In questo ciclo di conferenze si è dovuto naturalmente parlare piú volte della vita morale dell’uomo, dell’ordine morale del mondo, e oggi mi è consentito riassumere ancora una volta in particolare ciò che si deve dire dal punto di vista della Scienza dello Spirito sui fondamenti dell’ordine morale del mondo nella vita umana.
Schiller ha espresso in modo grandioso e semplice, partendo da un sentimento globale, cos’è il mondo, il carattere fondamentale della vita morale umana. Lo esprime con parole semplici:
Stai cercando ciò che è il piú alto,
il piú grande?
La pianta può insegnartelo.
Ciò che lei è senza volerlo,
tu lo sarai volendo.
Questo è tutto.
Le odierne controversie mostreranno forse che il carattere fondamentale della vita morale è davvero racchiuso in questo detto. Nella seconda metà di questo detto si nasconde però un enigma, un enigma significativo: «Ciò che la pianta è senza volerlo, tu lo sarai volendo. Questo è tutto». Ecco a cosa si riduce l’enigma: come, dove e con quali mezzi l’uomo potrebbe essere, volendo, ciò che la pianta è senza volerlo? Nell’enigma, che si cela in questa seconda parte del detto di Schiller, si deve anche cercare il punto nevralgico fondamentale di tutta la ricerca filosofica e scientifico-morale attraverso la storia dello sviluppo spirituale dell’umanità.
Ai nostri giorni, è difficile che un gran numero di pensatori, di personalità che si occupano delle questioni morali dell’umanità, riescano a penetrare davvero fino al punto da cui si può trarre l’innegabile fatto che esiste un obbligo morale da parte dell’uomo. Vedremo come gli obblighi etici, gli impulsi morali, illuminino la vita di un gran numero di personalità pensanti, senza che sia facile individuare, in base ai presupposti delle visioni del mondo caratteristiche dei giorni nostri, il luogo da cui questa luce di impulsi morali fluisce effettivamente nell’anima umana.
Allora, se riprendiamo il detto di Schiller, possiamo notare un fatto singolare, che giustamente illumina la vita morale e che diventa particolarmente chiaro agli occhi soprattutto quando si scende nel piú basso dei regni della natura: nel regno minerale. Supponiamo di dirigere lo sguardo su un oggetto del regno minerale, ad esempio su un cristallo di rocca. Si deve fare una premessa: non sempre si nota a sufficienza che la cosa essenziale è basata sull’intera situazione del cosmo: se questo cristallo di rocca, se questa forma naturale porta a compimento quelle che si devono riconoscere come le sue leggi intrinseche – usiamo questa espressione – allora esso rappresenta la sua stessa essenza. Se si riuscisse a indicare come la sua specifica forma cristallina debba emergere dalla particolare sostanza del cristallo di rocca, il noto prisma a sei facce, chiuso da entrambi i lati da piramidi a sei facce, allora, quando raggiunge tale forma cristallina, si può anche capire come questa legge, che deve essere riconosciuta, per cosí dire, in base alla sua essenza, si esprima nel mondo esterno. L’attuale scienza naturale arriverà certamente a tali risultati, le cui ipotesi sono già state proposte da singoli individui.
In un certo senso possiamo dire lo stesso degli esseri del regno vegetale, forse meno di quelli del regno animale. Ma anche se un po’ modificata, poiché tutto in natura è presente solo in certe gradazioni, la stessa legge si applica essenzialmente anche nel regno animale. Occorrerebbe dire molto per spiegare la particolarità di ciò che è implicito in tale legge. Questo potrà essere solo accennato in questa sede. Piú ci si immerge in tale contesto, piú ci si rende conto che qui si trova un punto del nostro ordine mondiale per il quale l’uomo – lo si nota proprio quando si guarda senza pregiudizi l’ordine mondiale – è radicalmente diverso dagli altri esseri della natura.
Supponiamo che si possano davvero conoscere tutte le leggi che sono insite nella forma umana, come ad esempio la forma cristallina è insita nel cristallo di rocca, e supponiamo che l’uomo possa esprimere questa somma di poteri plastici che è insita in lui. Ebbene, allora non esteriorizzerebbe il suo essere nello spazio allo stesso modo degli altri esseri della natura. Infatti, nel profondo dell’essere umano risiedono quelli che chiamiamo impulsi morali, la cui prima caratteristica è quella di suscitare una tendenza allo sviluppo interiore in modo tale che l’essere umano, a differenza degli altri esseri della natura, quando esprime i suoi poteri formativi naturali, non rappresenta il suo essere in modo compiuto. Bisogna ammettere che, in un primo momento, questo non esprime altro che un fatto piuttosto banale, ma un fatto che deve comunque venir considerato. Non è riconosciuto nemmeno dalle piú naturalistiche visioni del mondo, ma deve essere riconosciuto da una visione dell’esistenza non prevenuta. Bisogna riconoscere che dapprima l’uomo sente, direi, qualcosa che vuole insediarsi nel suo essere e che, quando entra nell’esistenza, gli dà l’impulso di non poter considerare il suo essere completo come fanno le altre creature della natura. Sí, si potrebbe proprio dire: per quanto l’uomo possa portare all’esistenza le sue forze-formatrici come quelle delle altre creature della natura, non potrà mai dichiarare il suo essere completo in rapporto agli impulsi morali.
Questo ha portato il grande filosofo Kant, per non parlare dei tempi piú antichi, a vedersi costretto a dividere la sua visione del mondo in due parti completamente separate: in una parte, che rappresenta tutto ciò che è riconoscibile del mondo esterno, in modo tale che, con tutte le sue forze formatrici, l’essere umano si collochi in questo quadro del mondo; e in un’altra parte, che si manifesta nell’esistenza umana solo all’inizio, per conservare il tono fondamentale dell’imperativo categorico «Agisci in modo che la massima delle tue azioni possa diventare il precetto per l’azione di tutti gli uomini». Ecco come potrebbe in effetti essere pronunciato l’imperativo categorico. Quest’altra parte della visione del mondo kantiana si colloca nella vita umana in modo tale da dare il tono fondamentale all’essere umano.
Ma in che modo Kant concepisce tutto questo? In modo tale che parla di un mondo completamente diverso per sua natura da quello che è racchiuso nell’immagine del mondo della conoscenza e della cognizione. E parla di un mondo completamente diverso, al punto che Kant si basa su questa parte, in cui parla dell’imperativo categorico, per tutto ciò che cerca di inserirvi in quanto dottrina dell’essere divino, della libertà umana, dell’immortalità dell’anima. Kant intende cosí espressamente che, se si vogliono percepire gli obblighi dell’essere umano, bisogna saper prestare orecchio a un mondo completamente diverso da quello della conoscenza umana ordinaria. L’imperativo categorico, questo comandamento assoluto inderogabile del dovere, è, per cosí dire, la porta d’accesso a un mondo che si eleva al di sopra del mondo dei sensi.
Cosí appare come un’evidenza che l’essere dell’uomo non è completo se si considera solo quello che è il suo potere di formazione, corrispondente a quello delle altre creature con le quali costituisce il cosmo fisico. Ai giorni nostri sta accadendo una cosa strana. Si direbbe che questo nostro tempo, improntato da un pensiero piú materialistico-meccanicistico e naturalistico, se si abbandona coerentemente ai suoi impulsi piú profondi, non può parlare di un mondo del genere, di cui anche Kant parlava ancora nel senso appena indicato. Certamente, poche persone nel nostro tempo sono coerenti con la loro visione del mondo. Non estendono all’intera visione del mondo tutti i sentimenti di base che derivano dai presupposti della loro visione del mondo. In particolare, coloro che oggi rendono omaggio a una visione del mondo di stampo naturalistico-materialistico – e che oggi si definiscono monisti – dovrebbero rifiutare completamente anche la possibilità di alzare lo sguardo verso il mondo in cui Kant, tramite il suo imperativo categorico, guarda come attraverso una porta. Ed è quello che fanno. E non penso solo a coloro che sono piú o meno legati alle scienze naturali, e per i quali è comprensibile, ma anche a molti di coloro che si definiscono “psicologi”, che fanno lo stesso. Numerosi pensatori psicologi sono attualmente incapaci di affrontare la domanda: da dove provengono i fondamenti morali della vita umana? Da dove proviene ciò che interviene nella vita umana come impulso morale, e che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri naturali?
Le persone arrivano allora a dire che la morale, l’etica, deve essere fondata sul fatto che l’individuo non segua quegli impulsi che sono palesemente diretti verso il proprio essere, la propria esistenza, ma che segua quegli impulsi che sono diretti verso la collettività. “Etica sociale” è diventata una espressione molto popolare ai giorni nostri. Poiché non si può guardare a un mondo superiore con i poteri di cui un tempo si credeva di disporre con la facoltà della conoscenza, si cerca in certe campi contigui, come vedremo tra poco, ma comunque privi di un vero fondamento, di fare presa su ciò che può ancora essere considerato “reale” come la totalità degli esseri umani o di qualsiasi gruppo umano. E si definisce morale ciò che è nel senso di questa totalità, in contrasto con ciò che la singola persona compie solo per se stessa.
Attualmente si possono trovare pensieri estremamente stimolanti che vogliono mantenere l’etica e la morale partendo da questo punto di vista di una mera etica sociale. Ma chi approfondisce queste cose – a prescindere dal fatto che si interroghi o meno sugli impulsi morali della vita umana individuale o su ciò che l’individuo deve fare in quanto membro della collettività – deve chiedersi quale sia il contenuto reale di ciò che deve essere fatto o, per meglio dire, da dove possa provenire tale contenuto, il “luogo”, in senso figurato, da cui gli impulsi morali possono procedere.
In questo senso, Schopenhauer ha davvero espresso una frase illuminante, che ho già citato piú volte in questa sede: «Predicare la morale è facile, giustificare la morale è difficile». Con questo intende dire che è difficile cercare nell’anima umana le forze e gli impulsi che fanno dell’uomo un essere morale in termini reali, mentre essi sono facilmente desumibili dal corso storico dell’umanità o da sistemi religiosi o di altro tipo e con i quali si può poi predicare la moralità. Ciò che conta per Schopenhauer non è se si possono pronunciare questi o quei principi morali, ma cosa c’è come forze alla base degli impulsi morali, analogamente a quanto le forze della natura fanno con i fenomeni naturali.
Ora, nel suo caratteristico modo unilaterale, Schopenhauer cerca tuttavia questi impulsi della natura umana nella pietà e nella compassione.
È stato giustamente detto: perché chi si sente moralmente legato a una causa che riguarda solo lui stesso e nessun altro dovrebbe, ad esempio, cercare di evitare una falsa testimonianza dettata solo dalla compassione? O come si dovrebbe impedire moralmente a qualcuno di mutilarsi per una questione di compassione? Si potrebbero citare molte cose del genere: con l’impulso che trova Schopenhauer si riscontra effettivamente qualcosa di estremamente completo, si incontra qualcosa che deve essere alla base della stragrande maggioranza delle azioni morali, ma che in questo senso non può assolutamente essere esaustivo.
In ogni caso, è istruttivo che le teorie, i punti di vista e le opinioni sull’origine della moralità siano tanto piú vane quanto piú una visione del mondo si orienta solo verso ciò che si può ottenere con i sensi e l’intelletto che è diretto verso il mondo dei sensi. Ci vorrebbe naturalmente troppo tempo se lo volessi mostrare in dettaglio, ma si potrebbe dimostrare che una tale visione del mondo, anche se arriva a stabilire, per esempio, la visione del mondo di qualche immagine della natura, è di fatto incapace di indicare il luogo di origine della morale. La vita morale ed etica rimane in fondo come sospesa per aria in ogni visione del mondo di questo tipo, rivolta solo al mondo dei sensi e all’intelletto, che associa i fatti del mondo dei sensi o li trasforma in leggi.
Quanto appena detto, solo a titolo introduttivo, dovrebbe portare a spiegare ciò che deve apparire fondamentalmente del tutto naturale dopo le lezioni precedenti: se, come in tutte le conferenze che ho tenuto, si presuppone che il nostro mondo dei sensi e il mondo dell’intelletto si basino su un mondo di esseri spirituali e di fatti spirituali, allora è naturale, dato che non si possono trovare gli impulsi dell’etica e della morale nel mondo dei sensi, cercare questi impulsi nel mondo spirituale. Perché i presupposti, i punti di vista e le opinioni di coloro che credono che qualcosa che parla alla natura umana provenga direttamente da un mondo sovrasensibile, sono forse fondati. Avviciniamoci quindi alla riflessione sulla vita morale con i presupposti che sono stati fatti in queste lezioni. Tuttavia, per gli uditori che hanno ascoltato solo alcune di queste conferenze, riassumerò molto brevemente come il ricercatore spirituale si elevi nel mondo spirituale, in quel mondo dove ora vogliamo cercare l’origine della base morale della vita umana.
È stato detto spesso in questa sede: se l’uomo vuole andare oltre il campo dell’esperienza sensoriale e oltre il campo che la scienza ordinaria può trovare, si tratta di non fermarsi ai poteri di conoscenza che l’uomo ha quando viene messo al mondo. Tutta la scienza, tutta la concezione che parla dei limiti della conoscenza, nel senso spesso discusso qui, ha ragione quando procede dalla premessa che l’uomo non può sviluppare altri poteri di conoscenza se non quelli che sono intrinsechi in lui, che sono naturalmente in lui dato che è inserito nel mondo senza il proprio intervento, vi si trova con le sue qualità. Ma nella ricerca spirituale è importante che tutto ciò che è già presente nell’essere umano venga sviluppato ulteriormente, che venga riconosciuto praticamente il presupposto che nell’essere umano ci sono poteri latenti che possono essere risvegliati. E qui abbiamo parlato spesso dei metodi che possono sviluppare questi poteri latenti. Abbiamo parlato di quella “chimica spirituale” che funziona esattamente con la stessa logica e lo stesso modo di pensare della scienza naturale, ma che si rivolge alla realtà spirituale e quindi è costretta a sviluppare i metodi naturali e il modo naturale di concepire in maniera del tutto diversa da quella della scienza naturale stessa. In questo senso, abbiamo spesso spiegato come la scienza spirituale debba essere ai nostri giorni una continuazione in senso proprio della scienza naturale. Posso però sottolineare ancora una volta, a titolo di chiarimento, ciò che dovrebbe essere solo accennato.
Ho detto una volta: se la si guarda solo in quanto tale, non si può vedere che l’acqua contiene dell’idrogeno, che il chimico separa grazie alla chimica. L’acqua spegne il fuoco e non è infiammabile; l’idrogeno è un gas, è infiammabile e può essere reso liquido. Come non si può vedere nell’acqua la natura dell’idrogeno, che si combina con l’ossigeno per formare l’acqua, cosí non si può vedere esteriormente nell’essere umano ciò che è legato al fisico come anima spirituale. E come non si deve temere di essere chiamati dualisti retrogradi se si riconosce che l’acqua, un elemento unico, è composta da idrogeno e ossigeno, cosí non si deve temere di non essere un vero “monista” se si dice che nell’uomo c’è un’anima spirituale, come l’idrogeno nell’acqua, e che questa anima spirituale è tanto diversa dall’uomo comune quanto l’idrogeno è diverso dall’acqua. La chimica spirituale, tuttavia, non consiste in procedure tumultuose, in qualcosa che si può realizzare all’esterno, come la chimica attuale, ma in ciò che segue, che tuttavia sarà descritto solo molto brevemente. Maggiori dettagli si possono trovare nel mio libro La scienza occulta nelle sue linee generali (O.O. N° 13), o nel libro L’Iniziazione. Come si consegue la conoscenza dei mondi superiori? (O.O. N° 10).
L’uomo è l’unico mezzo per accedere al mondo spirituale. Ma con esercizi speciali che deve intraprendere con la sua anima, deve portarsi al punto di poter attribuire un significato alle parole: “percepisco che vivo nella mia anima spirituale al di fuori del corpo fisico”, proprio come l’idrogeno che, se potesse sperimentare se stesso, dovrebbe dire: mi sento al di fuori dell’ossigeno. In modo che questo spirituale-emozionale si separi praticamente dal fisico-emozionale, e che l’uomo arrivi ad associare un significato alle parole: vivo nell’anima-spirito, ma il mio corpo-fisico è fuori di me, come il tavolo è fuori di me. Per questo sono necessari esercizi animici perseveranti, che durano piú o meno a lungo, e consistono essenzialmente in un aumento dell’attenzione, il che è già importante nella vita ordinaria; ma non l’attenzione a un contenuto animico determinato da cose esteriori, bensí a un contenuto dell’anima posto volontariamente al centro della vita interiore. Se poi l’uomo arriva a essere in grado di sollecitare tutte le sue forze animiche in questo modo e poi le concentra su un contenuto, che conosce esattamente in quanto l’ha inserito egli stesso, allora gradualmente, attraverso questa piú forte concentrazione delle forze spirituali, si concentra tutto ciò che dà all’uomo la capacità di sollevare la sua anima dal corpo fisico. Solo che, indipendentemente dalla pratica della cosiddetta concentrazione, bisogna anche aggiungere la pratica della meditazione. Questo è qualcosa che l’uomo conosce già nella vita ordinaria, ma nella scienza spirituale deve essere rinforzato all’infinito: si tratta di consacrarsi con devozione, la devozione al processo generale dell’universo.
Essere devoti all’essere generale del mondo come il singolo essere umano lo è nel sonno grazie al riposo delle sue membra, ma consapevolmente e non inconsapevolmente, questo è il secondo requisito della scienza spirituale. Il fatto che molte persone non sperimentino il giusto successo di questi esercizi è dovuto al fatto che rallentano l’esecuzione sistematica e persistente di questi esercizi. Per mezzo di questi esercizi, dando alle forze dell’anima una direzione diversa da quella che hanno nella vita di tutti i giorni, e sottoponendole a una pressione diversa da quella che hanno nell’esistenza di tutti i giorni, si raggiunge davvero quel meraviglioso istante in cui si sa: ora stai vivendo spiritualmente con la tua anima; ma mentre prima facevi uso del cervello e dei sensi, ora sai di essere uscito dal corpo, di esserne fuori, nello stesso modo in cui gli oggetti esterni erano prima fuori di te.
Nella cultura contemporanea il riconoscere che una cosa del genere è possibile, è ancora all’inizio. Trionferà tuttavia, come le verità di un Copernico, di un Keplero, di un Galileo hanno finora prevalso. Si sono confrontati esattamente con le stesse forze precedenti della conoscenza, solo leggermente modificate, che oggi si oppongono al riconoscimento dei mondi spirituali. Se allora gli oppositori erano persone che si basavano su antiche tradizioni religiose, oggi sono i cosiddetti “spiriti liberi” che si oppongono al riconoscimento della conoscenza scientifica spirituale. Ma il passo verso questo riconoscimento sarà fatto, dovrà essere fatto come al tempo di Copernico, Galileo e Giordano Bruno è stato fatto il passo per la scienza naturale. Non ho mai avuto l’abitudine di parlarvi con astrazioni e speculazioni, ma ho sempre cercato di esporre i fatti spirituali concreti ai quali l’essere umano arriva quando raggiunge gli stadi previsti della conoscenza spirituale. Infatti, l’uomo può effettivamente fare l’esperienza di distaccarsi dal fisico materiale e sperimentare se stesso nella sua anima spirituale, in modo tale da averne chiaramente la coscienza, che è diversa da ogni illusione e allucinazione: ci si sente fuori della propria testa e quando ci si immerge di nuovo in essa, è come se si ricominciasse a usare il proprio cervello come uno strumento esterno. Quando si presenta, questa esperienza è sconvolgente nelle sue fasi iniziali. Ma è raggiungibile nel modo indicato nel mio libro: Come si consegue la conoscenza dei mondi superiori? Si entra allora in un mondo di esperienze spirituali concrete, dove si è all’interno dei fatti spirituali tanto quanto lo si è con i sensi e la mente in un mondo di oggetti e fatti sensibili.
Si affronta questo mondo in tre fasi. Il primo gradino da superare è quello che mi sono permesso di chiamare il gradino del mondo immaginativo. Questo mondo immaginativo non è un mondo immaginario, ma un mondo in cui si sperimentano i fatti del mondo spirituale in una somma di immagini che esprimono realmente i processi del mondo spirituale, proprio come le percezioni dei sensi esprimono i fatti dello spazio. Bisogna farsi strada in questo mondo immaginativo, bisogna soprattutto farsi strada in modo tale da conoscere gradualmente tutte le fonti di errore, che sono molto numerose, in modo da imparare a distinguere tra ciò che inganna e illude e ciò che corrisponde a una reale esistenza spirituale di esseri o processi.
Si sale quindi a un secondo grado di conoscenza, che mi sono permesso di chiamare ispirazione. L’ispirazione nella percezione spirituale si differenzia dall’immaginazione solo perché in quest’ultima si ha, per cosí dire, solo la superficie esterna dei processi spirituali e delle entità che appaiono nelle immagini, mentre ora si deve sviluppare ciò che distingue radicalmente la percezione spirituale dalla percezione esterna: il fatto di immergersi nella percezione spirituale. È vero che non si affronta l’esistenza spirituale come si affronta quella dei sensi dove lui è là e io sono qui; ma nella conoscenza spirituale c’è qualcosa come una espansione al di là di ciò che si percepisce, un’immersione in ciò che si percepisce. Suona strano, ma è assolutamente vero: ci si espande nello spazio con il proprio essere in tutte le cose che si percepiscono nel mondo spirituale. Quando si sta in un punto dello spazio, racchiusi nella propria pelle tutto il resto è fuori, con il mondo spirituale tutto diventa mondo interiore, tutto quello che altrimenti si è abituati a chiamare mondo esteriore. Si vive e si tesse in esso e ci si lascia assorbire da lui, nella misura in cui si è in grado di penetrarlo.
E poi c’è un altro grado superiore di conoscenza, di cui non è necessario parlare qui oggi: è l’intuizione, intesa nel giusto senso, non quella che spesso viene chiamata cosí in maniera abituale. Con l’immaginazione, l’ispirazione e l’intuizione ci si fa strada nel mondo spirituale. Questa domanda deve ora impegnarci: quando si lascia il corpo e le esperienze ordinarie dell’esistenza, che differenza c’è tra ciò che si chiama conoscenza, che viene dall’esterno, che si è abituati a ricevere dall’esterno, e ciò che si affronta come i propri impulsi morali, come le proprie idee e concezioni morali? Siamo allora forse in grado di parlare di una fonte di vita morale, se possiamo indicarla nel mondo che si raggiunge solo quando si abbandona il mondo dei sensi ordinari e si entra con la propria coscienza in un mondo spirituale?
Consideriamo innanzitutto il mondo che pone intorno a noi un universo di immagini spirituali. Espongo semplicemente i fatti cosí come si presentano all’osservazione spirituale. Per quanto riguarda tutto ciò che si acquisisce attraverso la percezione dei sensi, basato sulla percezione dei sensi, e per quanto riguarda tutto ciò che si acquisisce in relazione a quanto si trova nella vita esterna, si scopre che nel momento in cui si lascia questo mondo, una sorta di oscurità si diffonde su questo stesso mondo ed emerge un nuovo mondo di esseri e fatti spirituali, nel quale si è anche durante il sonno, ma in qualità di ricercatore spirituale ci si immerge in questo mondo di processi ed entità spirituali in uno stato cosciente. Ci si immerge in essi, ci si accorge che ciò che si guarda come colori, ciò che si sente come suoni nel mondo dei sensi scompare; ciò che si può portare con sé nel mondo spirituale è solo un ricordo, qualcosa che si può al massimo immaginare. Quando questo scompare, ci si trova in un tale stato in cui, per cosí dire, l’attività del pensare, dell’immaginare, anche l’attività del sentire e dell’intuire, viene afferrata da altri esseri nei quali ci si immerge. Perché questo è l’essenziale: nel mondo spirituale si è immersi in un mondo di entità. Non appena ci si immerge nel mondo spirituale, si trovano fatti ed entità concrete; ciò che si osserva nel mondo dei sensi appare realmente in modo tale che si vive in verità all’interno del mondo sovrasensibile, invisibile, spirituale, ma quando siamo racchiusi nel corpo, questo mondo sovrasensibile proietta la sua immagine speculare verso di noi attraverso la sua attività. Infatti, diventa un fatto concreto che tutto il mondo esterno che si vede intorno a sé è un’immagine speculare del mondo spirituale, quel mondo spirituale di cui ho spiegato che produce prima i processi cerebrali che producono l’apparato speculare attraverso il quale si percepiscono i processi esterni, apparato che di per sé non può essere percepito.
Come l’uomo non percepisce se stesso quando si guarda in uno specchio, ma vede solo l’immagine riflessa, cosí, quando è immerso nel mondo fisico, vede l’immagine riflessa del mondo spirituale sull’apparato speculare che gli procurano i processi del suo corpo. Si nota allora che il mondo fisico della percezione si comporta nei confronti del mondo spirituale nello stesso modo in cui l’immagine speculare si comporta nei confronti dell’osservatore allo specchio. È proprio cosí: come l’immagine allo specchio ha un significato per l’osservatore solo quando si guarda allo specchio e porta l’immagine nella sua anima, cosí l’immagine allo specchio del mondo spirituale, l’intero mondo fisico della percezione che abbiamo intorno a noi, ha un significato come “immagine” a prescindere dal processo fisico che sta dietro di essa. Se ne diventa coscienti quando si entra nel mondo spirituale.
Non si tratta di una visione teleologica della natura. Non voglio dire che il mondo è organizzato da un intelletto infinito in modo tale che l’uomo può trovare la possibilità di formare il suo Io, ma voglio semplicemente sottolineare il punto che è considerato un dato di fatto: l’uomo può continuare a portare nella sua anima ciò che prende nel suo Io quando lo ha visto nel mondo esterno. Per ciò che chiamiamo giudizi cognitivi, è evidente, che l’intero mondo della conoscenza è costruito attraverso un processo di riflessione e questo sostanzialmente scompare in quanto tale, quando ci si immerge nel mondo spirituale, dove ci si trova subito in un mondo di processi e di esseri spirituali, di cui si conosce l’appartenenza e da cui si estrae ciò che nel mondo fisico è solo un’immagine speculare.
Nel momento in cui si lascia, per cosí dire, il mondo dei sensi e si ascende al mondo spirituale, la cosa essenziale è che si impari a dirsi: a ciò che sei tu stesso, che non ci sarebbe senza di te e a cui tu stesso appartieni, si è aggiunto il riflesso, che è avvenuto solo perché sei un organismo umano. E questo riflesso ha un significato per il tuo Io, per il tuo ego e per ciò che porti con te come anima spirituale attraverso il corso del tempo. Perciò, appena ci ritroviamo nel mondo spirituale, siamo in un mondo che c’è senza di noi e si impara a capire: questo mondo deve specchiarsi per permetterci di percepirlo. Ma non è l’essere stesso che arriva al rispecchiamento.
Rudolf Steiner (1a parte – continua)
Conferenza tenuta a Berlino il 12 febbraio 1914. O.O. N° 63.
Traduzione di Angiola Lagarde.
Da uno stenoscritto non rivisto dall’Autore.