La risonanza emotiva

Pedagogia

La risonanza emotiva

Educazione scolastica alle emozioni

 

Oggi si crede che i bambini debbano venir educati alle emo­zioni; nelle scuole primarie sono di moda i “progetti sulle emo­zioni”. Progetti in cui uno psicologo entra in classe e parla della rabbia, della gioia, della felicità. Questi progetti nasco­no per ostacolare l’analfabetismo emozionale di cui si parla oggigiorno (l’analfabetismo emozionale o alessitimia – è una condizione di ridotta consapevolezza emotiva con relativa incapacità di riconoscere e descrivere gli stati emotivi propri e altrui).

 

Secondo lo studio del sistema sensorio umano di Rudolf Steiner potremmo scorgere nel senso del tatto quella qualità germinale da cui ha origine la risonanza emotiva.

 

Sappiamo che le nuove generazioni appaiono generalmente sprovviste di tale risonanza. Gli psicologi azzardano motivazioni – piú o meno plausibili – ma la genesi di tale risonanza sembra essere pressoché sconosciuta.

 

 

La scuola di ieri e quella di oggi: sul processo imitativo

 

Gli ultimi grandi filosofi e pedagogisti italiani ritenevano che i bambini dovessero sí ricevere una edu­cazione del sentire, ma che tale educazione dovesse fluire dall’educatore al bambino attraverso un processo imitativo.

 

«L’interiorità del maestro nel suo contenuto oggettivo, diviene interiorità degli scolari. Tale il fenomeno primordiale del processo educativo, che Gentile chiama “unificazione spirituale dell’educatore e del­l’educando” e che può attuarsi tanto piú, quanto piú l’interiorità del maestro sia profonda, ricca, uni­versale, e perciò amabile nei doni di cui è feconda. Ove il maestro unifichi un momento della sua vita spirituale con un momento della vita spirituale dell’alunno, che è opera di amore, cioè di chiara, penetrante intelligenza, il processo del suo Spirito sarà il processo dello Spirito dell’alunno, quella forma di spi­ritualità che si realizza nel processo dello spirito dell’altro» (Giancarlo Roggero, Anima dell’Uomo, Vol. IV – Estrella de Oriente).

 

Nella pedagogia Waldorf viene chiarito in modo cristallino che il bambino nel primo settennio di vita possiede una straordinaria capacità imitativa. Tutto il bambino è come immesso in questa sfera imitativa: imita con tutto il suo essere non solamente i gesti ma anche le emozioni e i sentimenti degli adulti a lui piú vicini. Queste emozioni e sentimenti struttureranno via via l’essere stesso del bambino. Per questo motivo gli educatori hanno una grande responsabilità nei confronti dei bambini. Per questa ragione “educare è un sacerdozio” (Giuseppe Lombardo-Radice, Il concetto dell’educazione, articolo del 1910 riportato in Educazione e diseducazione del 1929, Firenze 1968).

 

Crediamo di dover insegnare ai bambini il significato delle emozioni mentre i “progetti sulle emo­zioni” sono quanto di piú sciatto e triviale si possa portare incontro allo spirito infantile: è come se proponessimo ad un affamato un corso sulle vitamine.

 

 

La compassione: un esempio

 

La compassione non nasce perché al bambino viene spiegato che occorre essere comprensivi e soccor­revoli verso chi è in difficoltà, ma sorge, quale sentimento, per via di una metamorfosi della propria espe­rienza di dolore. L’esperienza del dolore – che vogliamo a tutti i costi impedire e che cerchiamo di ane­stetizzare e di ottundere – è il fondamento per provare compassione. Devo conoscere il dolore (il dolore per la “bua”, per un’ingiustizia subita, per un rimprovero del maestro) per riconoscerlo anche negli altri. Attuerò per imitazione, con gli altri, quel sentimento di cura e protezione con cui io stesso sono stato curato e protetto a seguito di un’esperienza dolorosa. In assenza di cure amorevoli, oppure in assenza dell’espe­rienza della sofferenza in me, si creerà una ‘zona cieca’, un vuoto che verrà riempito dall’indifferenza, dall’assenza di risonanza.

 

Questo vuoto non si genera meccanicamente: ci sono buone probabilità perché questo accada in certe circostanze, eppure l’essere umano è sempre libero e non viene determinato meccanicamente dai fattori ambientali. Questi fattori – in assenza di reali progetti educativi – giocano però un ruolo determinante per la formazione morale delle generazioni in crescita.

 

L’educazione ai sentimenti non c’entra un bel niente con questo processo esperienziale. Qui il pro­blema non risiede nell’incapacità di riconoscere i sentimenti quanto piuttosto di provarli.

 

Il presupposto alla psicopatia sociale che caratterizza i nostri tempi è una forma di psico-apatia, di assenza emotiva prodotta dall’impossibilità di metamorfosare il contenuto della relazione Io-Tu.

 

Cos’è che genera questo vuoto emotivo?

 

Qualche anno fa chiesi ad un mio alunno di quarta elementare: «Ma non hai amici?».

 

E lui: «Sí, ma il sabato sono tutti offline».

 

 

La risonanza emotiva e la danza tra vicinanza e separazione

 

Tutto in bocca

 

L’interesse è partecipazione attiva. Per gli adulti l’in­teresse assume generalmente una forma conoscitiva: ci interessiamo a qualcosa, curiamo i nostri interessi… per un bambino le cose stanno diversamente. L’interesse, per i bambini, assume un carattere esplorativo: i bam­bini toccano, annusano, conoscono mettendo in bocca gli oggetti, ‘studiano’ le qualità degli oggetti strofinan­doli sul corpo.

 

Un artista dipinge un campo di grano, un bambino corre tra le spighe; quello che fanno è la stessa cosa: compiono un’esperienza religiosa, riuniscono quel che è stato diviso.

 

Siamo separati dalla natura (i filosofi esistenzialisti direbbero ‘gettati’ nella natura): senza questo “trauma originario” non saremmo liberi, eppure viviamo con l’intimo desiderio di recuperare lo stato fusionale con il tutto. L’arte origina da questa ferita: separazione e vicinanza danzano insieme. L’interesse del bambino assume un carattere conoscitivo mediante l’esperienza tattile e mediante il movimento. Attra­verso il toccare e il muoversi verso ciò che è interessante il bambino sperimenta uno stato fusionale con quanto percepito, ma al contempo una separazione. Di questo argomento ho trattato ampiamente in un arti­colo in quattro parti dedicato al senso del tatto cui rimando la lettura per un necessario approfondimento:

 

www.larchetipo.com/2020/11/pedagogia/il-senso-del-tatto/

www.larchetipo.com/2020/12/pedagogia/il-senso-del-tatto-2/

www.larchetipo.com/2021/01/pedagogia/il-senso-del-tatto-3/

www.larchetipo.com/2021/02/pedagogia/il-senso-del-tatto-4/

 

È il senso del tatto a permetterci di sperimentare vicinanza e separazione. Questi due processi avven­gono contemporaneamente nel bambino: un po’ come quando si è innamorati. Sentiamo di essere tutt’uno con la persona amata, ma al contempo sentiamo di esserne anche divisi. Questo sentimento di vicinanza-distanza è bellissimo. Mi accorgo di amare quella persona proprio perché avverto questa inti­mità nella distanza: le sono vicino pur essendo lontano. Quando sono vicino alla creatura che amo, posso avvertire l’infinita e meravigliosa distanza che separa i nostri mondi. Sono esperienze cosmiche: ci permettono di conoscere la vastità del nostro essere. Se queste due cose non accadessero simultanea­mente, ci ritroveremmo in una condizione paradossale, patologica: vivremmo le esperienze sentimentali o con manifestazioni di totale possessione o con la tendenza ad uno stato di perenne abbandono, di perenne isolamento.

 

 

La naturale capacità di cogliere l’essenziale nelle percezioni: il sentire conoscitivo

 

Se il bambino non possedesse la reale capacità di cogliere autonomamente la natura intima delle cose, in modo intuitivo, neppure noi adulti potremmo disporre di un pensiero intuitivo: non potremmo scoprire

 

la legge che sovrasta i fenomeni, non potremmo elaborare teoremi. L’essere umano, quando conosce, sopravanza se stesso e si immerge in un’atmosfera sovrasostanziale: pensa i pensieri del dio che ha in­ventato il fuoco o che ha ordinato tempesta agli elementi. È chiaro che per scoprire una legge fisica dovrò ragionevolmente conoscere la fisica: il processo intuitivo è però insito nel mio essere. Il mondo del pen­siero è il mondo dello Spirito – non lo Spirito dogmatico delle dottrine religiose – ma quello dove si concorre all’attività del Logos che struttura il mondo.

 

L’Eureka! di Archimede non avrebbe senso senza questo “sentire conoscitivo” che ci connette intima­mente al fenomeno osservato.

 

Per esplorare queste regioni del sentire abbiamo bisogno di frequentare la poesia, l’arte: qui il con­tenuto delle parole inizia a divenire rarefatto, un po’ come quando si fa un’escursione in alta montagna. Dovrete perdonarmi se da questo momento farò ricorso con maggiore frequenza al pensiero degli artisti.

 

 

L’esperienza tattile secondo Rudolf Steiner

 

Abbracciare un giocattolo

 

Rudolf Steiner ha detto che l’esperienza tattile del bambino è un’autentica esperienza religiosa. Ag­giungo che quando un bambino fa un’esperienza tattile, entra in contatto con la sostanza di cui è fatto il mondo, anzi, entra in contatto con la sostanza da cui il mondo stesso è generato. Qui compare il concetto della sostanzialità del Mondo di Rudolf Steiner. Sono debitore al grande pedagogista Henning Köhler per la scoperta di questo pensiero del Dottore.

 

Attraverso l’esperienza tattile il bambino entra in rapporto con “l’officina” entro cui viene plasmato il mondo: entra in rapporto con le forze formatrici del mondo, con l’essenza delle cose che egli percepisce. Quando un bambino porta qualcosa in mano, oppure la strofina sul suo collo o sul pancino, oppure la gusta tenendola un po’ in bocca, si dedica ad un’attività contemplativa. Si tratta di una percezione totalmente diversa dal nostro tipo di percezione. Ed è per questo che noi capiamo cosí poco la sacralità dell’esperienza tattile del bambino. Il ca­rattere religioso dell’esperienza tattile può essere sperimentato solo con certi materiali, e certamente non con la plastica, per­ché essa non garantisce al bambino alcuna esperienza contem­plativa. L’esperienza religiosa è un’esperienza di riunione, di riavvicinamento. Eppure quando capiamo di essere un tutt’uno con la pianta, con i fiori, con l’acqua… abbiamo anche la reale coscienza di essere separati dalle cose: di essere un Io.

 

 

La parola agli artisti

 

Lavarsi le mani

 

Il cantautore Lorenzo Cherubini (in arte Jovanotti) ha scritto una canzone intitolata Fango in memoria del fratello Umberto scomparso prematuramente a seguito di un incidente. In quella occasione tragica – il momento di massima distanza dal Tu – ha scritto questi versi molto semplici eppure molto interessanti se ascoltati nell’economia della canzone: «Io lo so che non sono solo anche quando sono solo /E rido e piango e mi fondo con il cielo e con il fango». Nel momento di massima distanza, di massima solitudine, Jovanotti celebra la sua comunione con gli elementi.

 

Qui, in questi pochi versi, si coglie l’esperienza fusionale che è alla base dell’attività percettiva del bambino. Certo anche noi, di tanto in tanto, viviamo questa esperienza, ma il bambino la vive costantemente: quando gioca con l’acqua tenendo le mani sotto al rubinetto, quando si distrae in classe e gioca con le matite, quando osserva un fiore… il bambino è costantemente immerso in questa atmosfera fusionale.

 

 

Esperienza fusionale, separazione e risonanza – Quando la risonanza non è possibile

 

«Il nostro apprendere non è che un ricordare», scrive Platone nel Fedone (Fedone, 72 E).

 

Il bambino si fonde con il cielo, con il fango ma non di certo con la plastica: non può farlo perché nella fucina in cui viene plasmato il mondo la plastica non c’è. Il bambino non ha un “ricordo onto­logico” della plastica. Quando il bambino incomincia ad esplorare il mondo, il conoscere coincide mira­bilmente con il riconoscere. Dinanzi alla vastità del mare un bambino direbbe: «Dove io e te ci siamo già conosciuti? In quale luogo, prima che fossimo un Io e un Tu, noi due eravamo un tutt’uno?».

 

Queste sono esperienze liriche, e solamente un fine poeta potrebbe dar voce ad un dialogo del genere, a caratterizzare questo stato percettivo.

 

Ci sono esperienze tattili che non creano un dialogo tra l’oggetto percepito e il bambino, bensí una zona cieca, un vuoto. In queste condizioni non si invera alcuna comunione tra l’essere del bambino e l’oggetto percepito. È solo la comunione tra oggetto percepito e soggetto percipiente che dà luogo alla risonanza.

 

Secondo Steiner, attraverso l’esperienza tattile il bambino entra in sintonia con l’essenza delle cose, diciamo pure: ‘con la cosa dall’interno’. La percezione del bambino è una percezione poetica. I poeti riescono a capire le cose dall’interno, a descriverle, a coglierne i processi segreti, e anche i bambini fanno questo: non vi è nulla di esoterico in questa capacità percettiva.

 

Distanza e vicinanza sono i ‘progenitori’ dell’interesse. Verso alcune cose i bambini si rivolgono con simpatia e fiducia, altre procurano diffidenza o antipatia. Il mondo tocca il bambino ed egli può arrivare a comprendere di essere qualcosa di diverso dal mondo: fa l’esperienza della “delimitazione”. Poi sorge in lui la possibilità di differenziare, di rivolgersi alle cose andando liberamente verso ciò che piú gli aggrada: accarezzare, gustare con il corpo. Ed ora il bambino può dire: «Vado verso il mondo con interesse, con gusto». Da questo momento nasce la comunicazione: una comunicazione autentica, anche se non mutuata dal linguaggio. Il bambino non sa dare un nome all’oggetto né alle caratteristiche che glielo rendono amabile, eppure gli va incontro con interesse. Da ciò nasce un dialogo, perché i due sono uniti e diversi.

 

Sulle spalle di papà

 

Sempre nella stessa canzone di prima, Lorenzo Cherubini, scrive:

 

 

Un uomo guarda la sua mano

sembra quella di suo padre quando da bambino

lo prendeva come niente e lo sollevava su,

era bello il panorama visto dall’alto

si gettava sulle cose prima del pensiero

la sua mano era piccina ma afferrava il mondo intero.

 

 

L’attività tattile del bambino, nel suo senso spirituale, è un’attività conoscitiva profonda. Il bambino non sa dire “questo è un pezzo di legno”, ma intimamente lo riconosce come un suo fratello. Un bambino direbbe: “Io e te eravamo uniti un tempo, e adesso siamo un Io e un Tu”. Il bambino ha un ricordo ontologico della sostanza ed una nostalgia. A noi questo ricordo si desta solo con le persone amate, mentre ai bambini e ai poeti questo accade anche con i fiori, con gli alberi, con gli insetti e con le pietre.

 

Quando l’esperienza di dialogo si invera, quando il bambino è pervaso dall’interesse, allora può fare l’esperienza della risonanza. L’esperienza della risonanza è la capacità con cui il bambino sperimenta la cosa dall’interno, catturandone l’essenza. Nell’esperienza della risonanza il bambino sperimenta la cosa e contemporaneamente percepisce se stesso.

 

Ogni qualvolta il bambino tocca qualcosa con interesse, è come se dentro di sé la ricreasse. Quando comprendiamo qualcosa diventiamo un po’ quella divinità che ha generato quella cosa. Comprendere vuol dire “entrare in consonanza”, risuonare insieme. È questa consonanza che fa sorgere in noi il sentimento interiore di un riconoscimento, un’intimità con quella cosa o quella persona. Questa è la risonanza.

 

Occorre chiedersi se questa comunicazione originaria che è la risonanza può essere risvegliata anche at­traverso l’esperienza virtuale, il metaverso, lo stazionamento coatto davanti allo smartphone della mamma. Sono domande alle quali dobbiamo dare una risposta.

 

 

Nicola Gelo (1. continua)