Disse la Quercia al Mandorlo: «Parlami di Dio: e il Mandorlo fiorí».
È il pensiero, davvero splendido, di Nikos Kazantzakis (poeta, scrittore, filosofo e drammaturgo cretese, noto anche per il suo libro L’Ultima Tentazione Di Cristo).
Mi piace ricordarlo e conservarlo qui come filo conduttore del presente articolo.
Oggi però, di fronte all’incalzare di quanto sta accadendo nel mondo, e accusate le debite sollecitazioni, non posso trattenermi da aggiornare l’aforisma succitato. La mia non vuol essere una parafrasi, e tanto meno una manipolazione; lascio integra la sintesi creata dal suo autore, che, tra l’altro, è insuperabile. Desidero solo adeguare le premesse dalle quali quel contenuto sorse, alla luce (o meglio, alla foschia) delle vicende correnti.
Disse la Quercia al Mandorlo: «Parlami di quello che vuoi: e il Mandorlo fiorí comunque».
Dedicato alle querce e ai mandorli di questa particolare epoca.
Ogni cosa misurabile deve avere una dimensione: lunghezza, altezza, peso, volume, intensità, o qualche altra particolarità specifica come lo sono la magnitudo o le distanze dell’astronomia. Per cui siamo indotti a credere che ogni misurabilità debba avere un suo peso, una sua consistenza e viceversa. Ma ne siamo sicuri?
Per essere esatti e rendercene conto dobbiamo allargare il concetto di peso a tutti quei casi che richiamano la condizione specifica. Quando diciamo: «Oggi è stata una giornata pesante», o: «Quel discorso ha avuto un suo peso», o: «Sono a digiuno eppure ho un peso sullo stomaco», o ancora: «È necessario pesare bene certe parole prima di dirle» di solito non intendiamo nulla che possa venir misurato nel classico senso della parola. Sono frasi enfatiche in cui il concetto di peso viene adoperato per meglio rendere l’idea, il che non è proibito dalle leggi (per lo meno non ancora), ma certamente si pone al di fuori dell’uso appropriato del termine.
Pesabilità e misurabilità non sono quindi in correlazione biunivoca. Non sempre. Ed è giusto cosí, dal momento che il concetto di misura ci deriva dall’esperienza immediata del mondo della materia, mentre il concetto di peso, pur acquisito sulla base delle leggi fisiche del medesimo mondo, ha richiesto un lavorío particolare di pensiero dal quale poi, sono derivate le varie forme di misurazione relative al concetto di peso.
Come potremmo indicare verbalmente un bosco se il nostro pensiero non avesse – molto, molto tempo fa – raggiunto una sintesi che è poi sfociata nella parola “bosco”? Dovremo ripetere all’infinito tutte le componenti del bosco; e cioè albero, ramo, foglia, erba, cespuglio, zolla, stecco e via dicendo.
Ma pure per ciascuno di questi elementi è dovuta prima scaturire una sintesi che abbia associato nella nostra attività psichica l’oggetto esterno percepito, dapprima ad un pensiero, e poi ad un suono particolare e preciso, che dal quel momento in poi si è codificato per ogni essere umano inserito in quel determinato contesto linguistico, come rappresentativo di una realtà definita.
Quando due cose non omogenee convergono e si innescano producendo una somma, è lecito indicare tale composto come miscuglio o misticanza. Ma l’incontro della percezione col pensiero non può venir definito in un modo cosí plebeo, da avvilire l’aspetto eclatante dell’avvenimento. Intanto esso è contemporaneamente esteriore ed interiore; e già questo è un qualcosa che dovrebbe avere una sua rilevanza. Inoltre come processo elaborativo si svolge tra il mondo della materia sensibile e quello metafisico, al quale il pensiero appartiene.
Se tutto ciò non bastasse a risvegliare l’attenzione sopita della coscienza, si deve anche aggiungere che l’incontro di percezione e pensiero non segue la consequenzialità di causa ed effetto, tipica della produzione degli effetti nel fisico-sensibile; l’elemento percepito non dà causa al sorgere del pensiero: lo suscita, lo provoca, lo stimola, di modo che il pensiero che si produce non è mai un effetto, e va quindi rilevato come un’integrazione indispensabile, la sola capace di restituire al percepito il suo diritto di esistere e di essere collocato nel mondo.
Detto cosí sembrerebbe un arzigogolo, eppure la riflessione è logicamente nitida: la prima parte del libro di Rudolf Steiner La Filosofia della Libertà tratta magistralmente di questo fondamentale aspetto del conoscere, e chiunque l’abbia letta, studiata e meditata a dovere, non nutrirà – secondo me – alcun dubbio in merito. Eppure dal comportamento medio degli uomini attualmente presenti su questa terra, non si direbbe affatto che una tale verità si sia diffusa e abbia in qualche modo attecchito; l’idea che la libertà dell’uomo possa sorgere dal riconoscimento di un incontro tra la Luce e il Fuoco, ovvero tra lo Spirito e la materia, tra il mondo della Sopra Natura e quello delle percezioni, tra l’Io Superiore e quel centro di prepotenza che vorrebbe dominare tutto, chiamato “ego” (incontro che può esclusivamente avvenire nella profonda intimità di un’anima cha abbia saputo e voluto formarsi ponendosi al centro del problema, senza lasciarsi incantare o distrarre da tutti i flutti del contesto esistenziale in cui naviga) non viene considerata né attraente né affascinante – e fin qui, pazienza! – ma nemmeno importante, nemmeno essenziale, per essere poi in grado di sviluppare tutte le forze interiori sopite e latenti che potrebbero svelare i segreti sulle origini delle nostre entità peregrine e del cosmo stesso.
Preferiamo di gran lunga perseguire vie “materialistiche”, usare strumentazioni iperboliche, costruire attrezzature alimentate da tutti gli scarti del materiale planetario, rimbambendo e progressivamente rimbarbarendo in fatto di cultura, sensibilità interiore, gusto ed educazione, per contro perdendo sempre piú la giusta autostima e l’amorevole disponibilità verso il prossimo senza la quale ogni forma di coesistenza è irreale e fittizia.
Qui dunque i pesi e le misure divergono, non sono piú in sintonia sulla stessa scala; vorremmo conoscere, vorremmo sapere, vorremmo un po’ tutto, ma invece la brama di “avere” riduce la nostra spinta in avanti in una evoluzione che gira a rovescio, dove ogni cosa, acquisita nella convinzione che possa divenire un bene (di consumo) per tutti, si rivela invece un’arma a doppio taglio, che colpisce duramente anche colui che l’ha ideata e manovrata.
Vogliamo soluzioni che siano definitive ai cento, mille problemi che affliggono l’umanità intera; non ci accorgiamo che i poveri rimedi che i nostri arsenali e laboratori sono stati fin qui in grado di escogitare e proporci, rappresentano soltanto improvvidi, rudimentali tamponi, che nel tempo ci presenteranno da pagare un conto piú salato dei precedenti.
Agli storiografi non sfugge che i conflitti (tutti i conflitti passati e in corso) sono sempre il risultato dell’incoerenza con la quale gli uomini, sfiniti da guerre, disagi e lutti, hanno concordato la pace o l’armistizio, e decretare la fine delle ostilità. L’intero gioco planetario delle diplomazie è stato un semplice paravento, a volte elegante, dietro il quale continuavano a ribollire l’odio e l’avversione, la sete di vendetta, e quella riserva mentale che fa sorridere, chinare il capo e dire momentaneamente di sí, quanto in pectore si sta perfezionando il modo migliore per pugnalare l’avversario, magari cogliendolo alle spalle.
Questa non è una mentalità scorretta o barbina, che possa venir rimediata da una presa di coscienza rapida e decisiva: è una malattia, anzi, una perversione dell’anima che sta oltrepassando il suo punto di non ritorno.
Per stigmatizzare una situazione in cui la mano destra compie movimenti nascosti alla sinistra, si usa la frase fatta “ Due pesi, due misure”; ma come si può facilmente constatare, ora il numero dei pesi e quello delle misure, è cresciuto a… dismisura.
Prendiamo un elemento probativo a caso; ce ne sono tantissimi e vien da dire che veramente abbiamo l’imbarazzo della scelta. Ma – lo faccio di proposito – prendiamo un elemento piccolo, quasi invisibile, riguardante i giorni che stiamo vivendo; sí che la carica di attualità vada in qualche modo a compensare l’apparente scarsa consistenza del fatto (scarsa nel senso di essere giornalisticamente poco appetibile).
Tra il finire del mese di Aprile e l’inizio di Maggio, ci sono state due festività civili che hanno consentito al pubblico dei vacanzieri, la fruibilità di un “ponte” abbastanza lungo per essere considerato come ghiotto e irrinunciabile. Le anime di questa epoca sono sempre affamate di qualcosa; soffrono quando il lavoro manca, ma poi quando il lavoro c’è, non vedono l’ora di boicottarlo e andarsene a zonzo su spiagge e montagne allestite per spassi, divertimenti e tavole imbandite come fossero dei Luna Park fatti a proposito per sfogare scolaresche irrequiete tenute a freno per troppo tempo.
Nell’affrontare questa specie d’avventura, i “postlavoristi” sono disposti a tutto: estenuanti viaggi su autostrada con i veicoli a passo d’uomo; disagi nei grill e sistemazioni di fortuna in alberghi o resort o B&B a prezzi d’assalto e trattamenti capestro. Senza contare le insidie e i disagi derivanti dal percorso e dagli attacchi di nevrastenia inevitabili quando il sistema nervoso viene spremuto a lungo. Ma passati i giorni della festa e ritornati alla vita quotidiana, ci si mette in paziente, direi ossequiosa attesa, del “ponte” successivo per far nuovamente del male a se stessi, ai famigliari ed eventualmente pure al cane per chi ce l’ha. Sempre con la motivazione, evidentemente vincente, d’aver diritto a quel relax e svago innocente, cosí sapientemente orchestrato dalle pubblicità.
Il controsenso è evidente. Semidistrutti dalla febbre del consumismo, tentiamo di sfuggire alle sue tenaci maglie. Come? Rituffandoci in un nuovo consumismo appositamente creato da quanti si autoconsumano nel tentare d’indurre i consumatori ad ulteriori consumi.
Parlare di controsensi al giorno d’oggi è un’impresa ardua, non perché i controsensi non esistano, ma perché ce ne siamo talmente abituati che non ci appaiono piú come controsensi.
Quelle alte cariche dello Stato, e la corte delle diplomazie internazionali che indicono una conferenza per ricostruire un paese, il quale continua a venir distrutto da un conflitto (da quelle stesse potenze definito “non risolvibile”) sono forse in possesso di informazioni (o decisioni) cosí ben secretate da poter procedere ad una modifica del gioco, portandolo dal Risiko al Monopoli?
Basta attendere: come accade spesso in casi simili, in un prossimo avvenire, molti controsensi del passato saranno liquidati con l’imprimatur del presente. Ma inevitabilmente il numero di coloro che intanto sono stati lesi, hanno subíto torti e si sono sentiti defraudati nella loro “buona fede” (chiamiamola cosí, anche se sarebbe tutta da verificare) aumenterà in misura spropositata, e pure qui farà valere il suo peso.
Per risultato abbiamo già fin d’ora una forma aggravata di scontentezza esistenziale che tende alla paranoia, all’automatismo, e induce alle credenze piú ingannevoli ed esecrande, prese per accorgimenti e previsioni ben fondate e irrinunciabili. Quando il potere centrale è al suo declino, gli aruspici, gli indovini e i maghetti delle “tre carte”, escono allo scoperto, perché è quello il clima in cui maggiormente prosperano.
Qualunque momento storico può diventare tuttavia quello buono, se in qualche testa pensante, magari in quelle che non schifano del tutto la riflessione approfondita, si formasse una domanda del tipo: “Ma che ci guadagno a pesare e a misurare la realtà del mondo, se non riesco a pesare e misurare il pensiero con cui penso il mondo?”.
Il che ci porta di filato ad un sillogismo, dal quale diventa impossibile districarsi, a meno che non s’incominci a cambiare registro, e rivoltare contro di sé le domande e le richieste fin qui riversate all’esterno dell’immediato àmbito psicofisico. Se coi miei pensieri costruisco ed affermo la realtà di un mondo che poi mi risulta non comprensibile, allora o butto via quella realtà del mondo, oppure devo rivedere i pensieri dai quali sono partito.
Esiste un pensiero che abbia il potere immediato e disincantato della visione obiettiva e spassionata della realtà in cui ci troviamo? Un pensiero che possa venir creato prima di mettersi a berciare contro qualcuno o contro qualcosa che non ci piace, che ci irrita, che ferisce i nostri sentimenti, prima di scendere nelle pubbliche vie con striscioni, tamburi e volantini per ostentare urbi et orbi la nostra indignazione? (che tra l’altro, quando viene espressa a livello farneticante, non ha piú le attenuanti dell’indignazione, ma assomiglia piuttosto ad un attacco di follia ossessiva tesa a rendere piú drammatico il caos giornaliero).
Secondo me, un tale pensiero esiste, sí! Eccome! Basterebbe pensare: “Ho veramente diritto a indignarmi? E soprattutto quale è la parte di me che patisce questa situazione? La mia coscienza? La mia anima? La mia parte piú nobile ed evoluta? O forse si tratta di quella parte di me stesso che morde e rugge da sempre di fronte a tutto ciò che non le garantisce immediata soddisfazione? Perché, se cosí fosse, che ci vado io a fare con quelli che ribaltano le automobili e incendiano i cassonetti?”.
Naturalmente, torno a ripetermi, l’esempio è debole; comincia semmai ad avere un suo senso se lo si accosta a quei casi, purtroppo frequenti in molte città e paesi, nei quali si provvede a creare una rotatoria, o a semaforizzare un incrocio, dopo che su quel tratto di strada si è verificato un numero rilevante di incidenti.
Il riferimento però è chiaro: stiamo toccando il problema per cui le coscienze hanno ancora bisogno di cuocere a lungo nel loro brodo e quindi devono impiegare troppo tempo per giungere ad una soluzione, per quanto momentanea e parziale.
Se si esamina con obiettività e con un interesse privo di faziosità il genere umano e la situazione in cui è venuto a vivere, vedremo che tutti i casi esaminati ed esaminabili (politica, socialità, contese, economia, scontri armati e/o ideologici, distanze confessionali, etniche, culturali, nonché di scelte personali ecc.) ci rimandano a questo problema, che non si è mai voluto risolvere e, anzi, dalla soluzione del quale, ci stiamo tuttora allontanando. Pur di non lavorarci sopra con impegno e dedizione altruistica, è meglio contestare; e si arriva perfino al punto di degradazione da contestare i contestatori, considerando tra essi anche quelli che si astengono dal contestare.
Tra la ricerca di una verità e la sua comprensione, si crea cosí un vuoto, uno scollamento spazio-temporale che non viene colmato da forze umane, ma riempito sollecitamente da fatti e situazioni predisposti da chi vuol mantenere l’umano sotto il proprio giogo.
Eppure qualcuno di noi ha imparato che il segreto del pensiero è il segreto dell’anima, e che, a sua volta, l’anima è il segreto del mondo; di questo mondo in cui abbiamo racchiuso tutte le nostre realtà soggettive, parziali e temporanee, scambiate per un universo, per una verità esterna, infinita, assoluta e perciò inconoscibile. Per essere viva e vera in chi la sperimenta, la detta correlazione non abbisogna di pesi e misure; viene valutata come un segreto dai tanti che si sentono costretti, dalla condizione di acquiescenza al mondo fisico-sensibile, a pesare e a misurare, onde coordinarsi al meglio nelle regole del gioco cui hanno accettato di partecipare da inconsapevoli pedine.
Nulla vieta che, forse anche d’improvviso (ma non lo è mai, in quanto può verificarsi soltanto dopo una preparazione interiore tanto lunga quanto sentimentalmente inaspettata) si possa un giorno intuire che è proprio questo nostro vivere da anime incarnate nella fisicità, la chiave del segreto. Di tutti i segreti. Dei quali la varietà dei pesi e delle misure sono soltanto le tracce convergenti, le manifestazioni per cosí dire, di una rivelazione da poter umanamente accostare.
I pesi e le misure si possono adesso paragonare alle querce e ai mandorli di Kanztzakis. Ovvero rimandano a quella origine da cui sono scaturiti.
Da questo punto in avanti, tutto ciò che vado a scrivere trova il suo fondamento nel libro di Massimo Scaligero Trattato del Pensiero Vivente, cap. XX e XXI, dal quale ho attinto secondo quel senso di rispetto e di libera interpretazione che ogni vero Maestro sa suscitare nelle anime di chi l’ascolta.
Vi è una forza dalla quale nasce ogni nostro pensiero, qualunque pensiero sia, anche se nessuno di essi può rappresentare tale forza nella sua totalità. Per cui nessuna verità può venir racchiusa in un unico pensato, ma soltanto in quel pensiero nel quale essa vive, e dal quale provengono tutti i realismi e gli indottrinamenti. Ovviamente questo non è piú l’ordinario pensiero.
La verità sta per l’appunto in questa forza che ogni pensiero, anche il meno accorto, in parte contiene; non sta nelle dottrine di cui si avvale per manifestarsi sul piano della dialettica. Cosí succede che nessun accostamento al vero sia mai la fonte del vero, ma solo l’atto conoscitivo che in tale forma trova espressione. Non è quel tipo di conoscenza che si promuove per sapere, ma quello dal quale ogni sapere dipende. Un sapere che voglia essere vero consiste in un pensare che riconosca se stesso nella funzione primaria ed essenziale: una conoscenza voluta, o una volontà conoscitiva.
Un pensiero, anche se non determinante nella versione argomentativa, è sempre una determinazione; non certo per via del suo contenuto, che potrebbe anche essere astruso e paradossale, bensí per l’origine da cui è mosso, l’origine che lo permea, lo sostanzia, lo conforma, lo fa essere quel determinato pensiero e non altro. In questo offrirsi del pensiero e della sua forza generatrice, le applicazioni possono venire ravvisate come strade della vita spirituale; dal mosaico smembrato delle percezioni al ritrovamento del disegno primario perduto. o pensiero originario del mondo, giunto al momento della sua manifestazione individuale.
È il Principio che concentra il suo potere nell’umano per divenire alba conoscitiva, coscienza di sé, abbattimento di ogni vincolo materialistico e pertanto libertà.
Ciò che del pensare ogni volta si è in grado di rendere determinato e realizzato, esige che tale atto doni la propria potenza; nell’immanenza, sia ritrovato come potenza del volere il Logos.
Il senso che si nasconde nell’agire, nel dibattersi, nel patire delle esistenze umane, è tutto qui: saper ritrovare la potenza di quell’atto che ogni volta si compie, pensando, nel volere capace di pensare la Luce, davanti alla quale si dissolvono le tenebre della psiche umana.
Quando pensiamo, siamo sempre sul punto di dar vita al nostro pensiero, ma nello stesso momento questo suo vivere si blocca, si immobilizza, per diventare forma di un apparire. Un tale fatto può ovviamente venir riportato alla Luce in senso meditativo da una preparazione consapevole; accolto e amato in questo suo nascere, e continuando a farlo per decisione propria, per scelta autonoma, e per quel rispetto verso se stessi di cui l’ego non ha mai voluto sapere, il pensiero può tradursi anche negli aspetti consequenziali e succedanei del suono articolato e della forma compiuta. Ma questo accade raramente.
Anche cosí questo pensiero, quand’anche il suo percorso si svolga nella direzione indicata, non è ancora il pensiero al quale l’anima dell’uomo confusamente aspira per potersi sentire alla fine totalmente completa. Può restare per ora vivente nei momenti in cui non si sa che lo sia, e nemmeno può attingere a quel suo stato originario continuando a subire il solo senso della perdita, trascurando il fatto d’averlo avuto.
La sua funzione è volersi diversa da ciò che inizialmente fu ed attualmente è: chiusa in una alienazione sconosciuta. il cui fine può aprirsi solo all’eventualità di un futuro recupero.
Recupero che tuttavia non può compiersi fintanto che i pesi e le misure rifletteranno una tale divergenza e, conseguentemente, pure i dialoghi scambiati tra le querce e i mandorli, potranno avere pochi uomini capaci d’udirli.
Questo nostro mondo, ma altrettanto dicasi la nostra vita, ci appaiono come realtà concreta e ineluttabile; e lo sono, grazie al pensiero con il quale li pensiamo e che, pure in mezzo alle crisi e alle angosce, non ha bisogno di un altro pensiero per inverarsi.
Necessita invece di un ritorno dell’anima al suo stato di purezza originario per venir percepito con la medesima concretezza con la quale vengono percepiti gli oggetti.
La difficoltà di addivenire ad una conoscenza completa del mondo è che la percezione delle cose di cui è composto è – per questo stadio dell’evoluzione umana – di gran lunga piú potente ed incisiva di quanto non lo sia la percezione del pensiero mediante il quale le pensiamo.
Ove per studio e applicazione si giungesse ad una logica capace di superare il livello del pensiero pensante, sul quale per ora ci si è arenati, la possibilità di un ulteriore passo in avanti è subordinata ad un accordo che soltanto il Mondo Spirituale può concedere all’uomo; sempre che questi si sia reso conto di presentarsi all’incontro con tale momento, in uno stato di trasparenza animica, deciso, voluto, liberamente perseguito.
Stato che è quello dell’anima davanti al pensiero che sorge, ma che subito dopo, muore in lei per diventare forma, sensazione, oggetto, tanto della sua vita interiore quanto del suo esistere per l’esteriorità.
Una cosa è l’inverarsi del suo potere come forza di vita, un’altra è quella del suo contenuto che, per legge del mondo fisico deve presentarsi ai sensi umani, secondo i pesi e le misure relativi allo spazio e al tempo; onde nascono percezioni e rappresentazioni, le quali mostrano solo le parti che l’umana coscienza è in grado di afferrare nei momenti e nei modi in cui si sente chiamata all’atto cognitivo.
Angelo Lombroni