Ho un amico a cui piace divulgare, tramite le reti network, le notizie che ritiene importanti, o meritevoli di attenzione, e, per quanto io abbia la sensazione di star meglio mantenendomi alla larga dai social, devo dire che piú di una volta ha colpito nel segno. Il che significa che è bravo lui nello scegliere le news, oppure io sono diventato un vorace consumatore di sottigliezze tuttologiche senza accorgermene. Succedono un sacco di cose, può succedere anche questo.
Una informazione ricevuta è la seguente: «L’8 luglio 1921 nasceva Edgar Morin, che oggi compie 102 anni». Pensiero del Morin: «Il carattere complesso dell’attività pensante …associa incessantemente in sé, in modo complementare, processi virtualmente antagonistici che tenderebbero ad escludersi l’uno con l’altro. Cosí il pensiero deve stabilire frontiere e traversarle, aprire concetti e chiuderli, andare dal tutto alle parti e dalle parti al tutto, dubitare e credere, esso deve rifiutare e combattere la contraddizione ma, nello stesso tempo, deve farsene carico e nutrimento».
Dopo un primo momento di sconcerto (solo in parte dovuto al fatto che non conoscevo Edgar Morin, né sapevo quale fosse il suo punto di vista sullo stato del pensiero moderno) ho cominciato a masticare la frase per sentire in che modo la logica ivi espressa incontrava la mia, e se una affermazione di questo tipo. poteva, eventualmente, suscitare un momento di concordia filosofica.
Ma attenti: con la logica non si scherza! È piú facile che sia essa a prendersi gioco di noi; per cui bisogna procedere come i palombari di una volta, con i piedi piombati. Dunque…
A proposito di dunque. Un lontano ricordo m’interrompe; si tratta di un vecchio fumetto per ragazzi che raccontava storielline di una fattoria di animali; quel dunque me l’ha fatto tornare alla mente.
Una sera, all’imbrunire, l’anatroccolo Duffy e il maialino Piggy stanno seduti sulla staccionata a guardare il cielo che si tinge di un blu intenso e le stelle che cominciano a comparire in gran quantità. Quasi parlando tra sé, a Piggy scappa un commento: «Guarda quante stelle! E pensare che alcune distano da noi centinaia e anche migliaia di anni-luce!».
Dopo un lungo silenzio, Duffy, sommesso, porge la domanda: «Scusa, Piggy, cos’è un anno-luce».
Al che il maialino sospira alquanto e poi risponde: «Non è semplice, Duffy. Ma va bene, cercherò di spiegartelo. Dunque, devi sapere…».
«Un momento, un momento Piggy! Non correre! Cosa vuol dire dunque?».
Come si deduce dal raccontino, quando ci mettiamo in testa di affrontare pensieroni difficili (diciamo pure complessi) bisogna partire col piede giusto, sennò l’anno-luce diventa cosí distante che finisce per svanire nel nulla.
Che voglio dire? Non trovo le parole per spiegarlo bene, ma secondo me una delle condizioni principali per cui la verità viene a manifestazione è la semplicità, sempre che questa stia sull’asse in cui la verità scorre e si esplica. Quando l’anima si spoglia di tutte le sue complicazioni allora riesce a splendere, perché la verità la illumina. La verità è come il sole: scalda e riluce tutto quello gli sta attorno e che saggiamente deve muoversi e rigirarsi di continuo per venire adeguatamente scaldato e rischiarato in tutte le parti.
Per cui i tempi d’esposizione devono essere parziali e costanti mentre la luce della verità si offre appieno senza soste o alternative. Come modellino teorico mi pare elementare ma efficace.
Ma è pure semplice? Dipende. Quando ciascun componente fa quel che ha da fare, ogni sistema si presenta come semplice a chi l’osserva da fuori; al punto tale che la scienza ha coniato il nome di “leggi” per indicare la precisione e la regolarità nella cadenza e nella esecuzione degli svolgimenti naturali.
Quando tuttavia vogliamo trasferire un modellino di questo tipo anche all’interiorità dell’uomo, allora vediamo subito che le cose non funzionano cosí placide e spedite come in quella che comunemente chiamiamo natura esterna.
C’è una vecchia poesia napoletana di Gennaro Sansone che, a tal riguardo, merita d’essere richiamata: «Quanno ’n cielo ’n angelillo, nun fa quel ch’a da fa, intr’a ciella scura scura, il Signore ’o fa ’nzerrà».
Se questo accade agli angelilli un po’ discoli e irrispettosi, immaginiamoci cosa può succedere a noi, membri del genere umano, che in fatto di sfrontatezza e ribalderia non siamo secondi a nessuno. Ma noi abbiamo l’impulso alla libertà individuale, ed è questo impulso che ci rende unici in tutto il creato. Unici nel bene, se la libertà è colta come viva idea; unici nel male, quando è solo un esangue riflesso della prima.
Non serve neppure il castigo divino: intr’a ciella scura scura ci siamo già inserrati da lungo tempo, e stiamo facendo di tutto per renderla sempre piú aspra, tenebrosa e sconquassata, nonostante il sole, i pianeti, le stelle e tutti gli altri corpi celesti insegnino giorno e notte la lezione silenziosa dell’armonia, dell’equilibrio e della vivificazione del Principio.
Per cui la logica che si adopera nell’enunciare teorie, ipotesi e assiomi deve tener in debito conto le nostre frequenti cadute, non solo di stile, ma anche, nel caso in esame, di rigore intellettuale e di compatibilità all’esperienza pratica dell’esistere.
Ad esempio, l’idea di una medicina basata sull’evidenza è un felice esempio della genialità umana; ad essa si oppone, come follia (facilmente riconoscibile) quella di insistere sull’intelligenza artificiale.
Per l’uomo d’oggi, i concetti di conoscenza, di moralità e di libertà viaggiano ben distinti e su binari diversi. Dare aiuto ai paesi poveri, dove la gente muore di fame e di malattie, è un sacrosanto dovere per coloro che possono farlo; ma celare armi e bombe nelle spedizioni di aiuti umanitari e farli andare in giro per il mondo sotto l’egida della Croce Rossa Internazionale o di altre O.N.G. è un disegno che svela la turpitudine dei poteri interessati all’operazione.
Permettere che due nazioni confliggano tra loro producendo lutti e devastazioni, non solamente stando a guardare da spettatori la penosa vicenda, ma addirittura fomentando incessantemente l’opinione pubblica con notizie e cronache parziali e contraddittorie, è cosa che neppure la criminalità organizzata si permetterebbe di fare; eppure – dall’altra parte, dove divise e tute mimetiche incontrano colletti bianchi e paludamenti elitari – vengono già poste le basi del colossale business della riparazione e ricostruzione dei danni provocati dalla guerra.
Quindi, là dove Morin punta il dito, sulla necessità cioè del pensiero moderno di riuscire ad afferrare in sé le profonde divergenze che separano stati, nazioni, regioni, etnie, schieramenti di culto o ideologici, ha perfettamente ragione. Non occorre fare il mestiere del prestigiatore per capire che se la mano sinistra fa cose incompatibili con quelle che fa la destra, hai chiuso bottega ipso facto, e, caso mai, puoi sempre arrangiarti come clown. Nel grande circo multifunzionale dell’umano c’è sempre posto per chi sa come suscitare il sorriso negli altri; tutto sommato è già sulla buona strada.
Ma nell’intimo dell’uomo i temi collegati alla spettacolarità equestre assumono risvolti ancora piú complessi e intricati. Lo vedo per quanto riguarda me stesso e le decisioni che ogni giorno devo prendere per sbrigare normali situazioni di vita, pure piccole e semplici, però talmente numerose e improvvise che a volte mi accade di perdermici dentro.
Quando sei chiamato a valutare sul da farsi, e in piú la situazione richiede un provvedimento urgente, è facile trovarsi in imbarazzo, anche perché riesci a vedere sia il lato positivo sia quello negativo della soluzione da adottare; il che crea una specie di stallo psicofisico, e oltre al desiderio di uscirne al piú presto, la produzione di idee, come si suol dire “vincenti”, si lascia desiderare.
Diciamolo esplicitamente: quando la testa ed il cuore affrontano uno dei molteplici aspetti della realtà, piú è forte la drammaticità di questo aspetto, e piú caotico diventa il rapporto tra il pensare e il sentire (escludo qui il volere, in quanto è chiaro che almeno quest’ultimo nei casi determinati e circoscritti ha un indirizzo preciso).
Scavalcando tuttavia il mondo delle percezioni e delle rappresentazioni, e posizionandoci quindi sul piano prevalentemente concettuale, come per esempio quello delle scienze, della filosofia o della cultura in genere, può capitare che pure lí s’incontrino “nodi da sciogliere”, astratti nella forma ma contemporaneamente molto concreti nella sostanza.
Per esempio due medici chirurghi, di pari valore ed esperienza si trovano in disaccordo su come intervenire su un paziente il cui fisico, già compromesso dall’età e da altri acciacchi, si presenta sul tavolo operatorio in condizioni tutt’altro che ottimali. A dispetto della loro assodata buona preparazione e dell’impegno professionale, possono sorgere divergenze sul modus operandi (è il caso di dirlo) capaci di diventare per l’uno o per l’altro (in alcuni casi per ambedue) un dissidio interiore, un conflitto di coscienza che può durare anche per il resto della vita.
Grazie al cielo, non sono un medico né tanto meno un chirurgo (mi riferisco ovviamente al peso delle responsabilità); le mie difficoltà nel cercare di armonizzare gli opposti riguardano al solito cose non grandi, ma non per questo meno importanti; tenuto conto del valore della conoscenza in sé, come riferimento e indirizzo ideale, un avvallamento di terriccio o il Nanga Parbat, di contro alla statura di chi annaspa in un momento di esitazione, presentano dimensioni concettuali parimenti elevate.
È qui che volevo arrivare: osservare e gestire le grandi contrapposizioni (bene/male, amore/odio, egoismo/ altruismo ecc.) è pressoché impossibile come esercizio di base, ci si arriva soltanto dopo lunga esperienza sul campo; nel frattempo possiamo allenarci con elementi di contrasto che siano alla nostra portata e che, nella maggioranza dei casi, ci scorrono davanti senza sollevare in noi neanche una modesta richiesta di approfondire. Li vediamo, li leggiamo, ce li raccontiamo, magari li meditiamo pure, ma senza ricavare quel senso che forse avrebbero voluto farci ricavare.
Eppure quelle opposizioni binomiali, quei contrasti di logica, sono pensieri; e se noi non traiamo da quelli una spinta che possa condurre ad una sintesi superiore, ove i contrasti si stemperano in quanto risolta la loro funzione provocatoria, allora significa che li abbiamo incontrati con un non-pensare, per il quale è del tutto indifferente esaminare e distinguere.
Prendiamo un titolo di un libro qualunque: per esempio, Il Libro della Giungla di Kipling, o L’Isola del Tesoro di Stevenson. Chi ha tempo a disposizione per fare una passeggiatina col proprio pensiero, nell’osservare tali titoli, senza la virgola posta dopo Giungla e dopo Tesoro, potrebbe porsi la questione: 1) cos’ha da riferirsi a Kipling, Il Libro o la Giungla? e, 2) a Stevenson, riguarda piú L’Isola o il Tesoro? Perché, anche se non pare, sono due interpretazioni che portano a considerazioni lievemente diverse.
Lievemente, ho detto, come partenza; ma se si costruiscono ulteriori pensieri lasciando in sospeso il dubbio iniziale, allora stiamo facendo la cosa sbagliata; ci comportiamo come un costruttore edile incosciente e malandrino, che fa erigere una casa a piú piani sapendo che le fondamenta non sono state rese solide quanto previsto dalle leggi, dal buon senso e dell’etica professionale. Per vivere l’esistenza d’ogni giorno, tale chiarimento sulla solidità della base, non è obbligatorio. Ma nell’esercizio volente del pensare, i fondamenti non sono scansabili, come non sono scansabili le responsabilità morali che derivano dall’aver scelto una via interpretativa e decisionale, abbandonando l’altra al suo destino.
Questo nel senso che è opportuno avere ben presente che ogni frase detta, letta e pronunciata viene colta, riletta e soppesata non solo dalla mente dell’ascoltatore, o del lettore, ma anche dalla sua coscienza; la quale sviluppa in sé ogni volta vari livelli di collocazione, non solo della percezione/rappresentazione, ma anche del valore umanamente attribuibile ad essa.
La ragione può anche non curarsi delle minuzie sorte da una mentalità un po’ tortuosa e pedante, giudicandole inconsistenti come quisquilie, ma nelle coscienze vige un diverso sistema di misurazione: non esistono cose da scartare, ma solo valori da soppesare.
Molti aneddoti sono stati narrati sul Dottore; in uno di questi, qualcuno gli chiese «Perché agli antroposofi è fatto divieto di bere alcoolici?». Al che il dottor Steiner rispose (credo di poter dire, con una punta di garbata ironia): «Non mi risulta che gli antroposofi bevano alcoolici».
Per una logica terra-terra che si accontenta d’aver colto la battuta con tanto di replica, tutto ciò sfuma e resta un simpatico ricordo. Ma per una comprensione maggiormente avveduta, è chiaro che c’è una discrasia tra la domanda e la risposta. Sarebbe come chiedere il motivo per cui le circonferenze debbano essere tutte tonde; e sentirsi rispondere che se davvero vogliamo che siano circonferenze, non possono avere una forma diversa. In tal caso, ovviamente, viene a disperdersi tanto il significato preciso dell’aneddoto, quanto il valore etico dell’insegnamento che lo sottende.
Vediamo quindi che per soddisfare appieno intelletto e coscienza, si rende necessaria una cooperazione tra i due grandi poli dell’organizzazione umana: pensiero e moralità.
Arriviamo ora ad un punto in cui viene da domandarsi come e in quale modo quanto detto fin qui si riallacci alla frase di Edgar Morin, dal momento che da essa siamo partiti per la nostra indagine.
Non c’è dubbio che la configurazione degli opposti e le scelte spesso difficili, talvolta ardue, che vi si connettono, rappresentino un bene prezioso per lo sviluppo del nostro pensare. Ma l’indicazione del filosofo francese non evidenzia il fatto che questo è successo sempre e ovunque nel progredire dell’umanità pensante. Se nell’epoca moderna le cose presentano adesso un aspetto piú grave di una volta, sicuramente vuol dire che qualcosa è mutato in peggio. Ma cosa?
Pensare, sentire e volere esistono da prima che l’uomo abitasse le caverne, e per quanto possa sembrare complicato metterli d’accordo fra loro, le funzioni suindicate sono sempre state esercitate adeguatamente, sia nel bene che nel male.
L’Antroposofia ci aiuta a risolvere questo piccolo mistero, che tutto sommato, per il campo che investe e in qualche modo ne diviene elemento dominante, deve avere la considerazione che gli spetta. Rilevare un errore significa anche possedere le forze per rettificarlo. Altrimenti resteremmo tutti col fiammifero in mano, ci bruceremo le dita e molti grideranno al cielo: «Oh che disgrazia! Oh che sciagura!».
Il conoscere e l’essere morali non sono l’identica cosa. Ma Rudolf Steiner ci ha fatto capire al contempo (e a chiare lettere) che senza la moralità il nostro conoscere è spurio, infondato, non ci porta da nessuna parte (ovvero, ci fa girare all’infinito per tutte le parti) e che il valore della progressione conoscitiva in sé, ove non sia corroborato da un adeguato e responsabile senso di autoconsapevolezza, è simile a quello di uno scalatore, il quale, anziché affrontare l’intera parete di roccia, ne scali ogni giorno gli stessi dieci metri, ritenendo cosí di poter compiere, in un mese, piú o meno, lo stesso percorso che l’avrebbe portato sulla cima.
Come si può desumere, l’interpretazione quantitativa esclude quella qualitativa. E chi si ostina a contare sulle dita non arriverà mai a conoscere la piena funzione delle mani.
Entrando nel settore della complessità, è molto probabile che continuiamo a ragionare sulla numerosità dei fenomeni e sulla loro misurabilità; non sulla natura dei fenomeni stessi. La fisica teorica ci dice che nel mondo subatomico la nostra osservazione è impedita quando vogliamo rilevare contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella. O abbiamo la prima oppure abbiamo la seconda, ma non entrambe nello stesso esperimento.
Invece il salto di qualità che cerco di descrivere in questo scritto, pur partendo dalla osservazione di ciò che ci sta davanti e che possa venir percepito simultaneamente come un “contrasto”, trova in questo la condizione migliore per far scaturire la sintesi. Ma a sua volta, essa si manifesta solo se in quel preciso istante la coscienza dello sperimentatore riesce a salire, a innalzarsi, a sollevarsi da quella che è la sua normale sensibilità, per entrare cosí in una particolare atmosfera d’intuitività che vorrei poter definire “artistica”, dal momento che ogni altro termine sarebbe improprio.
Almeno questa è la mia esperienza personale; e da quel poco che ne sono riuscito a comunicare con amici che s’interessano e si appassionano a simili fatti, credo anche di poter dire che non solo tutto questo è fattibile, ma è anche alla portata di chiunque.
Per farmi intendere al meglio, porterò alcuni esempi concreti. Nel primo, presento una cartolina dipinta da un amico, che insegna matematica e fisica in una scuola superiore di un’altra città. Il disegno rappresenta due gnomi, o nanetti, che confabulano seduti in una specie di grotta sotterranea; al di sopra, un enorme abete li sovrasta, un abete che si eleva fino al cielo (forse notturno) ma illuminato da una grande stella. Poiché la cartolina mi è stata spedita nel periodo di fine anno, sembra evidente che il suo significato si esaurisca in un bel pensierino natalizio.
Invece no, non è cosí; con questo amico ho da quasi un anno iniziato un rapporto di scambio di pensieri, vedute, informazioni, commenti circa la Scienza dello Spirito e lo studio dell’interiorità umana, attraverso l’insegnamento di Rudolf Steiner e di Massimo Scaligero (ai quali sempre mi riferisco, perché come ho spesso affermato, sono i miei due caposaldi della ricerca spirituale).
Nella parte della cartolina riservata alle comunicazioni, l’amico ha scritto cosí: «Ecco una immagine di noi due che discutiamo sui misteri…».
Ancora oggi non so se tutto ciò che gli comunico al telefono o via e-mail gli possa essere utile a livello conoscitivo e/o formativo: io faccio quello che posso, poi il resto tocca a lui…
Tuttavia gli sarò per sempre grato d’averci raffigurato come due nanetti sotterranei che parlottano su cose ben piú grandi di loro: c’è tanta bontà, intelligenza e intuizione nell’aver saputo cogliere quel magico momento d’intimità in cui un essere umano condivide con un suo simile il pane della conoscenza, che di colpo mi ha fatto capire – ovviamente in modo artistico – il valore del rapporto creato e il rispetto di entrambi per l’avventura intrapresa. Dal buio ipogeo della solitudine e dell’ignoranza, le anime risalgono all’eterico della vita, simboleggiata dall’abete gigante, e si spingono oltre, fino alla stella che illumina in cielo la via verso lo Spirito.
Non dovete però credere che questa mia interpretazione sia nata nel momento in cui il postino mi ha recapitato la cartolina; l’ho guardata, vista e rivista dozzine di volte, e mi son detto “Davvero un bel disegnino; simpatico ’sto professore!”.
Poi (sono passati sette mesi) è venuto il giorno in cui, osservando il quadretto per l’ennesima volta (potrei dire in modo del tutto casuale, ma so che non lo è ) mi si è acceso un piccolo barlume nella testa. Tutto è divenuto subito chiaro; confluito e ricomposto in un senso unico, inequivocabile; la complessità dei vari elementi si è risolta in semplicità squillante. Nella coscienza, quello che fino allora poteva essere solo un vago e probabile indizio, si è illuminato di Verità lampante, indiscutibile, apodittica.
Forse questo esempio non convince? Forse è una mia esaltazione o è un segreto impulso di veder realizzato un cordiale desiderio?
Va bene; allora porterò un secondo esempio, piú probativo del primo, perché tratta di un fatto di cui sono stato semplice spettatore; al riparo quindi da elementi emotivi e da slanci soggettivi.
Accadde molti anni or sono, durante un seminario di temi spirituali, tenuto in un vecchio teatro dell’Oltrepò Pavese. Il conferenziere conosceva molto bene l’Antroposofia, ed era un uomo veramente capace nell’intrattenere il pubblico con argomenti di alto livello. Ma quel che piú mi aveva colpito di lui era il suo saper gestire con notevole padronanza gli incidenti di percorso, che non mancano mai quando ci si rivolge ad una platea eterogenea e differenziata per preparazione, cultura ed estrazione.
Nelle ore finali dell’ ultima giornata dei lavori, normalmente riservata a domande, chiarimenti e interventi rivolti all’oratore da parte dei convenuti, una giovane signora, chiesta la parola, si alzò in piedi e proferí queste parole: «Mi spiace doverlo dire, ma in questi giorni di seminario, lei ha piú volte offeso la mia religione cristiano-cattolica, il Papa e le Sacre Scritture. Lascio quindi questa riunione con l’amaro in bocca; la sua conferenza non solo non mi ha convinta, ma mi ha ferito profondamente il cuore e i miei piú intimi sentimenti».
L’indiziato rimase per alcuni minuti in silenzio, guardando la sua accusatrice con un’espressione benevola, appena lievemente preoccupata, mentre tutti noi del pubblico eravamo davvero sbigottiti per quell’attacco cosí diretto e violento a poca distanza dal momento dei commiati e dei saluti.
Poi, mentre ci aspettavamo chissà quale replica vigorosa e tonante quanto l’accusa, il relatore riprese la parola col tono di sempre, attento e tranquillo: «Posso farle una domanda?» chiese a bassa voce- «Se lei ripensa con calma e obiettività alle parole che ha detto, affermerebbe ancora che sono io ad averla offesa? Oppure le sembrerebbe di maggior precisione dire che è stata lei a sentirsi offesa? Perché, vede, tra le due posizioni corre una grande differenza. Lo sa lei, lo so io, lo sanno tutti quelli che hanno sentito. In pratica, c’è stata qui un’azione seguita da una reazione. Adesso chiedo a lei, e anche al pubblico presente, che, forse senza volerlo, lei ha comunque coinvolto, chi tra noi due ha agito? Chi ha subito?».
Incredibilmente socratico, stemperante e perfettamente mirato. Non vado avanti nel racconto perché non c’è bisogno. Basti dire che dopo un animato e intrigante dibattito tra i presenti, la signora in questione volle appartarsi con l’oratore per un colloquio confidenziale; dopo una mezz’oretta, li abbiamo rivisti prendere cordialmente il caffè al banco del piccolo bar del ridotto del teatro che ci ospitava.
La complessità degli eventi riflette l’urgenza di un’istanza superiore; una sintesi capace di abbracciare ogni umana discordia, ogni umana discrasia, ogni umana, a volte bestiale, conflittualità. Per attuarla necessita l’elevatura del massimo grado di coscienza raggiunto; non serve la statura del corpo e neppure l’impeto caotico e aggressivo delle forze dell’anima.
Da quel “finale” di conferenza ho tratto un insegnamento piú solido che non da tutti i temi esposti e dibattuti durante i tre giorni dei lavori svolti. Capii che se sei in grado di volgerti senza mediazioni alla verità interiore, che è sempre presente in ciascuno di noi, e di farti illuminare da essa, allora non hai piú timori e remore; nulla può scalfirti; sei libero tanto dai falsi riguardi quanto dai finti pudori; sei libero soprattutto dall’impulso di dover ribattere colpo su colpo quel che ti è stato scagliato contro, solo per mantenerti a galla aggrappato alla tua dignità. Anche le frecciate piú ignominiose non ti feriscono piú, ma anzi, dall’increscioso impatto con la situazione creatasi, nasce un fatto nuovo: ti si offre lo spunto per affrancare dal suo errore pure l’altro, quello che ti fronteggia e che, senza ragione, crede giusto avversarti.
Le differenze tra i vari stadi dell’interiorità dell’uomo si riducono in questo caso ad una sola: quando hai il privilegio di cogliere lo Spirito, trovi anche la forza (quella buona, quella giusta) di proporlo a chi non sa o non ricorda d’averlo.
Sono un affezionato del numero tre, per cui voglio presentare ancora un esempio; essendo quello conclusivo sarà bene che sia il piú efficace e completo. Prenderò due citazioni, la prima tratta dal Vangelo di Giovanni:
1. “Conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi”
e l’altra dalla Filosofia della Libertà di Rudolf Steiner:
2. “La moralità è una proprietà specificatamente umana e la libertà è il modo umano di essere morali”.
Se quel “conoscerete la Verità” viene inteso come “strada umana verso la Conoscenza” (e non vedo quali ostacoli possano impedirlo) allora il senso ultimo delle due frasi si rinsalda; si apre su una versione insospettata.
Meditando congiuntamente questi due passi e facendolo per il tempo che è necessario, si giunge a comprendere che tra libertà, verità e moralità esiste una stretta correlazione, una specie di equivalenza di precisione quasi matematica, la quale porta a sostanza un collegamento, immaginabile anche prima, ma prodotto da pura astrazione mentale.
Se la Libertà ha come suo elemento cardine la Conoscenza, e la Moralità è la sua possibilità di specchiarsi ed esprimersi nell’umano, allora Conoscenza e Moralità sono i due risvolti della medesima medaglia.
Tale medaglia ha un unico nome. Un’ antica ballata dei rivoluzionari del nostro Risorgimento, lo faceva risuonare cosí: «La bella ch’è prigioniera, ha un nome che fa paura: Libertà! Libertà! Libertà!».
Ma oggi non si tratta piú di rivoluzioni; sono fallite tutte, e quelle ancora in corso falliranno, fintanto che il “risorgere” non diventerà frutto di un’azione interiore liberatrice. Che non può venir affidata a ulteriori moti di massa, non può avvalersi di morte e distruzione; né tanto meno di armi, strategie, intelligence e acrobazie diplomatiche, ma solo di cooperazione tra individui che hanno scoperto, da tutti gli scontri, armati e non, il vero motivo del lungo soffrire.
Un giorno, forse, nelle scuole verrà studiato questo secolo come il tempo della Resurrezione, e qualcuno, piú perspicace di altri, potrà commentare: «Beh, in fondo, non ci voleva poi molto!»
Ma quel che veramente importa è che attraverso il ricordo della brevissima, profetica poesia del caporale Giuseppe Ungaretti, ogni anima umana saprà al fine trasformare la sua strada di conoscenza in un altare di Ri-Conoscenza.
Quel momento – una comunione d’Amore dello Spirito umano con Quello dell’Universo – sarà sempre gratuito. È il nostro percorso svolto per raggiungerlo che dovrà sostenerne i costi.
Angelo Lombroni