In un primo momento avevo dato a questo articolo un titolo diverso, precisamente: “Per meglio abitare la Terra di Mezzo”. Poi, come succede quasi sempre quando si riflette sui pensieri con rinnovata obiettività, ho preferito la soluzione in epigrafe.
Non che cosí il tema cambi di molto; mi pare piú affine a quello che vorrei raccontare con una certa precisione, anche se l’argomento è davvero vasto e abbraccia molti campi. Il problema principale quindi, per evitare un facile smarrimento del filo logico, è reperire volta per volta le connessioni logico-rappresentative che permettano di passare da un contenuto all’altro in buona armonia e senza strappi.
L’antica saggezza sostiene d’essere uno dei fondamentali scopi della vita il fatto che siamo tutti venuti al mondo per provare; e allora ci provo anch’io (non vedo alternative; ossia, per vederle, le vedo, ma non sono entusiasmanti).
Il riferimento alla Terra di Mezzo non è un richiamo casuale. la fervida immaginazione di Tolkien ha creato storie fantastiche, incredibilmente belle, nelle quali, per vasti tratti, possiamo riconoscere molte delle nostre situazioni di uomini, di famiglie e di popoli implicati in vicende reali. Rivediamo e riviviamo, nelle avventure della Compagnia dell’Anello, degli aspetti che ci sono familiari: gli eroismi, i sacrifici, le tragedie e le malvagità, la fedeltà all’impegno assunto, la dedizione umana alla sacralità, le infinite capacità del Bene che fronteggiano ininterrottamente l’avversità del Male, e la disperazione impietosa di quest’ultimo, al punto di volgersi perfino contro di sé, pur di non accettare una modifica radicale. L’unica che potrebbe redimerlo.
Sono storie che fa piacere sentire; insegnano a chi non conosce l’uso del coraggio e delle armi a mantenersi modesto e prudente, e a quanti credono d’averlo e di saperle maneggiare, l’accortezza di usarli esclusivamente quando servono e non un minuto di piú; il che significa difendersi e non aggredire.
In tutti i territori di questo mondo vi sono le zone del Settentrione, quelle del Meridione poi quelle d’Oriente e quelle d’Occidente. Se al posto dei punti cardinali, mettiamo sopra e sotto, il Bene e il Male e indichiamo gli estremi orizzontali, come Bello e Brutto, dobbiamo ammettere che nel mezzo ci troviamo noi, che non siamo né buoni né cattivi, né belli né brutti; siamo un fritto misto, in cui tutto è amalgamato fino ad essere difficilmente riconoscibile da quanto era in partenza quale elemento originario.
Sostenuti dall’invisibile alito del divenire, apriamo le ali dell’anima e ci libriamo in un volo che potrebbe portarci sulle somme vette delle verità luminose, come farci piombare nell’infima angusta profondità della perversione subumana. Può succedere di tutto; ed è stato proprio questo a convincermi di abitare la Terra di Mezzo, assieme ad alcuni miliardi di altri individui, tutte persone rispettabili, piú o meno quanto me (Todos Caballeros, ammettendo che la metafora funzioni ancora); la cui interiorità tuttavia è caratterizzata dal fatto di essere, e permanere, nella fase evolutiva che la scienza definisce “stadio embrionale”, e che mia madre, da brava e schietta casalinga, chiamava “né carne né pesce”.
Ora, per un adulto attempatello scoprire di essere né carne né pesce non è una cosa eccessivamente edificante. Ci si può consolare tuttavia pensando ai vegetali: la terra produce delle piante e dei fiori bellissimi, che riempiono il cuore di immagini gradevoli e sensazioni profumate. Per contro, ovviamente, ci stanno pure le erbacce, alcune invasive, altre velenose, ma fanno tutte parte di un progetto unico, nel quale ci troviamo coinvolti, e che tutto sommato, non siamo disposti ad abbandonare, nonostante le contrapposte correnti di Nord-Sud e di Est-Ovest.
Starsene nel mezzo della Terra di Mezzo è un problema, anche se all’inizio può sembrare il contrario. È come stare nel centro di un crocicchio dove le auto passano e s’incrociano a forte andatura. Pericolosissimo. Ce se ne accorge tardivamente, quando il lato divertente scompare e sorge il difficile, il preoccupante; quando non vuoi soltanto stare ma anche abitare questa Terra di Mezzo, che nel frattempo è diventata la tua terra. Tra lo stare e l’abitare passa una grossa differenza; per stare in un posto non devo prendere delle decisioni drastiche e non devo sovraccaricarmi di responsabilità. Se le cose si complicano, si mettono male, faccio fagotto e me ne vado altrove.
Ma se invece ti salta il ticchio di abitare, se senti quella terra come la terra dei tuoi padri, se accogli gli altri in benevolenza come compaesani o concittadini, se avverti almeno di tanto in tanto la particolare fragranza della capanna che ti ha accolto, e in cui ora vive la tua prole, vorrà pure dire qualcosa. Soprattutto vorrà dire che ti ci sei legato col vincolo degli affetti e della memoria, col senso della dignità e la forza della solidarietà con i propri simili. Con tutti quelli che il destino ti ha messo in condizione di amare.
E prima ancora che tu riesca a comporre tutti questi bei tiranti in un quadro esplicativo, potresti pure ritrovarti di colpo in un’uniforme ruvida e scomoda; magari a quel punto qualcuno ti mette in mano un fucile, e ti avverte: «Guarda! Il nemico è alle porte. Ora va’ e difendi la tua patria!».
In questo caso non serve molto obiettare: «Scusi, ma non eravamo d’accordo ad incrementare il turismo degli stranieri? Non s’era detto che l’arrivo di lavoratori esteri ci faceva comodo per coprire quei lavori che non ci piacciono? Tutto sommato, prima di respingere e di sparare, vorrei capire».
A pensare cosí, non sei piú patriota; vieni subito bandito dalla Terra di Mezzo; la quale, avendo un equilibrio molto instabile, dovuto proprio alla natura ultrasensibile dei suoi abitatori, eternamente sospesi tra un “vorrei ma non posso” e un “potrei ma non voglio”, verresti scambiato per un Q.C. (una Quinta Colonna), al servizio delle forze negative o prezzolato da quelle troppo positive.
Chiarisco il concetto: nella Terra di Mezzo è d’uso ritenere (secondo me ingiustificatamente) che pure le Forze del Bene, siano ostili all’uomo; non ci amano come affermano le dottrine e le tradizioni popolari, ci propongono sempre compiti eccessivamente gravosi, complicatissimi e soprattutto poco comprensibili. Uno che ti vuol bene sul serio, non ti mette in difficoltà, non ti crea disagi, non ti combina guai; tanto meno (o tanto piú) se è una Entità Superiore, una di quelle che prima si pregano e poi, a richiesta evasa, si compensano con gli ex voto. Il che verificandosi raramente, avviene che alcuni petenti, particolarmente scottati, se la prendano male, se la leghino al dito, e preferiscano rivolgersi alla parte contraria, quella nemica del Bene, in cerca di un miglior accoglimento. Succede (chi, all’oscuro del Karma, tenta qualche stratagemma per eludere il corso degli eventi, ma finisce come quel tale che si era messo in testa di far deragliare un treno, appostandosi accanto al binario per sgambettarlo al passaggio).
La Terra di Mezzo offre dunque un tal numero di spunti che sarebbe davvero pedestre elencarli; anche se farlo meriterebbe un encomio. Del resto, mi pare che lo stiamo già facendo, magari senza rendercene conto, da un po’ di tempo; grazie alla geografia, alla geologia, alla storia, alla politica e a tutti quegli studi che hanno per oggetto la vita planetaria, siamo venuti a sapere parecchie cose sulla natura di questo mondo e ne abbiamo approfittato in lungo e in largo. Eppure, cosa strana, non siamo mai riusciti a intuire che Madre Terra ne sa molto piú di noi; e non soltanto su se stessa, ma sull’intero universo. La nostra brama d’impadronirci del mondo ha confinato il processo conoscitivo in una dimensione che è puramente teoretica, priva di sperimentazione pratica, oppure (per passare dalle stelle alle stalle) si è trasformata in una folle gara tra competitor per lo sfruttamento delle risorse e il saccheggio del patrimonio ecologico-ambientale.
Questo al giorno d’oggi non deve meravigliare troppo; quanti hanno concesso alle gag della pubblicità il coinvolgimento sacrilego in spot televisivi, di riferimenti alla Storia Sacra, sono oramai capaci di tutto, anche di segare il ramo dalla parte su cui stanno appollaiati.
Lo sforzo conoscitivo è un impegno assiduo che eseguiamo con una tale alacrità che neppure per un momento ci chiediamo se questo umano lavorío, svolto indefessamente nel mondo (mari, aria e sottosuolo compresi) sia sempre effettuato in modo giusto e corretto, non solo dal punto di vista utilitaristico, ma anche se nell’operato dei sedicenti beneficiari, che siamo sempre noi, esista il dovuto rispetto per l’ambiente e la gratitudine per quanto fin qui ricevuto da una natura che abbiamo con disinvolta frequenza subordinato alle nostre incontenibili, fameliche esigenze.
Rispondere a questa implicita domanda, non è oggi di alcuna utilità; la risposta l’abbiamo ogni giorno sotto gli occhi, e solo coloro che siano aggravati da forti disturbi dell’apparato visivo, possono dubitare. Esistono certamente anche altri organi sensori in grado di fornire dati interessanti in merito, ma, si sa, nella capacità di percezione, la vista si è presa il ruolo principale, al punto che per far capire le cose al cervello, bisogna che prima gli occhi gli trasmettano le dovute inquadrature, possibilmente in HD. «Vedo, dunque capisco» direbbe un aggiornatissimo René Descartes.
Tant’è vero che da questo rapporto assiomatico e apodittico è nata la Tele-Visione, la quale, se le cose proseguiranno di tale passo, ben presto diventerà il Testo Unico d’Ogni Cultura.
Riprendo il filo: quindi i punti cardinali, tanto per avere una prima quadratura prospettica; poi le cuspidi Etico-Estetiche, per avere dei riferimenti morali; a questo punto però, introdotto una volta il concetto di crocicchio, possiamo vedere piú da vicino la configurazione, nella quale ci troviamo inscritti dalla nascita in poi e con la quale molto abbiamo a che fare, fintanto che da quei riferimenti saremo capaci di estrarre delle indicazioni.
In fondo scoprirsi di essere un po’ “vitruviani” era già nell’aria; basti pensare ai detti tradizionali che attraverso semplici metafore, svelano una situazione di umana sofferenza, o anche insofferenza, se vogliamo dirla per esteso: «Mi hanno messo di mezzo e ora non so piú come cavarmela!».
La sindrome del crocicchio può addirittura rasentare l’analogismo religioso: «Ecco, hanno voluto mettermi in croce perché sono troppo buono!». Detto cosí, sul momento sembra una esagerazione, ma posso assicurare che mio zio Vincenzo, in certi periodi della sua vita, lo ripeteva spesso, mentre eravamo a tavola; noi bambini (io con i miei cuginetti di campagna) ci scambiavamo occhiatine furtive, sapendo che avremo spifferato tutto al parroco durante le lezioni di catechismo, raggranellando molti santini (che ci interessavano poco) e parecchie caramelle (ogni delazione ha il suo prezzo) da spartire equamente, dopo assolto l’ufficio di pregare sull’assoluzione per conto terzi.
Senza dover scomodare i “fondamentali” (ho appreso questo termine da alcuni Ministri di Economia e Finanza del recente passato; non ho mai capito esattamente cosa intendessero dire, ma nei loro discorsi suonavano bene e facevano un effetto rassicurante), quindi senza star lí a scomodare questi “fondamentali”, mi pare che l’uomo, ogni uomo intendo, si trova inscritto in un ambito psicosomatico, ben delimitato e individuabile mediante molti parametri: per esempio: io-ego-anima-corpo; interiorità-esteriorità-volizione-abulía; pensiero-azione-percezione-sentimento; sensazione-immagine/mentale-astrazione-fantasticheria; correnti-centripete-correnti-centrifughe-correnti-nervose-ed-extranervose; idee-ideali-concetti- intuizioni; e via dicendo. Sempre “crocicchi” sono.
Molto piú semplicemente, a grandi linee riassumiamo; dato un pensare legato prevalentemente all’esperienza materialistica, si può: a) esserne consapevoli; b) non esserlo e adoperarlo ogni giorno cosí com’è, senza indagare su perché e percome, convinti che non esista altro pensare disponibile.
È questa la partizione primaria che intasa e irretisce l’anima umana, non appena viene a trovarsi in quelle condizioni di “terrestrità” che aveva voluto e accettato nel Mondo Spirituale, ma che adesso, per le regole cosmiche della “caduta”, non è piú in grado di ricordare.
«Il fumo offusca la luce del fuoco, il cielo si nasconde dietro alle nuvole, lo sporco di superficie intorbida la trasparenza dell’acqua: come può l’anima dell’uomo non confondersi davanti a tutto questo?». Una perla dell’antica saggezza d’Oriente che ci piacerebbe molto poter contestare, dal momento che lo sport di maggior tendenza nel moderno Occidente è la contestazione sempre e ovunque. Ma ci sono dei limiti, e quando avvertiamo espressa in sintesi una verità inconfutabile, è meglio star zitti in attesa di momenti piú favorevoli.
Si fa un gran parlare del nervosismo, degli psichismi, delle fobie e di nuove forme maniacali che insorgono dalla platea dell’umano in questi tempi. Essendo esse in gran parte latenti, rappresentano un’insidia micidiale per tutti, molto piú di guerre, carestie e pandemie, le quali, rispetto alle prime sono soltanto uno strascico consequenziale. Una delle ragioni (personalmente, considerando gli ultimi anni, la ritengo determinante) è per l’appunto il “panico del crocicchio”, ovvero la paura incontrollabile di venire di continuo compresso e schiacciato dagli eventi e dalle situazioni, interiori ed esteriori, che riempiono la dimensione del quotidiano.
Per cui, come accade nell’animale ferito, l’istinto di sopravvivenza induce, senza un attimo di ripensamento (in effetto, l’animale non ne sarebbe capace) a contrattaccare qualunque forma di vita biologica gli appaia sul cammino.
La situazione generale cosí compromessa esce quindi dai limiti dell’umano; si abbassa, diventa avversione totale contro tutto e contro tutti; per cui qualunque politica governativa agevolerà la detenzione e l’impiego di armi da fuoco anche per i privati. Se non oggi ma forse domani, verrà accolta come un provvedimento saggio e di pubblica utilità.
Tra buon senso e follia ci sono molti step, non facili a percorrere, ma chi ce la fa (e in questo siamo oramai abbastanza esperti) arriva al punto di essere un folle, convinto di avere il massimo del buon senso, o, viceversa, un “buonsensista” il quale viene ripudiato dalla società emergente perché ritenuto un folle, per giunta eversivo e sobillatore. La Via crucis pur molto antica, è un test attuale.
La strategia della tensione – che rappresenta la conseguenza immediata del marasma equivocale – non è cosa nuova; venne applicata in molte epoche storiche; ma allora proveniva per lo piú dall’esterno, nel senso che c’era sempre un potere, un ideologismo, una corrente che in qualche modo agitava sui popoli lo spauracchio di un pericolo incombente e terribile.
Oggi gli spauracchi invece si acquistano online in appositi kit, te li recapitano a domicilio, li montiamo da soli, li rendiamo ogni giorno piú invasivi e prepotenti; mentre, di contro, noi diventiamo sempre piú paranoici e ossessivi.
Lo straripante potere delle Telecomunicazioni, l’abuso dei cellulari, degli apparecchi informatici, l’ossequio servile alla demenzía pubblicitaria, l’accettazione supina di mostre, fiere e festival vaganti in un turbine di materialismo policromo e sussiegoso, tale da rendere iniqui anche i cosí detti “circoli virtuosi”, hanno reso possibile una destabilizzazione dell’interiorità umana senza precedenti.
Tutto questo perché? Per un motivo semplicissimo: trovarsi nel centro di un qualche cosa di ignoto, di enorme, d’incomprensibile, come potrebbe sembrare l’universo, come potrebbero sembrare le sconfinate praterie dell’anima, come potrebbe pure sembrare la ricerca d’uno scopo della vita, mai conosciuta a fondo, è una situazione non sopportabile a lungo da una natura umana che, giocando su un presupposto senso di libertà, si sia posta nella condizione di escludere il Divino.
Nella perversa credenza di aver estromesso lo Spirito dalla propria esistenza fisico-sensibile, o avendolo tutt’al piú ridotto ad un opportunistico fideismo da usarsi in caso di necessità e urgenza, se non degradandolo a livello di sperimentazione parascientifica empiamente percorsa, l’uomo perde se stesso; non sta piú nel centro di sé; si sente sbalestrato, travolto, annichilito; crede unicamente nei poteri che il mondo della materia e della fisicità gli hanno fin qui suggerito; null’altro sembra interessargli, che non siano scorribande confuse di pensieri astratti, utili soltanto ad avvilire vieppiú il livello della degradazione avviato.
Per cui è logico (secondo una logica di tipo orizzontale capace di reggersi e almanaccare perfettamente, partendo però da presupposti non verificati in quanto decretati come “inverificabili”) giungere al punto di considerare la vita come un fardello estremamente pesante, da alleggerire con tutti gli espedienti che un’interiorità sconvolta e turbata sia in grado d’immaginare.
La rappresentazione di una Terra di Mezzo, costipata di Maghi Bianchi e Maghi Neri, gnomi, elfi, draghi, orchi e mostri vari, sarà piacevole fintanto che la si guarda mangiando popcorn. Viverla ora per ora, giorno dopo giorno, è tutt’altra cosa.
Ammettendo che una tale “sopportazione” non abbia travalicato i suoi argini, sia ancora contenuta in una sorta d’insofferenza animico-esistenziale non del tutto completata; e non abbia quindi compromesso gli organi della fisicità che da quella dipendono
URGE
un ravvedimento radicale in grado di dare alla percezione stessa del quadro descritto, fin qui afflittiva e perversa, una svolta decisiva tale da ribaltarla di 180° sul proprio asse, facendoci scoprire cosí che:
► ci siamo ingannati, ci siamo lasciati ingannare; siamo stati turlupinati, presi per fondelli, rigirati come calzini usati da rammendare; storditi da persuasori occulti, da influencer prezzolati e da sciamani propagandisti; abbiamo pure entusiasticamente collaborato a che tutto ciò avvenisse;
► siamo arrivati di conseguenza al fatidico culmine di una crisi totale, una crisi senza scampo, dalla quale o si guarisce mediante uno straordinario, energico scrollone della volontà, oppure ci si accoccola, come nel salto con gli sci, sulla linea di start dello scivolo, in attesa che l’ultimo “Via !” ci precipiti con un calcio nel di dietro, nella caduta finale verso il basso.
In quale modo recuperare la possibilità di uno “straordinario, energico” scrollone del proprio volere? I modi sono infiniti; basta pensarli e poi credere in quello che si è pensato. Del resto non esistono ricette universali; gli stessi vaccini che intendevano contrastare o mitigare la pandemia, non erano la cura dell’infezione. E adesso dobbiamo affrontare la cura della cura. Ma – afferma Gandalf in chiusura della trilogia tolkeiana: «Le Forze del Male sono state respinte; e il potere dei Tre Anelli per adesso è vinto. Ora viene il tempo degli Uomini».
La peggior cosa che potrebbero fare gli uomini in casi simili è credere di averla spuntata una volta per tutte. È strano, perché non serve molta esperienza di vita per accorgersi del male che costantemente, come l’Araba Fenice, rispunta sotto nuove forme: si vede che la speranza di non doverlo piú combattere promuove l’illusione di averlo liquidato in via definitiva.
È la Sua ultima tentazione; spesso diventa motivo di un incauto festeggiare, cosí come fu per i Troiani entrare in possesso del Cavallo, venefico souvenir degli Achei.
Tutte le anime tendono a confondersi, e quelle indebolite dalla corruzione per prime. Per mia personale esperienza in simile frangente, voglio aggiungere che una affermazione del tipo “tutto è oramai perduto” è la menzogna piú malvagia che possa pervadere la mente e il cuore degli esseri umani. Ed è anche la piú difficile da sfatare, per il fatto che chi la sostiene ha già deciso di arrendersi. In questi casi è del tutto inutile avvertirlo che non esiste alcuna “fine” da nessuna parte, né sulla terra né altrove, e che il nostro proposito di combattenti volontari continuerà comunque in forme e modi diversi. Con il nostro volere; senza il nostro volere; contro il nostro volere.
Il rimedio piú efficace per ridestare le coscienze moderne paralizzate nell’incantesimo del materialismo, non può certo essere quello di mettersi a discutere se l’umano sia responsabile o meno dell’ostacolo evolutivo subíto. La discussione si protrarrebbe all’infinito e finirebbe con i soliti due schieramenti, uno in cui l’uomo risulta vittima innocente di mostruosi esseri infernali, e l’altra che lo vedrebbe sí, compartecipe del male ricevuto, ma assolvibile, in quanto contro quel tipo di forze avverse non c’è nulla da fare e la sconfitta era preventivabile dall’inizio.
Sono entrambe due evidenti menzogne, che sempre piú traspaiono da tutti gli accordi e dai trattati tra i Paesi di questo mondo, anche se sul tavolo non c’è l’evoluzione delle anime ma la cosí detta pace senza confini, il benessere sociale e lo sviluppo del lavoro.
Proprio per questo, tutte le soluzioni escogitate (ed escogitabili) non funzioneranno mai. Se l’anima è ammalata nella conoscenza di sé, e il pensiero viene asservito al suo intimo disagio, quel che ne salta fuori sarà sempre e solo un risultato ammarcito dell’affezione in corso.
Esiste pure un’ulteriore constatazione che induce al disfattismo (parlo sempre della situazione in cui viene a trovarsi l’anima del volontario che, dapprima, aderisce alla missione con ardore ed entusiasmo, ma poi, una volta incarnata e terrestrizzata a dovere, perde la consapevolezza del proprio slancio e declina paurosamente verso la pavidità, la ristrettezza e la conseguente vigliaccheria nata dal fatto di non saper dare una spiegazione convincente per continuare nell’impresa).
A quanti interessa questo specifico argomento, consiglio la lettura, o la rilettura, del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Nella storia del giovane ufficiale, Giovanni Drogo, comandato a una Fortezza isolata del Nord, l’Autore ha posto magistralmente molti elementi dell’egopatía; la missione; l’avamposto solingo, davanti al quale si spalanca l’infinito deserto della solitudine interiore, insidiosa quanto inavvertita; la minaccia continua e sempre meno realistica dell’esistenza di un nemico (i Tartari) che non arriva mai; la disciplina militare assurda portata all’estremo virtuosismo da caserma; le brevi licenze e i rientri nella vita ambigua della borghesia del tempo; la carriera militare, le promozioni; infine l’alto comando conseguito.
Per tutta la vita Giovanni Drogo ha obbedito e adempiuto con decoro agli ordini superiori, senza se e senza ma, anche quando non li capiva. I suoi anni sono trascorsi cosí, in quella Fortezza fuori dal mondo, dove tutto girava secondo la necessitante cadenza della routine soldatesca; gli alzabandiera dell’alba, gli appelli, le esercitazioni, le esplorazioni, i rientri; la mensa ufficiali, le cerimonie rituali di protocollo, e il compiaciuto silenzioso accordo di tutti i presenti, ufficiali e soldati semplici, compresi, quasi insuperbiti, nel ruolo di sacrificandi di lusso per la madrepatria; vigili, agguerriti, sempre in attenta difesa dei confini del Nord. Di quei confini davanti ai quali, per decenni e decenni, il deserto restava squallidamente deserto e mai era provenuta anima viva.
Drogo ora è stanco, di una stanchezza infinita; la spasmodica attesa di un qualche cosa, di un evento per cui valesse davvero la pena di battersi, stava esaurendosi col finire della sua carriera e della sua maturità; senza un colpo sparato, senza un duello ingaggiato, senza aver mai comandato una carica di cavalleria né gridato un ordine di “fuoco” agli artiglieri. Sarebbe stato sostituito fra poco da un comandante piú giovane, piú forte, piú competitivo. Ma competitivo di che? Se nella sua lunga tenenza nulla era accaduto e oggi ancora nulla minacciava ragionevolmente di accadere?
E invece accade. A volte, dietro di quello che siamo soliti chiamare uno scherzo del destino, si nasconde una beffa karmica; se tuttavia si riesce a guardarla senza pregiudizi, la “beffa” scompare e al suo posto appare il “compito da eseguire”; quello di sempre. Il compito che ci fu assegnato dall’Io; per l’intera vita terrena l’abbiamo rincorso, provocato, atteso e supplicato, senza riscontro alcuno; al punto che il pensiero d’esserci forse sbagliati, che non c’è nessun compito da assolvere, e tutto quel che accade è solo un insieme sconnesso di eventualità, che si urtano l’una con l’altra, come un’accozzaglia di biglie impazzite, prende forma, consiste nella mente e dilaga persino come possibilità ideologica.
Giovanni Drogo, vecchio, ammalato, verrà portato in qualche città lontana dal fronte nord; finirà dimenticato da tutti in un lettuccio d’ospedale, anonimo tra tanti altri; ma con la terribile consapevolezza che – proprio in quel momento – nella sua Fortezza, i suoi uomini stanno combattendo sugli spalti per fermare l’assalto dei Tartari che, a orde, a valanghe, vengono eruttati dal deserto.
La sua ultima possibilità di morire in battaglia gli viene negata; al suo posto, una fine misera e ridicola, molto poco epica, tra iniezioni, calmanti, flebo, gemiti e bende.
In lui non riesce a farsi largo l’idea che le cellule cancerogene che gli stanno divorando il fegato, sono molto, molto simili ai barbari che stanno assalendo la Fortezza e trucidando i suoi uomini. E che – di conseguenza – l’ultima battaglia, quella vera, non è mai il “beau geste”, vagheggiato a lungo nelle veglie e nei riposi di chi si crede un guerriero, solo perché impugna un’arma.
L’ultima battaglia, quella decisiva, quella determinante, arriva sempre a coglierci nella totale solitudine, senza nessuno accanto, del tutto inermi; abbandonati a noi stessi e quindi contro noi stessi, dal momento che non abbiamo mai saputo stare veramente con chi è da sempre in noi, dentro di noi; lo abbiamo ignorato, forse perché troppo scontato, troppo modesto, addirittura umile; non eravamo in grado di cogliere, dentro quella umiltà, la luce, la gloria e la potenza dello Spirito; abbiamo preferito rincorrere sogni di gesta fumose, rendere monumentale la nostra miope arroganza e subire puntualmente, nelle infinite forme della delusione, l’amarezza mortale di un’esistenza che, vissuta nell’incontentabilità dell’ego, ci è apparsa vana, sprecata, priva di senso.
Buzzati/Drogo – dobbiamo chiamarlo cosí, ora scoperta l’intima piaga, mai rimarginata, dell’Autore – è arrivato sino al punto fatidico di “raccontare” la fine di un ego, in cui, forse a sua insaputa, aleggia l’anticipazione di una rinascita, di una redenzione, quindi di una grande vittoria su se stessi. Una vittoria che non verrà celebrata nei fasti, nelle ricordanze, nei testi della storia del mondo.
Buzzati/Drogo la fiuta, la sente, l’avverte, ma non ha strumenti interiori per accendere i riflettori sulla verità. Troppo complicato, troppo impercepibile; perciò niente fronde di quercia e spade, niente medaglie al valore, niente onori solenni e pompa magna. Neanche postumi. Succede cosí che si muore pure in un ospedale sconosciuto, col paravento attorno al letto di ferro, per celare alla vista dei curiosi le sofferenze terminali, per non turbare eccessivamente l’ipersensibilità diffusa, abbastanza umana e pur cosí distante da ogni forma di umanità spiritualmente intesa.
L’ultima battaglia del Volontario dello Spirito, non consiste, come abbiamo erroneamente pensato (e ci hanno fatto dialetticamente credere) nell’acquisire la fama dell’Eroe che vince la Morte. Sono sicuro che consista piuttosto nel presentarsi serenamente, a testa alta, al cospetto di Lei, dicendoLe: «Benvenuta, cara Amica. Eccomi qui; sono tutto tuo. Ho commesso molti errori, ma so che Tu mi darai la possibilità di rimediarli tutti».
Questo atteggiamento, sorto da un’intima armonia tra volontà, sentimento e spassionata obiettività, non ha bisogno di particolari teatri di guerra, o infuocati campi di battaglia. È libero dalla necessità di venir rappresentato; libero perfino dall’esser classificato tra gli “atti eroici”. Può venir assunto anche sotto un cavalcavia, in un vagone di una linea ferroviaria in disuso, o in un ospizio per non abbienti.
Quando un’anima sa esprimersi, non dà spettacolo, non chiede applausi.
Non provo desiderio di proseguire nell’argomento; quel che ho scritto, forse l’ho esposto bene, forse no, ma è tutto quello che avevo da dire. Nascere come uomini comporta una serie di impegni assunti ben prima dell’inizio del ciclo biologico; riportarli alla luce dell’intelletto e del sentimento implica uno sforzo enorme, uno sforzo che dovrà porsi con fermezza contro tutte le morse e le tenaglie della condizione psicofisico-sensibile dominante la Terra, e tendente a invadere l’anima di chi ha deciso di venire ad abitarla.
Il problema non sta nel “Si può fare o non si può fare?”. Dal momento che siamo qui, in qualità di esseri spirituali auto-precipitatisi nella full immersion della materia, la domanda è pleonastica. Ci si deve chiedere invece quale sia la via ottimale per realizzare quel programma speciale che un Volontario, riconosciutosi tale, sa di voler attuare.
Da alcuni mesi, per motivazioni personali, mi confronto con la Preghiera di Devozione lasciataci da Rudolf Steiner; di questa ricopio di seguito soltanto l’incipit e lo pongo a conclusione di questo scritto. Mi pare che basti e avanzi per dare un senso preciso e luminoso a tutto quello che sono riuscito a dire e a tutto quello che non sono ancora riuscito a tradurre in una corretta versione comunicativa: «Ciò che verrà, ciò che anche la prossima ora, il prossimo giorno, mi potranno portare incontro, per quanto del tutto sconosciuto, non lo posso cambiare con le mie paure e i miei timori; io lo attendo nel piú profondo silenzio dell’anima, nella piú assoluta calma del sentire» (da L’intima natura della preghiera, Berlino, 17 febbraio 1910 – O.O. N° 59).
Chi conosce questa Preghiera, sa già cosa fare. Chi la legge per la prima volta potrà cercarla nella sua stesura originaria, accoglierla nell’anima, renderla nuova forza interiore, ritmo, cadenza, armonia; per meglio abitare questa nostra Terra di Mezzo, e poter cosí andare incontro agli appuntamenti che il Futuro dell’Umanità ci riserva e che saranno sempre piú impegnativi.
Angelo Lombroni