Powel, Diwana, Santarcangeli, Elenjimittam

Recensioni
La crisi nella coscienza

LA BATTAGLIA ENTRO LA MENTE

di Robert Powell

 

Powell

 

Per il fatto di essere separato dalla propria essenza, il pensiero moderno assume la forma della razionalità e della dialettica. La razionalità e la dialettica sono il veicolo della coscienza, la quale, quando non può raggiungere l’identità con la propria origine, riporta provvisoriamente la conferma della propria esistenza alla realtà esterna. Ma la razionalità e la dialettica possono ugualmente essere il veicolo del recupero dell’essenza della quale sono la negazione, purché siano riconosciute e provate nel loro funzionamento come pura forma dell’appa­renza. È in questo senso che Powell indica una soluzione dell’attuale crisi di coscienza.

 

La forma dell’apparenza con la quale l’uomo ha costantemente a che fare è il principio della sua esperienza sovrasensibile. È il principio in questione, che il ricercatore dovrebbe considerare cosí come si presenta, come pura forma. La separazione del razionale dallo spirituale è la conseguenza di una relazione necessaria e nuova tra lo spirituale e il sensibile. Questa relazione esiste indipendentemente dal pensiero. Il pensiero tende a muoversi in accordo con questa relazione senza comprenderlo. Ma questa mancata comprensione, favorita dal sistema discorsivo prevalente della conoscenza, dal materialismo e da uno spiritualismo che rifiuta il mondo moderno e conoscenza di esso, dà un contenuto materiale a un’azione puramente formale dello spirito. Dal punto di vista del libro di Powell, questa azione puramente formale è piú importante di qualsiasi presunto contenuto. È l’azione che sollecita la sperimentazione come puro dato, perché in essa si percepisce l’identità che lo spirito attua con il sensibile e, di conseguenza, si percepisce come il sensibile sia inizialmente conosciuto come oggettività.

 

Avvalendosi di una identità sconosciuta dello spirito con il sensibile, il pensiero, a causa della in­sufficiente coscienza della propria azione e della propria fonte, può giungere alla costruzione di un’ana­litica del sensibile che neghi lo spirito. L’impresa piú alta e piú innovativa del pensiero è prendere coscienza di quella relazione, o identità, che è la sua vera attività. Questo è stato appena ma chiaramente intuito da Hegel, anche se non raggiunto, ed egli lo riflette nella sua dialettica. Sarebbe stato piú importante se avesse posseduto l’esperienza metadialettica dell’idea, cosí da fornire un metodo per realizzarne la dynamis piuttosto che una fenomenologia o una logica. Privata di realtà in questa forma, l’azione non è stata piú compresa dai suoi discepoli, che non avevano il punto di riferimento originario, ovvero quello che costituiva la personale intuizione di Hegel. L’attuale crisi di coscienza indica la filiazione dialettica dell’“identità” che non è piú riconosciuta, e questo fa sorgere necessariamente la mistica del sensibile o del fatto economico come fulcro del divenire umano.

 

La dialettica è l’esatto riflesso astratto dell’azione del pensiero, dalla quale – quando c’è coerenza tra il pensiero e il suo riflesso e non deviazione perché il suo riflesso ha assunto il ruolo di pensiero – è possibile risalire all’istanza dell’identità originaria, anche se non all’identità stessa, cosa che richiede un’attività metadialettica interiore. In questo contesto la Via dello Zen, l’advaita vedantica, o la dottrina dialettica del “Vuoto”, sono precisi punti di riferimento, e Powell ne indica l’immediatezza.

 

È facile comprendere come la dialettica – essendo essa stessa una de-realizzazione della pura azione del pensiero, anche se secondo un suo esatto riflesso – renda già problematico il ritorno dalla dialettica al fondamento sovrasensibile. Ed è quindi anche facile comprendere come una tale possibilità possa scomparire del tutto quando la dialettica, assimilata meramente in maniera discorsiva, viene impiegata al di fuori del suo contesto originario. I filosofi che agiscono secondo una costituzione psicomentale che condiziona lo spirito possono avvalersi della dialettica per affermare di fatto la situazione con la quale si identificano. Possono anche giungere fino a negare la base extrasensibile e costituire una base fisica per il mentale, senza essere consapevoli di trattare questa base come un’entità metafisica.

 

Nella cultura che ha preceduto la fase “strutturalista” non esisteva ancora la relazione tra l’idea e il suo riflesso dialettico. Nelle nuove logiche non esiste piú. Quindi il riflesso dialettico dell’idea, scambiato per l’idea stessa, è considerato in relazione agli enti sensibili. Un’esperienza cosciente del pensiero può dimostrare che i pensieri sono ombre di entità sovrasensibili. Per le nuove logiche i pensieri sono ombre o riflessi di entità materiali. Il libro di Powell è una guida efficace che mostra come il pensiero possa riacquisire la sua controparte sovrasensibile e come la piú alta esperienza della coscienza possa essere raggiunta per mezzo dei poteri già presenti nella coscienza.

 

Massimo Scaligero

 


Robert Powell, Crisis in Consciousness. The Battle Within the Mind

London, James Clarke and Co., Ltd., 1967.

Recensione tratta da «East and West», Marzo-Giugno1969, Vol. 19, No. 1-2

Link all’articolo originale inglese: “Robert Powell and Mohan Singh Uberoi Diwana”


 

Le mie esperienze spirituali

di Mohan Singh Uberoi Diwana

 

My spiritual Experiences

 

Si potrebbe dire che il racconto di Mohan Singh è giustificato da una esperienza extrasensoriale basata sulla corrente esoterica delle Upaniṣad e sull’Adi Granth. L’Autore fa esplicito riferimento alla sua esperienza personale per ratificare i suggerimenti decisamente pratici che offre per la sādhana. Riesce cosí a dare nuova ispirazione ai con­tenuti di tale compito.

 

Mohan Singh è uno degli ultimi asceti dell’India che pure nel ven­tesimo secolo riescono ancora a garantire la percezione del mondo extrasensoriale sulla base dell’indagine diretta e della conquista personale di un grado di coscienza che va oltre il normale. Può parlare del rapporto tra purua e ātman, dell’esperienza dello Spirito oltre la morte, del significato di amta, della preparazione interiore al samādhi, e del valore dei mantra vedici come soggetti che gli sono familiari e della cui necessità per lo Spirito e la cultura può dare testimonianza diretta.

 

Questi temi della sādhana, che oggi corrono il rischio di essere ridotti a semplici nomi o soggetto di conversazione erudita, sono restituiti al loro significato concreto, che solo nella misura in cui corrisponde alla realtà può anche diventare significato filosofico o scientifico. Rispetto agli attuali assunti della filosofia e della filologia, il modo in cui sono trattati da Mohan Singh potrebbe mostrare alcuni aspetti ingenui e alogici, ma non si può dire se la forza della concretezza con cui parla non contenga una logica e un nucleo filologico molto piú potenti di quanto potrebbero sembrare in un contesto dialettico.

 

Ciò che è piú persuasivo è la profonda convinzione dell’Autore, il suo riferimento a un organo di certezza che ogni individuo porta potenzialmente dentro di sé. Il motto che ispira questo sostanzioso lavoro è: «L’uomo è spirituale? L’uomo è immortale?».

 

 

Massimo Scaligero

 


Mohan Singh Uberoi Diwana, My Spiritual Experiences – Chandigarh, 1964).

Recensione tratta da «East and West», Marzo-Giugno 1969, Vol. 19, No.1-2.


 

Il libro dei labirinti

STORIA DI UN MITO E DI UN SIMBOLO
di Paolo Santarcangeli

 

Il libro dei labirinti

 

L’Autore ha derivato l’idea dallo studio del simbolismo del labirinto, l’idea della sintesi. Questo significato ultimo del suo studio è supportato da contributi tratti da vari campi di indagine, storici, religiosi, antropologici, psicologici ecc. L’idea è l’intuizione di un senso originale dell’evoluzione attraverso l’involuzione, che faceva parte della consapevolezza del sovran­naturale nelle grandi civiltà protostoriche. Vale a dire, il male come agente del bene, la tenebra come strumento della luce, l’“ascensione” attraverso la “discesa”, l’evoluzione attraverso l’involuzione.

 

Il labirinto è la “via involuta”, il sentiero Maya, la via senza Logos, ma di conseguenza è la via che richiede che l’uomo che vi si avventura evochi il Logos. Altrimenti è perduto. La “prova” del labirinto adombra quindi l’avventura dell’uomo, il senso della sua presenza sulla terra. L’uomo entra nel labirinto alla nascita e ne esce alla morte. Ma il vero ideale dell’uomo è di emergere dal labirinto mentre è ancora vivo, e non di emergere in virtú della fine della sua vita fisica. Questo è il significato misteriosofico del labirinto. È il simbolo dell’Iniziazione.

 

Labirinto

 

Se l’aspirante Iniziato supera il labirinto mentre è ancora vivo, egli è un dvīja, un nato due volte. È un essere che è nato, che si sviluppa in determinate condizioni entro un involucro, che poi si stacca da questo rivestimento e continua a svilupparsi in nuove condizioni. Ciò che si è sviluppato entro l’involucro è già la premessa per la vita nella fase successiva di evoluzione. Le nuove condizioni ambientali non possono e non devono agire sull’essere in via di sviluppo, finché questo non abbia completato la sua evoluzione all’interno dell’involucro.

 

Doppia spirale

 

In questo sviluppo del bambino neonato e dell’Iniziato si nota la presenza di una duplice tendenza, involutiva ed evolutiva. Nel simbolismo ideografico indoariano, cosí come in quello eurasiatico e mediterraneo, questa doppia tendenza è rappresentata dalla spirale entro la spirale: il tracciato primordiale del labirinto.

 

È stata una fortunata intuizione da parte di Santarcangeli l’aver potuto sta­bilire che il labirinto non è soltanto un simbolo spaziale ma anche un simbolo temporale. Oserei dire, sulla base delle indagini dell’Autore, che è soprattutto un simbolo temporale. Le due direzioni che compongono la sua forma sono strutture del tempo. La palingenesi stessa è un’esperienza metafisica del tempo.

 

Nella Bhagavadgītā il supremo Iśvara è chiamato anche “Antico dei Giorni”, o “Spirito del Tempo”, in quanto è il sottile potere del tempo di cui il tempo terrestre è una proiezione inferiore. Per il fatto di essere racchiuso entro la prakriti inferiore. È lo stato di avidyā. La via d’uscita è la conoscenza o la visione, vidyā. La conquista del labirinto è rigenerazione interiore.

 

Il labirinto di Chartres

Il labirinto di Chartres

 

L’antico mondo minoico, o egizio-mediterraneo, non è il solo ad esprimere nel simbolismo del labirinto l’idea della conquista del­l’immortalità.

 

Secondo gli studi di Santarcangeli, essa si trova anche nelle cattedrali del Medioevo: «È solo l’oggetto storico dell’Iniziazione che cambia.

 

Nell’actus sacro troviamo il Cristo al posto di Teseo. Invece della regale e divina Arianna, c’è la Fede. E al posto del Minotauro, ovvero della natura animale che deve essere superata perché si possa tornare a rinascere alla luce, troviamo la Chiesa, che libera l’anima pellegrina dalle sue preoccupazioni e le impartisce il carisma del summum bonum».

 

E la storia del labirinto continua, non sotto forma di mito ma come una realtà-simbolo del moderno sistema di civiltà. La città moderna, una metropoli in stile babilonese, è un labirinto. Il sapere dia­lettico, la psicologia del profondo e il problema economico sono     tutti labirinti. Il soggetto è interamente moderno.

 

Santarcangeli tratta l’argomento con una libertà dalla dottrina che gli permette di fare un uso intuitivo della dottrina. Può seguire l’idea del labirinto nel suo essere metafisico, e il movimento di quell’essere è profondo quanto la realtà manifesta. Salire da questo all’idea è indubbiamente il modo piú efficace di penetrare il senso del reale.

 

In conclusione, Santarcangeli ha seguito il percorso del labirinto, lo ha realmente superato, e ne ha identificato l’idea.

 

 

Massimo Scaligero

 


Paolo Santarcangeli, II libro dei labirinti. Editore Vallecchi, Firenze 1967.

Recensione tratta da «East and West», Marzo-Giugno 1969, Vol. 19, No.1-2.

Link all’articolo originale inglese:  Paolo Santarcangeli and Anthony Elenjimittam”


 

St. Francis of Assisi. The Bhakti Yogin

di Anthony Elenjimittam

 

francis of assisi

 

Mettendo a fuoco l’elemento mistico della figura e dell’opera di san Francesco d’Assisi, l’Autore ne rileva il fervore e il calore appassionato, che assurge a un “sacro entusiasmo”, una modifi­cazione dei valori della vita umana e un’inversione di vedute, un calore appassionato che ha il potere di trasformare la stessa realtà fisica. L’elemento mistico confina con il magico, e la forza reli­giosa agisce con l’autorità di una forza della natura. Per tale ragione Elenjimittam vede in san Francesco un grande yogin, un autentico bhakta.

 

In effetti, quando le forze della devozione sono portate a un picco che diventa un livello normale, non possono che assimilare tutti gli elementi dinamici di una personalità e quelle correnti di energia subconscia che assumono la forma di desideri e istinti nell’uomo comune. Il grado di impersonalità delle forze della bhakti è pro­porzionale al loro potere teurgico e magico.

 

Pertanto, a un certo livello, vale a dire al picco già menzionato, esse non portano piú a una definizione formale, ed è una questione indifferente che appaiano come cristianesimo, come yoga o come buddismo. La disciplina interiore, la pratica mistica e la contemplazione sono mezzi che si fondono in un’unica esperienza che può agire sulla vita. E il libro di Elenjimittam cerca di far emergere le caratteristiche di questo tipo di sintesi.

 

 

Massimo Scaligero

 


A. Elenjimittam, St. Francis of Assisi. The Bhakti Yogin. Bandra, Bombay, Aquinas Publications, 1963.

Recensione tratta da «East and West», Marzo-Giugno 1969, Vol. 19, No.1-2.

Del libro esiste attualmente una edizione in italiano, dal titolo Francesco d’Assisi. Lo yogin dell’amore universale, di padre Anthony Elenjimittam, pubblicata nel 2018 a cura dell’Editore L’Età dell’Acquario.