricercatori spirituali dall’altro; e ogni volta che un pensiero può manifestarsi e apparire nell’immagine speculare del cervello, lo conosciamo dall’altra parte, quando il corpo dorme di notte, quando agisce e vive nel cervello e lo stimola alla sua attività durante la vita diurna. In questo modo, si può conoscere il pensiero dall’altra parte. Questo è uno dei modi per conoscere il pensiero.
L’altra parte, il modo in cui si arriva a conoscere il pensiero, è ora qualcosa che nella ricerca spirituale diventa tale che non è possibile, se non si è ben preparati fin dall’inizio, avere simpatia per ciò che accade. Si conosce il funzionamento interiore, il sentimento interiore, l’esperienza interiore dell’anima. Si può conoscere l’anima come qualcosa di interiormente mobile; si può conoscere un’attività dell’anima di cui si può dire: cosa vuole questa attività? Vuole formare dei pensieri. Ma nel modo in cui vi appare, non può formare pensieri. Si può conoscere una parte dell’attività dell’anima che serve a riparare durante il sonno il cervello stanco; si può essere soddisfatti di questo. Si impara a conoscere un’altra parte dell’attività dell’anima, con la quale ci si scontra da dentro con l’intera corporeità del cervello, una parte di cui si può dire a se stessi: adesso ce l’ho. E approfondendo, esaminando piú da vicino per quali motivi adesso ce l’hai, ti diventa chiaro che la hai grazie a ciò che hai sperimentato fin dalla nascita e che hai elaborato nella tua anima: è diventato qualcosa grazie a questo, ma che, cosí come sei, urta contro il tuo cervello e non permette che ciò che vuole nascere si realizzi come pensieri ordinari della vita quotidiana. Cosí il ricercatore spirituale vive in uno stato in cui sente se stesso nel corpo, che per lui è il mirabile strumento spirituale del pensiero, come se fosse chiuso in una stanza, in una prigione. E si sente cosí toccato da questo fatto che dice a se stesso: dalla tua attività interiore ora potresti formare dei pensieri, se il tuo cervello non rimanesse lí come una sostanza pesante e non volesse lasciarsi smuovere da ciò che l’anima vuole.
Si è spesso detto che i metodi che il ricercatore spirituale deve seguire portano a una certa sofferenza. La sofferenza consiste sempre nell’impedire qualcosa che si vorrebbe esercitare nell’anima. Anche il dolore fisico consiste in questo, ma se ne potrà parlare piú avanti. Vive come sofferenza ciò che il ricercatore spirituale coglie nel suo divenire e ciò che vuole diventare pensiero, ma non può diventarlo; perché il cervello è adatto solo ai pensieri che si acquisiscono nella vita normale. Forse è proprio a questo punto che si capirà che l’indagine sul problema della morte diventa un martirio interiore dell’anima, che può essere intrapreso solo perché l’uomo ha dentro di sé l’urgenza necessaria di conoscere, di arrivare a scoprire i segreti della vita. Sí, si capirà anche che questa ricerca non viene intrapresa cosí spesso, perché in realtà, vivendo nelle fasi della vita in cui ci si confronta con qualcosa di questo mistero, si può progredire solo se si riesce a superare tutto ciò che altrimenti ci piace, ciò che ci è congeniale nella vita.
Non sarà quindi facile parlare di quanto appena sottolineato con qualcosa di diverso di un certo tono di malinconia e di profonda serietà. E si raggiunge allora sempre di piú la possibilità non solo di vedere la manchevolezza nell’esperienza animico-spirituale, ma si impara a rinunciare a voler elaborare pensieri per mezzo del corpo a partire da ciò che si sperimenta in questo modo. Questo “si impara a rinunciare” è facile da esprimere, ma questa rinuncia appartiene alle questioni serie e profonde della vita. È una rinuncia che si ottiene solo mediante certe amarezze, giustificate solo dal fatto che portano alla conoscenza. Si è sperimentato questo: non poter trovare una espressione nel pensiero rispetto a ciò che si è raggiunto, quindi lo si sperimenta solo interiormente. E cosa si prova allora? Si sperimenta ciò che è adatto per intervenire nel corpo, anche se non ora, perché il corpo lo impedisce, ma che forma un germe per una nuova corporeità che costruiamo per una prossima vita sulla Terra, quando siamo passati attraverso una vita dopo la morte in un mondo puramente spirituale. Ciò che si sperimenta nel periodo tra la morte e la successiva nascita sarà trattato in seguito.
Descrivendo le esperienze interiori che il ricercatore spirituale fa con il suo pensiero, ho cercato di mostrare come egli sperimenti il suo nucleo interiore animico-spirituale che, per le sue peculiarità, dovrà nascere in una prossima vita terrena, proprio come da un germe vegetale che si sviluppa dovrà nascere una nuova pianta. Infatti, quando si cerca ciò che non si può vedere con i sensi e non si può pensare con una mente legata ai sensi, non è ipotizzando che si impara a conoscere ciò che si sviluppa nell’uomo oltre la morte, ma riconoscendo ciò che si prepara nella vita per una esistenza oltre la morte e quindi per una nuova vita sulla Terra. La Scienza dello Spirito non vuole speculare o filosofeggiare sull’immortalità; vuole piuttosto preparare l’anima umana in modo che il nucleo immortale del suo essere sia realmente presente, si potrebbe dire “preparato spiritualmente”, proprio come nelle scienze naturali si esamina qualcosa preparandolo fuori dall’ambiente in cui la sua peculiarità non può essere esplorata. Questo per quanto concerne il pensiero.
Le cose sono ancora diverse per quanto riguarda il volere. Anche in questo caso si assiste a un cambiamento. Ci si accorge allora di quanto la volontà, che nella vita ordinaria si esprime nel mondo esterno, dipenda dalla costituzione del corpo, di come quella che si definisce una forte volontà sia incredibilmente legata all’intera costituzione del nostro corpo. Con ogni impulso di volontà mettiamo per cosí dire in campo il nostro corpo. Ora, sul terreno della ricerca spirituale, dobbiamo avere la volontà senza avere presente il corpo. La volontà si afferma allora immediatamente mostrando di essere ben là e presente, ma in un modo a cui non si è abituati. Quando si ha un impulso di volontà, si è abituati altrimenti a mettere in azione il proprio corpo; quando il corpo giace inattivo a letto, non si attiva nessun impulso di volontà. Percepiamo sempre impulsi di volontà in relazione al corpo. Ma ora l’anima, che vuole penetrare nel mondo spirituale, è di là dal corpo fisico, dove lavora con l’impulso della volontà. Questo provoca una certa tensione interiore, come se la volontà fosse limitata da tutti i lati, fosse dentro un guscio d’uovo impenetrabile, come se le fosse impedito di pensare, di immaginare, di sentire e percepire, di camminare, di stare in piedi, di fare ogni cosa. Si sente la volontà nella sua autosufficienza, ma come se si trovasse ovunque a sbattere contro muri attraverso i quali non può passare. E bisogna continuare a fare gli esercizi spirituali interiori fino al punto in cui non solo ci si accorge di questo aspetto negativo nella volontà, ma si riesce a sperimentare l’interiorità come se ora fosse compressa nella volontà. Poi ci si rende conto che si vuole di nuovo qualcosa, di cui si deve dire che non si fa volentieri l’esperienza. Quando si mette in atto la volontà nel mondo esteriore, si hanno gli impulsi della volontà da un lato e l’ordine morale-sociale dall’altro. Nella vita ci si impone dei doveri, oppure si hanno dei doveri imposti dall’ordine morale-sociale. Si distingue tra una buona e una cattiva volontà, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; nel mondo circostante si fa la distinzione tra regole morali e impulsi della volontà. È proprio vero. Ora che vi siete ritirati dal mondo esterno, la volontà rimane con voi in modo molto simile a come l’Io è stato con voi in precedenza: ciò che avete voluto rimane con voi come un ricordo.
Descrivo come nascono le esperienze. In questo caso, si deve descrivere la visione immaginativa; può forse sembrare incredibile, ma le cose devono essere rappresentate in questo modo. Allora si sperimenta nella propria volontà compressa qualcosa di simile a una morale che si trova dentro la volontà stessa. Un’azione, che per la nostra coscienza sensibile esteriore deve essere considerata cattiva, in questa volontà viene vissuta in modo tale che appartiene a ciò che noi stessi dobbiamo compensare. Nella memoria si sperimenta cosí che il potere di compensazione, la quale deve avvenire perché l’azione immorale lo richiede, si trova all’interno della volontà. Non si può fare a meno di dire: ciò che hai fatto di male deve stare accanto a te come un fantomatico nemico che ti rimarrà accanto finché non lo avrai allontanato con azioni compensatrici. A colui che sperimenta la volontà in se stesso e sperimenta nella sua memoria ciò che egli stesso ha voluto, i propri torti si presentano a lui con assoluta evidenza e continuano ad operare finché non li ha rimossi attraverso impulsi equilibratori della volontà. In questo modo si fa l’esperienza di quello che spesso viene chiamato con un nome orientale come lavoro interiore del karma.
Quando si sperimenta un atto della volontà che si è voluto, lo si sperimenta in modo tale che si vede che è stato fatto; perché ogni atto della volontà, come il pensiero, appartiene alla memoria. Si sa allora quello che è stato fatto e allo stesso tempo ha contribuito al nostro progresso nel nostro sviluppo; qualcosa si effonde sulla nostra coscienza che può essere definito un chiarore luminoso in relazione a ciò che è stato fatto. Ma tutto ciò che è fatto funziona in modo tale che si vede come la morale e la meccanica tengono insieme ciò che è separato nella vita fisica e come un’ingiustizia o una cosa immorale restano attive finché nella vita esterna non ci si sforza di estinguerle in una certa misura, finché non si è trovata la forza di eliminare l’ingiustizia, cioè di ripararla. Quando sperimentiamo la volontà nella coscienza senza corpo, sappiamo che essa ha i suoi impulsi morali interiori in ogni circostanza; sappiamo che ciò che viene chiamato karma è una forza continua nel mondo. Ma ora accade una cosa dolorosa: dobbiamo riconoscere che nella nostra vita attuale ci sono molte, troppe, veramente troppe azioni per le quali ci manca la possibilità di compensazione! Ora che le vediamo nella loro realtà, sappiamo che ci accompagneranno nella nostra prossima vita sulla terra e contribuiranno al nostro destino.
Ciò che ho cercato di illustrare in questo modo può essere chiamato ricerca sulla morte, perché significa sperimentare ciò che passa attraverso la porta della morte in quanto elemento immortale dell’essere umano. Da tutto ciò si vede che la vera ricerca sulla morte è una ricerca intima, interiore, che è però tanto piú una ricerca universalmente umana, in quanto riflette ciò che si trova in tutti gli esseri umani. Perché, in realtà, ciò per cui nella vita tra la nascita e la morte è questo particolare personale essere umano, che abbiamo grazie al nostro corpo e al mondo esteriore, e tutto questo non passa con noi attraverso la porta della morte. Ciò che ci accompagna attraverso la porta della morte sta dietro il fisico-sensibile e dà origine al fisico-sensibile portandolo nel mondo esteriore e nel nostro stesso aspetto durante la nostra propria esperienza tra la nascita e la morte.
Ora ci poniamo la domanda: perché nella vita ordinaria non notiamo nulla della nostra anima immortale? Perché ciò che può rivelarci il mistero della morte si avvolge di tanta oscurità?
Si avvolge in queste tenebre, perché nella vita ordinaria dell’anima tra la nascita e la morte viviamo di queste tenebre. Per la normale vita quotidiana dobbiamo estinguere nella coscienza quello che in noi è immortale, in modo da poter vivere nel corpo, vivere con il mondo dei sensi fisico esteriore, affezionarci ad esso e svolgervi la nostra missione. Nel momento in cui vogliamo avanzare verso ciò che è immortale, dobbiamo cancellare la nostra esperienza fisico-sensibile, la nostra vita quotidiana. Dunque, se per avere l’ordinaria vita fisica-sensibile di tutti i giorni dobbiamo eliminare ciò che è immortale nella nostra coscienza ordinaria, e se dunque abbiamo l’ordinaria vita fisica-sensibile solo estinguendo per un certo tempo ciò che è immortale, non dobbiamo stupirci di non trovare nella vita di tutti i giorni ciò che può illuminarci sulla morte, per la quale, in fin dei conti, il mistero stesso deve giustamente sussistere.
Il ricercatore spirituale può anche dimostrare perché nella vita ordinaria non si può trovare il segreto della morte. Infatti, scendendo con la nostra parte animica-spirituale dalle altezze spirituali in ciò che ci viene dato nella linea ereditaria del padre e della madre, collegandoci alle sostanze fisico-corporee e immergendoci in esse, la coscienza limitata deve estinguere la coscienza universale. E con la morte, dove la coscienza infinita torna a risplendere, la coscienza limitata si estingue e ciò che può esserne conservato rimane come memoria. Ma quando l’uomo ha varcato la porta della morte, la vita che sopraggiunge è garantita dallo sviluppo scientifico-spirituale dell’anima umana, quando essa applica quei metodi con cui già nella vita ordinaria penetra nel mondo spirituale e varca in piena coscienza la porta della morte e sviluppa una vita di cui, quando arriveremo alla conferenza corrispondente, daremo un resoconto particolare senza la paura che oggi prevale a questo riguardo.
La prossima volta, descriveremo ciò che si può tuttavia considerare come la diretta conseguenza di ciò che oggi abbiamo cercato di trattare in quanto mistero della morte in base alla scienza dello spirito; questa morte che è già presente durante la vita e alla quale dobbiamo ciò che rende possibile la coscienza ordinaria. Sí, nel nostro tempo c’è un’avversione per queste cose, le persone non amano esaminarle. E anche i piú bravi e brillanti pensatori rifuggono dall’addentrarsi in quelle tematiche che oggi sono state evidenziate in relazione al problema della morte.
È cosí che un uomo eccellente come Maurice Maeterlinck, nel suo libretto di recente pubblicazione Sulla morte – che dovrebbe essere letto proprio perché andrebbe splendidamente collocato accanto a tutto ciò che conta – propone le vedute piú contraddittorie su tutto ciò che riguarda il problema della morte. Lui, che è in grado di parlare di tutti gli altri settori della vita in modo molto spiritoso, ha dovuto fallire in questa materia perché, come si vede ovunque, ha un modo speciale di abbordare le cose: di raffigurare la morte con gli stessi mezzi di cognizione delle cose materiali. Non è un ricercatore spirituale. Non sa, quindi, che questi mezzi devono essere abbandonati se si vogliono esplorare gli ambiti che vengono presi in considerazione in relazione al problema della morte.
Maeterlinck si trova nella stessa posizione in cui un tempo si trovavano i matematici di fronte al problema chiamato “quadratura del cerchio”. C’è stato un tempo in cui, nei circoli matematici, venivano sempre inviate nelle sedi competenti le soluzioni su come si poteva trasformare un cerchio in un quadrato. Ma le soluzioni erano tutte insoddisfacenti e oggi chiunque si occupi ancora di questo problema è un dilettante, perché oggi è rigorosamente dimostrato che il problema non può essere risolto. Cosí, mentre in passato si aveva ancora la prospettiva di essere considerati dei geni se si voleva risolvere la “quadratura del cerchio”, oggi chi volesse ancora tentare di farlo è un dilettante.
Anche per quanto riguarda la questione dell’immortalità, le opinioni delle persone cambieranno, cosí come sono cambiate le opinioni di quei matematici. Poiché oggi qualcuno sta ancora cercando di risolvere la “quadratura del cerchio” in un altro campo; ma bisognerebbe dirgli: tu pretendi che sia dimostrato quali sono i segreti della morte con i mezzi della vita ordinaria. Ma per quanto riguarda le prove, ciò che conta è che vengano esaminate. Bisogna anche rendersi conto che le prove che cercano di dimostrare il mistero della morte e dell’immortalità attraverso la vita ordinaria sono impossibili, perché è proprio nella vita di tutti i giorni che abbiamo nascosto i poteri di ciò che è immortale, affinché, in quanto esseri umani mortali, diventiamo esseri umani coscienti del nostro Io.
Ma un’altra caratteristica particolare si presenta in Maurice Maeterlinck. Dopo aver parlato dappertutto – a volte in modo molto spiritoso – di cose ormai passate, arriva a dire – in modo un po’ piú brillante, piú fantasioso di Max Müller, laddove quest’ultimo lo ha fatto in modo un po’ piú cattedratico – che l’anima dovrebbe abituarsi al fatto che non potrà mai esplorare veramente i segreti dell’esistenza né in questa vita né mai. Poi continua dicendo che è probabilmente una buona cosa che non si possa indagare su questo. E aggiunge che non augura al suo peggior nemico di poter indagare sui veri misteri. Anzi, teme che il mondo, se viene esplorato, diventi “senza mistero” e che se si dovesse penetrare il mistero della morte, perderebbe tutto il lustro del mistero. Dunque, Maeterlinck dice che non augurerebbe al suo peggior nemico di conoscere i veri segreti, anche se avesse una mente molto piú grande e potente della sua.
Ho già detto in un altro contesto che i misteri non vengono sminuiti dal fatto di averli davanti a noi nel modo in cui la scienza spirituale può parlarne. Perché è proprio ciò che indaghiamo in materia di misteri che rende la vita meno superficiale ma piú profonda, sempre piú profonda. In fondo, quando esaminiamo qualcosa della nostra precedente vita terrena, non risolviamo l’enigma della vita in modo superficiale e non priviamo il mistero della vita del suo splendore, ma lo rendiamo ancora piú grande, ancora piú brillante. La ricerca spirituale non penetra nelle cose in modo tale da privare i segreti dell’esistenza del loro carattere meraviglioso, bensí in modo che l’ammirazione possa essere ulteriormente accresciuta dalla possibilità di indagare le cause delle cose.
Ecco perché si deve rispondere a un uomo che, come Maeterlinck, parla della morte e dice che non augura al suo peggior nemico di esplorare i suoi misteri, che il mistero non viene tolto dalla vita se si cerca di esplorarlo. Si può esprimere ciò che si vorrebbe dire a una persona che volesse preservare la vita in modo tale da volerla rendere “imperscrutabile”, con una parola banale, che però non è banale, ma ha un significato molto serio. Si potrebbe chiedergli: sei sicuro che a qualcuno nato cieco consiglieresti di mantenere il segreto su ciò che lo circonda, di non essere operato e di non far risplendere il mondo con il suo splendore nella sua interiorità? Obietteresti allora che non vorresti che persino il tuo peggior nemico venisse privato del mistero del mondo con un’operazione chirurgica? Chi volesse rispondere affermativamente a questa domanda che, quando viene operato, per il nato cieco il mondo perde il suo splendore, potrebbe rispondere affermativamente anche alla domanda che Maeterlinck esprime alla fine del suo libro cioè che il mondo perderebbe il suo splendore se si indagasse sul suo mistero.
La ricerca scientifica spirituale mostrerà come ciò non avvenga se si indagano i misteri del mondo. Ed è proprio indagando sulla morte che la nostra vita di sentimento arriverà a vedere che essa forma un legame necessario in tutta la vita, che non solo sono vere le parole di Goethe che la natura ha inventato la morte per avere molta vita, ma che per la vita umana la parola è giusta: la natura ha bisogno della morte per far nascere dal germe della vita sempre nuove e nuove meraviglie.
Rudolf Steiner (2a parte – Fine)
Conferenza tenuta a Berlino il 27 novembre 1913.
O.O. N° 63 – Traduzione di Angiola Lagarde.
Da uno stenoscritto non rivisto dall’Autore.